Trattativa Stato-mafia, per il Pg: ”Ci sono riscontri, Riggio credibile”

Prosegue la requisitoria davanti la Corte d’Assise d’Appello. “Sentenza Mannino da rispettare, ma prove travisate”

“Le dichiarazioni di Pietro Riggio devono essere considerate con cautela ma anche con rispetto. Non sarebbe corretto metterle tutte da parte. E’ invece necessario tenere conto del suo ruolo di confidente in un triennio, che non può essere spazzato via. E deve essere creduto quando parla del suo rapporto di confidente della Dia e del suo ruolo di infiltrato in cosa nostra per arrivare alla cattura del latitante Bernardo Provenzano“. 
E’ questa la considerazione del sostituto procuratore generale Giuseppe Fici (che rappresenta l’accusa assieme a Sergio Barbiera) durante la requisitoria del processo d’appello sulla trattativa Stato-mafia, in corso davanti la Corte d’Assise d’Appello presieduta da Angelo Pellino (a latere Vittorio Anania). Durante il processo la deposizione dell’ex guardia penitenziaria, che dal 2018 sta rilasciando una serie di dichiarazioni su quanto avvenuto in quel tragico biennio e sulle sue conoscenze con esponenti deviati dei servizi di sicurezza, ha fatto discutere non poco e non solo per ciò che ha detto sulla strage di Capaci.
Sentito dalla Corte nell’ottobre 2020 è lui ad aver raccontato ai giudici della creazione di una squadretta per arrivare all’arresto di Bernardo Provenzano; del progetto di attentato al giudice Guarnotta; della morte di Luigi Ilardo; ed anche del possibile ruolo di Marcello Dell’Utri, imputato nel processo ed indagato a Firenze come mandante delle stragi, come colui che “suggerisce la creazione del nuovo partito e indica quelli che erano i luoghi delle stragi in Continente”. 
Un fatto, quest’ultimo, che gli sarebbe stato riferito da Vincenzo Ferrara, detenuto nel carcere di Villalba, che gli avrebbe rilasciato delle dichiarazioni nel 1994. 
“In sostanza – ha ricordato – si tratta di un soggetto in difficoltà psicologica che aveva avuto contatti e agganci con determinate realtà criminali e quindi il racconto è plausibile. Da qui ad affermare che ciò che Riggio ha avuto riferito dal Ferrara ‘ce ne passa’ nel senso che ritenere di poter utilizzare il relato di Riggio rispetto alle propalazioni del Ferrara per una serie di ragioni credo che non sia possibile poterlo sostenere. Potrebbe il Ferrara essersi allargato, potrebbe avere esagerato certe sue informazioni, potrebbe in quello stato emotivo particolarmente turbato aver aggiunto tasselli inventati a circostanze vissute. Potrebbe in astratto avere detto assolutamente la verità del vissuto e potrebbe aver detto in astratto le cose esattamente così come poi riferite a distanza di anni dal Riggio. Ma, non credo che questo lo si possa affermare al di là di ogni ragionevole dubbio nella misura in cui è una delle possibili ipotesi. Ciò che mi importa sottolineare è che Riggio nel parlare dei termini con cui ha parlato di questo Ferrara Vincenzo ha raccontato un fatto e ricordi che sono frutto di una sua esperienza di questo rapporto che ha avuto con questo detenuto che gli ha riferito queste circostanze”. Analoga considerazione, secondo il magistrato, può essere fatta per le confidenze che il collaboratore di giustizia avrebbe ricevuto da Angelo Ilardo o dai Carabinieri Pino Del Vecchio e Vincenzo Parrella. “Si tratta di circostanze certamente di rilievo ma poco significative per una valutazione del dichiarante Riggio posto che si tratta più che di fatti, di valutazioni di altri che Riggio si limita a riferire arricchendole di considerazioni personali”. 


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L’ex senatore, Marcello Dell’Utri


I riscontri
Ma ciò non significa che quanto riferito dall’ex agente di polizia penitenziaria sia tutto da buttare, anzi. 
In particolare il Pg si è concentrato sul ruolo di confidente che Riggio ha intrattenuto con la Dia, proprio allo scopo di catturare l’allora latitante Bernardo Provenzano. 
“Riggio – ha detto Fici – non era un mafioso ma un abile infiltrato della Dia. Va creduto se è vero che il suo rapporto con la Dia di Palermo è stato riscontrato.
Un ruolo che non può essere spazzato via solo perché in altre parti le sue dichiarazioni sono state indebolite da un eccesso di rivendicazioni emotive e le opinioni di terzi sembrano tradursi in fatti”. 
E poi ancora: “Tra il 2000 e il 2001 lo Stato, attraverso il collaboratore di giustizia Pietro Riggio è a due passi dal latitante Provenzano” ma “in autonomia carabinieri Ros e Dia decidono di rinunciare alla ‘talpa’, sacrificandola, che li avrebbe potuti condurre all’allora boss latitante Bernardo Provenzano”, una “scelta sospetta anche in considerazione del trattamento che i carabinieri hanno riservato a Provenzano”. Il boss corleonese viene indicato come “referente della trattativa a ragione degli accordi raggiunti a cui viene garantita la latitanza per oltre un decennio”.
In base alla lettura dell’accusa la scelta di abbandonare Riggio rientrerebbe in quel modus operandi che il Ros mise in atto in una serie di episodi, come la mancata perquisizione del covo di Riina o il mancato blitz a Mezzojuso, nel 1995. Episodi per cui ufficiali del Ros furono accusati ed assolti. “Ciò, però – ha evidenziato Fici – non esclude la possibilità che a distanza di tempo i fatti possano essere rivalutati”, specie se si considera che “vi è una catena di disattenzioni ed omissioni che vanno dalla cattura di Riina, fino alla cattura di Giovanni Napoli (di questo si è occupata l’accusa nella scorsa udienza) fino ad arrivare alla vicenda Riggio”. 

Riggio, la Dia e zio Tony
Fici non ha nascosto le criticità nel dichiarato del collaboratore di giustizia, come l’impossibilità che lo stesso ex agente penitenziario fosse stato direttamente partecipe delle verifiche del carcere di Firenze-Sollicciano come possibile istituto di detenzione per il Totò Riina (dato documentale), ma restano un’altra moltitudine di aspetti che non possono essere né nascosti, né taciuti. 
Secondo il Pg, in particolare, non si può non tenere conto del dato documentale del rapporto avuto tra Riggio e la Dia con il primo che fu un “infiltrato all’interno di Cosa nostra”. Un dato confermato anche dalle testimonianze del generale Angiolo Pellegrini e del colonnello Tersigni, anche se entrambi, a detta del magistrato, avrebbero “omesso di riferire dei particolari della storia decisivi”. “Riggio è stato abbandonato. Come si poteva svolgere il ruolo di infiltrato senza partecipare attivamente all’interno dell’associazione? Per avere delle notizie doveva accreditarsi”. 
Tra gli elementi di riscontro citati vi sono le corrispondenze epistolari con il Porto ed il Peluso, fatte ritrovare da Riggio, in cui si parla della squadra per la cattura di Provenzano”. 
E poi ancora ha ribadito: “Sulla storia del rapporto confidenziale con la Dia del colonnello Pellegrini, Riggio deve essere creduto se è vero, com’è vero, che è provato al di là di ogni ragionevole dubbio che è stato ingaggiato da organi dello Stato per infiltrarsi all’interno di Cosa nostra della provincia di Caltanissetta. Deve essere creduto, se è vero com’è vero, che è provato al di là di ogni ragionevole dubbio che ha fornito per almeno tre anni utilissime informazioni. Deve essere creduto, se è vero com’è vero, che è provato al di là di ogni ragionevole dubbio che è stato poi abbandonato al suo destino, o meglio ad un destino che doveva essere diametralmente diverso perché il suo inserimento nelle dinamiche mafiose della provincia di Caltanissetta era stato concordato con Tersigni, Pellegrini e Terrazzano e quindi nei suoi confronti è stata redatta una informativa calunniosa e falsa per omissione e comunicazione di notizie di reato da parte del Ros di Caltanissetta”. 
Particolarmente gravi le valutazioni del Pg sulle deposizioni rese dagli ufficiali Pellegrini e Tersigni: “Il teste Tersigni e soprattutto il teste Pellegrini non hanno offerto un leale contributo di verità (per usare un rispettoso eufemismo)”.
In conclusione, dunque, sarebbero due gli scenari possibili: uno grave ed uno gravissimo, ma entrambi in linea con il processo. “Partiamo dallo scenario gravissimo – ha continuato Fici – cioè che i Carabinieri gli hanno fatto credere di voler catturare Provenzano quando in realtà una tale volontà non c’era affatto. Scenario gravissimo che presupporrebbe come fatti accertati al di là di ogni ragionevole dubbio la vicenda dell’imprenditore che avrebbe consegnato il denaro che doveva essere recapitato al Provenzano unitamente ad un rilevatore satellitare. Suggerimento che i Carabinieri non coltivarono. E poi anche la vicenda dell’incontro nei pressi di Resuttana con il Peluso e tale Filippo (inteso “Faccia di mostro”) che avrebbero rappresentato al Riggio che lui era uno stupido nel non aver compreso che i Carabinieri non volevano affatto catturare il Provenzano e che lui così continuando ad agire rischiava la vita. Scenario gravissimo che, in mancanza di validi e specifici riscontri, nella consapevolezza di indagini ancora in corso da parte di altre autorità giudiziarie, non può, allo stato, in questo giudizio essere preso in considerazione nel rispetto del canone dell’oltre ragionevole dubbio”. Quindi ha aggiunto: “Lo scenario grave invece, provato oltre ragionevole dubbio, si tratta di una vicenda caratterizzata nella sua genesi dalla presenza ingombrante di un equivoco personaggio cui il colonnello Pellegrini all’epoca capocentro della Dia di Roma ha dato grande affidamento e addirittura ne ha seguito le direttive. Si riferisce a Mazzei Antonino, personaggio gravitante nel sottobosco dei servizi di sicurezza e personaggio del quale il generale Pellegrini ha taciuto anche dinnanzi a questa corte e in spregio dunque del prestato impegno a dire la verità e a non tacere nulla di quanto a sua conoscenza. Personaggio del quale il generale Pellegrini ha taciuto a codesta corte di essere stato una sua importante fonte informativa e in particolare essere il soggetto che per primo gli parlò di Pietro Riggio. Scenario grave trattandosi di vicenda caratterizzata nel suo sviluppo da un’ambigua (a tacer d’altro) gestione della fonte con carenza, ovvero con successiva distruzione di ogni traccia documentale idonea a ricostruire cosa la fonte ha riferito, cosa è stato fatto, quali indicazioni sono state date nei primi 18 mesi”.
“Uno scenario grave trattandosi di vicenda caratterizzata, nel suo avvio, da una illogica esclusione da ogni ruolo del Tersigni, ovvero molto più plausibilmente caratterizzata da una concertata falsa testimonianza su tale specifico aspetto. Scenario grave trattandosi di vicenda caratterizzata da un’ambigua e illogica gestione della fonte sollecitata a infiltrarsi e poi tradita dai referenti della Dia, d’intesa con i Carabinieri del Ros di Caltanissetta che hanno denunciato il Riggio per associazione a delinquere di stampo mafioso e per estorsione nella piena consapevolezza di nascondere all’autorità giudiziaria il vero ruolo del Riggio nella famiglia mafiosa di Caltanissetta. Scenario grave trattandosi di vicenda caratterizzata da una determinazione autonoma dei Carabinieri del Ros di Caltanissetta, con i carabinieri della Dia, di sacrificare l’infiltrato Riggio e quindi bruciare la pista che avrebbe condotto a Provenzano senza in alcun modo coinvolgere l’autorità giudiziaria che da oltre vent’anni era alla ricerca del Provenzano. Ed è chiaro che, facendo riferimento al Ros di Caltanissetta, si dà per scontato che si parli del Ros di quegli anni e quindi del Ros dell’odierno imputato Mario Mori“.


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L’avvocato, Giancarlo Pittelli


La questione Pittelli, Dell’Utri e Forza Italia
Nella requisitoria uno degli elementi documentali evidenziati da Fici è l’intercettazione a carico dell’avvocato Giancarlo Pittelli, ex parlamentare di Forza Italia arrestato nell’ambito dell’inchiesta Rinascita-Scott, captata tramite un trojan installato in uno degli apparati tecnologici in uso all’avvocato. Il 20 luglio del 2018 dalle 18 e 15, l’ex senatore commentava un articolo in cui si parlava della sentenza trattativa Stato-mafia: “Senti, sto leggendo questa storia che hanno riportato sul Fatto Quotidiano della trattativa stato Mafia. Berlusconi è fottuto… Berlusconi è fottuto”. Nell’articolo si riportavano le motivazioni del processo sul Patto tra pezzi delle Istituzioni e Cosa nostra. Quel procedimento individua il primo governo Berlusconi come parte lesa del ricatto allo Stato. E Pittelli aggiungeva: “Dell’Utri la prima persona che contattò per Forza Italia fu Piromalli a Gioia Tauro non se ci… se ragioniamo, tu pensa che ci sono due mafiosi in Calabria, che sono i numeri uno in assoluto, uno è del vibonese e l’altro è di Gioia Tauro, uno si chiama Giuseppe Piromalli e l’altro si chiama Luigi Mancuso, che è più giovane e forse più potente… io li difendo dal 1981, cioè sono trentasette anni che questi vivono qua dentro… pazzesco… l’altro giorno ci pensavo dico trentasette anni”.
“Dall’ordinanza di custodia cautelare che è stata prodotta si può avere un quadro completo sulla figura del Pittelli – ha aggiunto Fici – Il contenuto è eloquente e si aggiunge agli innumerevoli elementi di prova acquisiti. Un parlamentare, un professionista, un massone a livello di Pittelli si esprime in questi termini e conferma come Dell’Utri sia stato uno dei protagonisti della campagna elettorale della neoformazione Forza Italia che, prima di rivolgersi ai cittadini, si è rivolta ai mafiosi e agli ‘ndranghetisti ai quali, evidentemente, ha promesso qualcosa. Nell’ordinanza del Riesame si dà uno spunto riguardo al disvalore dell’appartenenza alla massoneria. Storia infinita di abusi e favoritismi. Una storia particolarmente perniciosa per coloro i quali hanno giurato allo Stato e alle istituzioni”. 

La sentenza Mannino

Infine Fici si è occupato della sentenza definitiva nei confronti del giudicato assolutorio nei confronti di Calogero Mannino nei tre gradi di giudizio. Depositando anche una memoria sul punto  il Pg ha evidenziato come vi sia una “manifesta illogicità della motivazione assolutoria con riferimento ai fatti in precedenza accertati nel procedimento a carico dello stesso per concorso esterno in associazione mafiosa, indicativi di pluriennali rapporti con importanti esponenti mafiosi”. L’accusa in 78 pagine suddivise in 21 capitoli ha spiegato che “non si mette in discussione il giudicato assolutorio”, ma viene sottolineata la “necessità di parlarne” anche per “una valutazione unitaria agli altri elementi di prova che confermano il fondamento dei fatti accertati nel diverso procedimento a carico di Mannino” e che sono utili anche nella valutazione dei coimputati.
L’accusa quindi ha evidenziato come sia “doveroso rappresentare anche in questo giudizio le doglianze rimaste senza risposta nel parallelo giudizio definito con il rito abbreviato… le motivazioni del giudice di primo grado del processo Mannino sono approssimative e confuse anche nella ricostruzione del percorso argomentativo dell’accusa, mentre quelle dell’appello sembrano più che altro incentrate a enfatizzare ogni possibile criticità, a volte con evidente travisamento dei fatti, piuttosto che valutare la coerenza del ragionamento dell’organo requirente”. Secondo i pg, inoltre, vi è una “motivazione illogica con travisamento del fatto, con riferimento alla verosimile consapevolezza e alla verosimile approvazione da parte del dottor Paolo Borsellino dell’iniziativa dei carabinieri Mori e De Donno di agganciare Vito Ciancimino; e ancora di un “un travisamento della prova con riferimento alle dichiarazioni rese da Agnese Borsellino in merito a quanto riferitogli dal marito pochi giorni prima di essere ucciso sul fatto che il generale Subranni ‘era punciutu'”. 
In particolare vi sono alcuni aspetti, ripercorsi in aula e contenuti nella memoria, che secondo i Pg andavano approfonditi. 
“In questo diverso procedimento – spiega l’accusa nella memoria – proprio a causa della separazione della posizione dell’uomo politico che temeva di essere ucciso da Cosa nostra, ciò che costituisce l’antefatto alla contestata trattativa e, cioè, l’attivismo di Mannino che per le minacce ricevute si rivolge a Bruno Contrada e ad Antonio Subranni, non sempre è stato esplorato in modo compiuto”. 
Partendo dall’uccisione di Salvo Lima, ucciso nel marzo 1992, Fici ha ricordato le dichiarazioni del collaboratore di giustizia Francesco Onorato. “Questi ha riferito che l’europarlamentare era stato convocato a rapporto, prima di essere ucciso, dai vertici di Cosa nostra presso l’hotel Perla del Golfo di Terrasini, ma non si era presentato e così la condanna a morte venne pertanto eseguita. Anche Mannino venne convocato alla Perla del Golfo, per medesime ragioni, ma per il predetto il collaboratore di giustizia non è stato in grado di riferire se il Ministro si presentò ovvero non si presentò, poiché egli nulla seppe al riguardo; una tale circostanza, pur affidata soltanto in termini probatori, è idonea a spiegare il terrore manifestato dal Mannino proprio in quei mesi. E Mannino espresse i propri timori a Mancino, al maresciallo Guazzelli (che fu poi ucciso) e al giornalista Padellaro”. Proseguendo nella propria discussione sono state anche ricordate le rivendicazioni della Falange Armata per la morte di Guazzelli (del tutto identiche alla medesima rivendicazione dell’omicidio Lima) e proprio le parole che Mannino avrebbe detto a Padellaro. “Un colloquio drammatico – ha affermato Fici – Mannino ha manifestato con angoscia la sua connotazione di condannato a morte. Ha spiegato di essere stato avvicinato, di avere ricevuto delle pressioni, di essersi rifiutato e per tali ragioni di essere stato iscritto nella lista nera. Un colloquio significativo rispetto a quanto poi disse a Mnzolini, a distanza di qualche mese, quando le stragi continuavano ad insanguinare il Paese, circostanza con riferimento alle quali deve ritenersi il Mannino abbia ricevuto assicurazioni sulla sua incolumità personale”. 

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L’ex onorevole, Calogero Mannino


Nella memoria i magistrati dell’accusa fanno poi riferimento a una “omessa e contraddittoria motivazione in merito alle dichiarazioni di Liliana Ferraro, l’ex direttrice degli Affari penali ai tempi di Giovanni Falcone. E poi, ancora, citano “l’omessa motivazione in merito alla intercettazione della conversazione telefonica del 25 novembre 2011” tra l’ex Presidente del Senato Nicola Mancino e l’ex consigliere giuridico dell’ex Capo dello Stato Giorgio Napolitano “riguardano la nomina di Francesco Di Maggio a vicedirettore del Dap”. Puntano anche sulla “illogicità della motivazione e travisamento dei fatti con riferimento alle dichiarazioni rese da Fernanda Contri”. “Se, nel rispetto della legge del 2017 ritenuta conforme ai principi costituzionali, sulla vicenda Mannino è calato il sipario, le censure prospettate dall’accusa rimaste irrisolte non possono che indebolire il peso del giudicato assolutorio in favore di Mannino in questo diverso procedimento a carico degli imputati” di questo processo. 

I legali di Mori e De Donno contro Report
A fine udienza l’avvocato Basilio Milio (legale di Mario Mori), anche a nome di Francesco Romito (legale di Giuseppe De Donno) ha depositato una missiva con allegata memoria inviata al presidente della Repubblica, Sergio Mattarella, al ministro della Giustizia, Marta Cartabia, al vice presidente del Csm, David Ermini, al presidente della commissione di vigilanza Rai, Alberto Barachini, al presidente della commissione nazionale antimafia, Nicola Morra, e al presidente della Rai, Marcello Foa rispetto la puntata di Report andata in onda lo scorso 24 maggio. La trasmissione, secondo i legali, condiziona l’opinione pubblica e “interferisce” con il processo d’appello sulla trattativa Stato-mafia.
“Nonostante la espressa richiesta di rinviare la trasmissione di qualche settimana – si legge – attesa l’imminente definizione del processo di appello, nell’ambito del quale, proprio il 24 maggio, è iniziata la requisitoria, e nonostante la piena ed incondizionata disponibilità dei sottoscritti a fornire ogni risposta a quesiti posti e documenti utili alle vicende da trattare, al fine di garantire un’informazione completa ed obiettiva, nessuno degli autori e dei giornalisti ha ritenuto di contattarci”. 
La replica di Report, per bocca del conduttore Sigfrido Ranucci, non si è fatta attendere: “Viene scambiato quello che è un diritto dovere di informare come un’interferenza: Report ha più volte chiesto, senza esito, al generale Mori e ai suoi legali di fornire la loro versione sui fatti. C’è da più parti la volontà di non parlare di fatti che hanno riguardato la storia del nostro Paese e sui quali, al di là delle singole posizioni, si è lontani dalla verità. Con tutto il rispetto delle posizioni, ci viene attribuita una capacità di influenzare giudici indipendenti che non corrisponde alla realtà”. “Se non si dovesse parlare di fatti riguardanti i processi in corso – ha aggiunto il vicedirettore di Rai3 – vista la durata media dei processi, il diritto dei cittadini di essere informati verrebbe meno per decenni. C’è da sempre una verità dei fatti e giornalistica e una verità giudiziaria: la maturità di tutti è nel saperla distinguere”. 

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fonte: antimafiaduemila.com