”Possibili gruppi di potere estranei a Cosa nostra” nella strage di via d’Amelio

Aaron Pettinari

Nelle motivazioni della sentenza d’appello “Borsellino quater” esclusa la trattativa come motivo dell’accelerazione per il delitto

La strage di via d’Amelio? “E’ possibile che la decisione di morte assunta dai vertici mafiosi nella corale riunione degli auguri di fine anno 1991 della Commissione Provinciale, e nelle precedenti riunioni della Commissione Regionale, abbia intersecato convergenti interessi di altri soggetti o gruppi di potere estranei a Cosa Nostra. Ma ciò non può equivalere a mettere in ombra la paternità della terribile decisione di morte compiuta da Cosa Nostra né condurre ad escludere la responsabilità penale di coloro che ebbero a partecipare alle riunioni deliberative”.
E’ così che la “longa manus” dei cosiddetti mandanti o concorrenti esterni a Cosa nostra si fa largo nelle motivazioni della sentenza d’appello del processo Borsellino quater depositate nei giorni scorsi in cancelleria.
I giudici nel novembre 2019, confermando la sentenza di primo grado ed accogliendo le richieste della Procura generale, avevano condannato all’ergastolo i boss Salvo Madonia e Vittorio Tutino, imputati il primo come mandante ed il secondo come esecutore della strage in cui persero la vita il giudice Paolo Borsellino e i 5 uomini della scorta.
Al contempo furono condannati a 10 anni i “falsi pentiti” Francesco Andriotta e Calogero Pulci, accusati di calunnia. Così come aveva fatto la Corte d’Assise presieduta da Antonio Balsamo anche in appello i giudici hanno dichiarato estinto per prescrizione il reato di calunnia contestato a Vincenzo Scarantino.
Nelle 377 pagine delle motivazioni della sentenza i giudici ripercorrono le circostanze di quel delitto efferato ed evidenziano come “le emergenze probatorie acquisite nell’odierno procedimento costituiscono singoli pezzi di un mosaico che, nel suo complesso, continua a rimanere in ombra in alcune sue parti”.

Dall’agensa rossa scomparsa all’uomo esterno a Cosa nostra a Villasevaglios
Un esempio lampante è costituto dalla “’scomparsa misteriosa’ dell’agenda rossa del magistrato (cristallizzata nella ripresa fotografica riprodotta nella stessa impugnata sentenza, nella quale risulta immortalato il capitano Arcangioli nell’atto di allontanarsi dalla scena del delitto con in mano la borsa del magistrato) e alla ricomparsa della stessa in circostanze non chiarite nell’ufficio del dottor Arnaldo La Barbera”. Ma viene anche sottolineata la “presenza di uomini ‘sconosciuti’ sul luogo del delitto e nell’immediatezza dello stesso (individuati come ‘appartenenti ai servizi’ da parte di due degli agenti sentiti come testimoni) e di un uomo ‘estraneo a Cosa Nostra’ al momento della consegna della Fiat 126 da parte di Spatuzza Gaspare, agli uomini incaricati di provvedere al successivo caricamento della stessa di esplosivo”. E poi ancora si invita a ricordare la “vicenda Mutolo e all’interruzione del suo interrogatorio ed al successivo incontra da parte del giudice Borsellino con il dottore Bruno Contrada, all’anomalia del coinvolgimento del SISDE nelle indagini; alla vicenda del falso pentito Scarantino Vincenzo e del falso strumentale delle dichiarazioni di Francesco Andriotta, altri odierni imputati”.
Nonostante tutti questi dati “non si hanno, tuttavia, elementi in grado di adombrare profili di erroneità nella ricostruzione del momento deliberativo della strage e nella configurazione della ‘paternità mafiosa’ della stessa”.


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L’ex capitano dei carabinieri Giovanni Arcangioli mentre si allontana dalla strage di via d’Amelio con la borsa del magistrato Paolo Borsellino


La mafia responsabile
“Allo stato – si legge nel documento – il quadro probatorio appare immutato rispetto a quello già considerato dalla Suprema Corte di Cassazione nella richiamata pronuncia del 2003, non sussistendo altri elementi probatori per dire che la strage di via D’Amelio abbia avuto una causale diversa dalla matrice mafìosa o che la stessa sia ascrivibile ad un contesto deliberativo diverso da quello accertato nel corso del presente procedimento, nel quale si inscrive il protagonismo dell’imputato appellante”.
Ribadiscono i giudici che “ogni tentativo della difesa di attribuire una diversa paternità a tale insana scelta di morte e di terrore non può trovare accoglimento, potendo, al più, le emergenze probatorie sopraindicate – in parte già acquisite al preesistente patrimonio conoscitivo e in parte disvelate da presente procedimento – indurre a ritenere che possano esservi stati anche altri soggetti, o gruppi di potere, interessati alla eliminazione del magistrato e degli uomini della sua scorta. Ma tutto ciò non esclude la responsabilità principale degli uomini di vertice dell’organizzazione mafiosa che, attraverso il loro consenso tacito in seno agli organismi deliberativi della medesima organizzazione, hanno dato causa agli eventi di cui si discute”.
Secondo la Corte, dunque, “la strage di via d’Amelio rappresenta indubbiamente un tragico delitto di mafia, dovuto ad una ben precisa strategia del terrore adottata da Cosa Nostra, in quanto stretta dalla paura e da fondati timori per la sua sopravvivenza a causa della risposta giudiziaria data dallo Stato attraverso il Maxiprocesso (nato anche, si ripete, da una felice intuizione die giudici Falcone e Borsellino)”.

L’accellerazione oltre la trattativa Stato-mafia
In primo grado, nel procedere alla individuazione dei moventi della strage di via d’Amelio, si sottolineava come vi fosse la possibilità di utilizzare soltanto “le fonti di prova dotate di univoca valenza dimostrativa, evitando ogni rivalutazione di vicende che formano oggetto di altri procedimenti pendenti dinanzi ad altre autorità giudiziarie alle quali spetta il relativo giudizio’”. Secondo i giudici d’appello “Anche in questa sede non può che ribadirsi la sostanziale neutralità di tali datti ai fini dell’accertamento dei responsabili della strage di via d’Amelio (imputati nel presente procedimento) dovendosi ancora una volta ribadire la matrice mafiosa della stessa”.
E poi ancora aggiungono: “In questa sede non può che ribadirsi la sostanziale neutralità di tali fatti ai fini dell’accertamento dei responsabili della strage di via d’Amelio (imputati nel presente procedimento) dovendosi ancora una volta ribadire la matrice mafiosa della stessa. Non può condividersi, sul punto, l’assunto difensivo secondo cui la “trattativa Stato-mafia” avrebbe aperto ‘nuovi scenari’ in relazione alla ‘crisi dei rapporti di Cosa Nostra con i referenti politici tradizionali’ e al possibile collegamento fra ‘la stagione degli atti di violenza’ e l’occasione di ‘incidere sul quadro politico italianoì’ con riferimento a coloro che “si accingevano a completare la guida del paese nella tornata di elezioni politiche del 1992”.
Se da una parte “gli elementi acquisiti nel presente procedimento consentono di affermare che l’uccisione del giudice Paolo Borsellino, inserita nell’ambito di una più articolata “strategia stragista” unitaria, sia stata determinata da Cosa Nostra per finalità di vendetta e di cautela preventiva. Ed è anche logico affermare che vi sia stata una finalità di ‘destabilizzazione’ intesa ad esercitare una pressione sulla compagine politica e governativa che aveva fino a quel momento attuato una drastica politica di contrasto all’espansione del crimine organizzato mafioso” dall’altra secondo la Corte, che non esclude l’esistenza della trattativa Stato-mafia, sottolinea come quest’ultima non sia l’elemento scatenante che ha portato all’accelerazione del progetto di attentato eseguito il 19 luglio 1992.


scarantino vincenzo da seguonews it

Vincenzo Scarantino


“Deve essere ritenuta ancora attuale la valutazione espressa dai giudici supremi in seno alla prima sentenza emessa nel procedimento Borsellino ter relativamente alla incidenza che la cd. ‘trattativa Stato-mafia’ avrebbe avuto sulla deliberazione della strage di via D’Amelio anche alla luce delle ulteriori acquisizioni probatorie cristallizzate nel presente procedimento. Deve dunque escludersi la sussistenza di elementi probatori idonei a fare ritenere che vi sarebbe stata, per la sola strage di via D’Amelio, una sorta di “novazione” della deliberazione di morte, tale da avere determinato una soluzione di continuità rispetto alla precedente deliberazione stragista risalente alla riunione degli ‘auguri di fine anno 1991’”.
E poi ancora aggiungono: “Nel corso del dibattimento di primo grado sono stati escussi numerosi testimoni i quali hanno riferito in ordine ai contatti che alcuni esponenti delle forze dell’ordine avrebbero tentato di allacciare con esponenti dell’organizzazione criminale Cosa nostra dopo l’avvio della stagione delle stragi, dopo la morte del giudice Giovanni Falcone scrivono i giudici – Ma non sussiste in atti alcuna evidenza probatoria che consenta di ricollegare la “trattativa” che si stava avviando, fra alcuni esponenti delle istituzioni ed altri rappresentanti dell’organizzazione criminale, con la deliberazione della strage di via d’Amelio”.

Vero e falso
Nelle valutazioni dei giudici una parte è stata dedicata anche all’analisi delle dichiarazioni dei falsi pentiti che hanno portato anche alla revisione dei processi del “Borsellino uno” e “bis”.
“L’intensa attività istruttoria compiuta nel dibattimento di primo grado del ‘Borsellino quater’ – si legge – integrata, in alcuni punti, anche nel giudizio di appello da ulteriori acquisizioni documentali, ha consentito di acclarare che le dichiarazioni mendaci rese da Andriotta Francesco e Scarantino Vincenzo oltre che da Condura Salvatore, fin dalla prima fase delle indagini e fino alla conclusione del procedimento ‘Borsellino bis’, lungi dal costituire il frutto di un isolato intento calunniatore, rappresentano singoli tasselli di una verità costituita che, in quel determinato momento storico, si è voluto accreditare, risultando avvinte da una sorprendente circolarità di contenuti e fondate su frammenti di verità, in ordine ad alcuni dettagli degli eventi, che solo fonti qualificate potevano conoscere”.
Se le valutazioni della sentenza di primo grado vengono accolte anche dalla Corte d’Assise d’Appello
per cui si ritiene probabile l’esistenza di una fonte confidenziale “gli inquirenti tanto abbiano creduto a quella fonte, mai resa ostensibile, da avere poi operato una serie di forzatura per darle dignità di prova”. Nel processo, tuttavia, non sono state accertate le finalità del depistaggio.
“Alla luce delle considerazioni sin qui svolte – concludono – l’impugnata sentenza deve essere pertanto confermata con riguardo a tutte le posizioni, stante l’infondatezza degli appelli proposti”.

Foto originali di copertina © Imagoeconomica

Fonte:Antimafiaduemila