L’ombra nera di Mori nella sentenza sulla strage di Bologna

Giorgio Bongiovanni e Aaron Pettinari

I giudici chiedono d’indagarlo per falsa testimonianza e reticenza assieme agli ex Nar Fioravanti e Ciavardini

Falsa testimonianza e reticenza. E’ un’ipotesi di accusa pesante quella messa nero su bianco nelle motivazioni della sentenza della Corte d’Assise di Bologna, presieduta da Michele Leoni, nel processo che un anno fa ha condannato all’ergastolo l’ex Nar Gilberto Cavallini per concorso nella Strage di Bologna.
Nelle conclusioni, infatti, i giudici hanno disposto l’invio delle carte alla Procura a seguito di alcune testimonianze che sono intercorse durante il dibattimento. Oltre all’ex Comandante del Ros (condannato in primo grado a 12 anni nel processo Trattativa che lo vedeva imputato assieme ad altri ex ufficiali dell’Arma, ex politici e boss mafiosi) gli atti ai pm sono stati rimandati anche su Fioravanti, Ciavardini, l’ex compagna di Cavallini Flavia Sbrojavacca e l’ex militante di Ordine Nuovo Vincenzo Vinciguerra.

La testimonianza di Mori
Addirittura i giudici bolognesi hanno dedicato un intero capitolo alla testimonianza di Mori e già nel processo Stato-mafia erano emerse diverse ombre sul suo passato che non lo ha visto solo ai vertici dell’Arma, ma anche come membro, dal 1972 al 1975, al Sid, i servizi segreti di allora, agli ordini del colonnello Federico Marzollo, il comandante del raggruppamento Centri Controspionaggio.
Anni “turbolenti” in cui ai vertici dell’intelligence militare c’erano Vito Miceli, coinvolto e poi assolto per il progetto eversivo della Rosa dei Venti, e di Gianadelio Maletti, condannato per la protezione accordata ad alcuni dei neofascisti coinvolti nella strage di Piazza Fontana del 12 dicembre 1969 e per questo, dal 1981, latitante in Sudafrica.
Nel processo di Palermo era stato ripercorso il suo operato all’interno dei Servizi di Sicurezza negli anni Settanta, approfondendo il suo eventuale coinvolgimento nelle trame nere della Rosa dei Venti ed i collegamenti con il Gran Maestro della P2 Licio Gelli ed il giornalista Mino Pecorelli negli anni della strategia della tensione. Addirittura la Corte d’assise di Palermo aveva evidenziato “il mendacio ed il tentativo di depistaggio posti in essere dal detto imputato (Mori, ndr) con le sue dichiarazioni spontanee”.
Ed altrettanto dure sono le considerazioni dei giudici bolognesi. Basta rileggere alcuni passaggi della sentenza Cavallini in cui vengono ripercorso le dichiarazioni rese nell’udienza del 3 ottobre 2018, mettendo in evidenza alcune contraddizioni e perplessità.
“L’ex generale dei Carabinieri – scrivono i giudici – ha confermato che comandò la Sezione Polizia Anticrimine di Roma ininterrottamente dal 16 marzo 1978 (giorno del sequestro dell’on. Aldo Moro) al 1985. Non si sarebbe però mai occupato delle indagini sulla strage alla stazione di Bologna su delega del Giudice Istruttore di Bologna dottor Vito Zincani del 26 giugno 1985 in quanto il 12 o 18 agosto egli prese servizio al Comando Generale come Comandante di Sezione Ufficio Criminalità Organizzata. Quindi, praticamente, non dette corso a nessuna di queste attività d’indagine che erano state delegate alla Sezione Anticrimine di Bologna (in realtà, come si vedrà, le cose stanno diversamente, come ammesso dallo stesso Mori in altra sede)”.
La Corte d’assise ha posto l’accento su alcune risposte dell’ex ufficiale come quando “a una domanda su Marco Mario Massimi (il falsario che ebbe un ruolo preminente nelle indagini sull’omicidio Amato), ha ricordato, genericamente, che si trattava di una persona ‘coinvolta in qualche indagine’. Nient’altro. Non ha saputo dire nemmeno se si trattava di un soggetto di destra o di sinistra”. Quindi viene definito come “incomprensibile” il senso di una risposta data da Mori nel momento in cui, non avendo indagato sulla morte di Amato perché si occupava di altro, puntualizzava che “se gli si dice chi ha indagato, è invece in grado di rispondere”.
I giudici riportano alcuni passaggi dell’esame testimoniale.

Avv. Brigida: Comunque, in questo periodo, a Roma, stiamo parlando della fine degli anni Settanta e gli inizi degli anni Ottanta, ha in qualche modo indagato sui Nar, e segnatamente sulla persona di Giusva Fioravanti e del suo Gruppo?

Mori: No, direttamente no.

Avv. Brigida: Ecco, allora spieghi. Indirettamente. Perchè?

Mori: Indirettamente tramite la componente della mia sezione, che si occupa di destra terroristica. Ma qui non me lo posso ricordare. Lei si ricorda che ha fatto trentacinque anni fa, scusi? Eh! Allora!


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La strage della Stazione di Bologna


La Corte ha quindi rimarcato come “all’eco generale Mori si sta chiedendo se ricorda uno degli episodi più laceranti per la storia del Paese (l’omicidio del dottor Amato, l’unico pm che a Roma conduceva le indagini sul terrorismo di destra), su cui la Sezione Anticrimine di Roma da lui comandata indagava. Non gli si sta chiedendo cosa ha mangiato il giorno dopo l’omicidio Amato, cosa pure accaduta trentacinque anni prima”.
Dal proseguo dell’esame, scrivono sempre i giudici, “se ne ricava che l’allora colonnello Mori, comandante della Sezione Anticrimine di Roma, non solo si è completamente disinteressato dell’omicidio Amato, ma lasciava le indagini alla ‘eventuale’ iniziativa di un sottufficiale (e che nemmeno era importante sapere se qualcuno si occupava di questa vicenda e chi). Non erano compiti suoi”.
“Io ho fatto un sacco di indagini – disse stizzito Mori – quindi lei non mi può mettere sotto scacco perché non ho fatto indagini. Ho fatto certe indagini, e certe non le ho fatte perché le facevano altri. Questa è la situazione. Eh!”.
Sul punto, nelle motivazioni della sentenza bolognese, si confrontano le dichiarazioni rilasciate nel procedimento Cavallini con quelle davanti alla Corte d’assise di Palermo nel processo Stato-mafia. “Al Tribunale di Palermo ha detto cose diverse – si legge ancora – Ha specificato che alla Sezione Anticrimine di Roma, al cui comando venne assegnato, era ‘il Reparto dell’Arma a cui spettava il compito del contrasto al terrorismo nella capitale e nel Lazio’, aggiungendo: ‘Ho retto il Comando della Sezione Anticrimine di Roma per quasi sette anni, dal 16 marzo ’78 al 5 di gennaio ’85, nel periodo cioè più significativo della lotta al terrorismo interno, sia di destra che di sinistra, operando proficuamente e in piena intesa con i Magistrati impegnati nel contrasto a quel fenomeno’. Cioè non ha fatto distinzioni. Operava nell’ambito della lotta al terrorismo, sia di destra che di sinistra”. Affermò anche di aver ricevuto incarico dal dottor Domenico Sica, sostituto procuratore della Repubblica di Roma, di svolgere indagini sul rinvenimento avvenuto a Bologna nel corso del febbraio del 1981 di una valigia contenente documentazione, armi ed esplosivo del tipo di quello usato per la strage della Stazione.
Dunque, hanno evidenziato i giudici, diversamente da quanto riferito nel processo, “si è occupato della strage della stazione di Bologna”.
“Mori – si legge – ha voluto far credere a questa Corte che quando vi erano in ballo indagini sul terrorismo di sinistra, si interessava proficuamente, mentre, quando si trattava di indagini sul terrorismo di destra, si girava dall’altra parte. L’ex generale non ha ricordato nulla nemmeno del maxisequestro avvenuto nel 1982 nel covo di via Monte Asolone a Torino, nonostante egli stesso abbia proceduto agli arresti di Stroppiana e poi di Zani e Cogli, arresti a cui la scoperta di quel deposito di armi e altro (armi, esplosivi, tesserini delle forze dell’ordine più o meno falsi, pistole mitragliatrici e targhe contraffatte) era indissolubilmente connessa. Ha detto che, eseguiti gli arresti, del seguito se ne interessarono l’Arma di Torino e il solito Cardoni. Lui scomparve”.

Piersanti Mattarella “già morto e seppellito”
Durissime le considerazioni della Corte in un altro passaggio testimoniale dell’ex Comandante del Ros, in riferimento alle risposte su alcune domande relative ad una richiesta di indagini su Valerio Fioravanti nell’ambito dell’inchiesta sull’omicidio di Piersanti Mattarella. L’avvocato Brigida chiedeva: “In una relazione di servizio, credo ponderosa, datata 12 giugno dell’89, del suo collega Tesser, c’è scritto esattamente: ‘Richiesta orale sulla posizione di Fioravanti Valerio, in ordine all’omicidio di Piersanti Mattarella avanzata al tenente colonnello Mario Mori‘. Quindi, mi permetto di aggiungere, che sembrerebbe lei… avesse fatto una delega orale per approfondire non so quali aspetti dell’omicidio…”. E Mori poco dopo rispondeva: “E non me lo posso ricordare. Io dal”86 al ’90 comandavo il gruppo Carabinieri di Palermo. Quindi probabilmente mi ha fatto una telefonata Giorgio Tesser, ma era già morto e seppellito Piersanti Mattarella. Io sono andato nell’86, e non c’era già il problema Piersanti Mattarella“.
Scrivono dunque i giudici: “A parte la finezza di una simile espressione (questa Corte ritiene che le vittime del terrorismo, della mafia, di omicidi e massacri non siano mai ‘morte e seppellite’) vi è da ribadire che negli anni in cui Mori comandò i Carabinieri di Palermo l’istruttoria di Falcone su quell’omicidio era pienamente in corso. Il ‘problema Mattarella’ c’era, eccome, ma lui (Mori), evidentemente, si occupava di altro. Come sempre. Fece quella richiesta orale (che ci ha tenuto a precisare, non era una delega) forse distrattamente”.

Il periodo al Sid
La Corte ha anche evidenziato un’altra risposta di Mori sul periodo in cui era al Sid, ovvero tra il 1972 ed il 1975, in cui ha riferito che non si occupò mai di depositi di armi, né di Gladio o strutture Stay behind in quanto dedicato a “tutt’altri compiti” (“Io ero un operativo, ero nel settore controspionaggio per quanto riguarda l’Oltrecortina, quindi di queste cose non mi occupavo assolutamente”).
Dichiarazioni leggermente diverse da quelle riferite sempre a Palermo in cui “sembra al contrario che Mori, all’occorrenza, si sia interessato fattivamente, e in profondità, di attività concernenti l’estrema destra eversiva e la sicurezza interna, e abbia all’uopo allacciato e mantenuto con personaggi assai equivoci tanto al Nord, quanto a Roma quanto a Palermo (il riferimento è a Gianfranco Ghiron).
E al processo trattativa Stato-mafia fece riferimento al periodo in cui fu impegnato presso il Comando delle Forze Terrestri Alleate per il Sud Europa (FTASE), comando militare Nato avente sede a Verona, a direzione italiana. Disse che quella struttura era stata creata nel 1951, “in pieno periodo di guerra fredda, con un compito istituzionale ben preciso, quello di assicurare la difesa del fronte terrestre dell’Europa meridionale contro una ipotetica invasione da est da parte delle truppe del Patto di Varsavia e che ogni altra funzione o impiego è unicamente frutto di avventate illazioni che non trovano supporto in nessun riscontro in fatti documentalmente accertati”.
Eppure i giudici di Bologna, riprendendo le note sentenze-ordinanze del 1995 e del 1998 del giudice istruttore di Milano Salvini, hanno messo in evidenza una serie di dichiarazioni da cui emergono una serie di collegamenti tra la FTASE ed elementi di Ordine Nuovo.


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L’ex generale dei carabinieri, Mario Mori © Imagoeconomica


Al Tribunale di Palermo Mori aveva anche parlato dell’affidamento del Nos Cosmic al massimo livello (nulla osta di segretezza, il documento che attesta che un soggetto, sia esso militare o civile, ha le credenziali di sicurezza per svolgere determinate funzioni, tra cui l’analisi e la visione dei documenti coperti di segreto militare). Un nulla osta che sarebbe stato ottenuto nell’aprile 1971, come ammesso dalla stessa difesa di Mori al processo Stato-mafia.
L’argomento del Nos Cosmic era stato affrontato anche durante l’esame nel processo bolognese ma, scrive la Corte, da questo “par di capire che lui col ‘Cosmic’ non abbia mai avuto nulla a che fare e che a tutto ciò che competesse ai soggetti dotati di ‘Cosmic’ egli sia rimasto estraneo, in quanto ‘passacarte'”. Da ciò si deve dedurre che “quando ha parlato davanti al Tribunale di Palermo, evidentemente, ha scherzato”.
La Corte ribatte anche all’affermazione di Mori per cui lo stesso ha sostenuto che nessuno gli ha mai chiesto di entrare nella P2 precisando che “è facile discettare a distanza di secoli dalla vicenda”.
La Corte ha ricordato alcune dichiarazioni rilasciate da Gianfranco Ghiron al Giudice Istruttore di Brescia, o ancora le dichiarazioni di Massimo Giraudo. Entrambe approfondite nel processo Stato-mafia.
Ma la Corte d’assise di Bologna va anche oltre: “L’ex generale Mario Mori, avanti questa Corte, ha affermato di non essersi mai occupato della destra eversiva in quanto lui è sempre stato occupato in ‘altro’. Ma ciò contrasta apertamente con una nutritissima serie di evidenze processuali e investigative di segno contrario, provenienti anche da dichiarazioni da lui stesso rilasciate. Ha perfino bluffato invitando i presenti ad andare a leggersi le sentenze ordinanze del Giudice istruttore di Milano dottor Salvini del 1995 e del 1998, che dicono cose ben diverse da quanto da lui sostenuto”.
Quindi, hanno concluso i giudici, “Alla luce di tutto quanto sopra, Mario Mori va quindi denunciato ai sensi dell’art. 331 c.1 cpp per falsa testimonianza e reticenza”.
Alla luce di questa nuova sentenza, seppur di primo grado, l’auspicio è che la stessa possa essere prodotta al processo d’appello Stato-mafia, in corso sempre a Palermo, in modo che anche la Corte d’Assise d’Appello possa essere messa a conoscenza del modus operandi che è stato, come aveva evidenziato il pm Roberto Tartaglia nella requisitoria del processo di Palermo da sempre e per sempre, o “Oltre” o “Contro” “le leggi e le regole”.

Foto di copertina © Imagoeconomica

Fonte:Antimafiaduemila