‘Ndrangheta stragista, Di Giacomo rivela: ”In Calabria un direttorio come per Cosa nostra”
“Filippo Graviano mi parlò degli investimenti a Milano“
di Aaron Pettinari
“In carcere Filippo Graviano
mi raccontò delle loro disponibilità economiche. Loro non hanno
collaborato con la giustizia esclusivamente perché sono legati a un
impero economico straripante, e non solo per i loro traffici illeciti.
Il loro papà era un grande commerciante, il nonno altrettanto. Avevano
liquidità enormi tramite imprenditori compiacenti investivano in
edilizia. Se fece nomi? Non specifici. Mi disse a Milano, attraverso
Dell’Utri. Il periodo è quella fase del provino per il giocatore
D’Agostino e Dell’Utri e diciamo, si legge Berlusconi“. E’ il collaboratore di giustizia catanese Giuseppe Di Giacomo, sentito oggi nel processo ‘Ndrangheta stragista, a offrire una sorta di riscontro a quanto riferito nelle scorse udienze dall’imputato Giuseppe Graviano sugli affari in nord Italia. Rispondendo alle domande della Presidente della Corte d’Assise Ornella Pastore e del procuratore aggiunto Giuseppe Lombardo
il pentito ha approfondito l’argomento confermando anche un altro dato
di cui il boss di Brancaccio aveva raccontato prima di chiudersi
nuovamente nel proprio silenzio: il coinvolgimento del cugino negli
affari di famiglia. “Sempre Filippo Graviano mi
disse che era molto prezioso per lui ed era preoccupato perché stava
molto male. Se ne sentii parlare nell’ambito di Cosa nostra?
Sinceramente no“.
Di Giacomo, ex killer sanguinario ed ex
reggente del clan etneo dei Laudani, non è una figura di poco conto.
Entrato in strettissima confidenza con un altro boss stragista, Santo Mazzei, corleonese “doc” affiliato direttamente da Leoluca Bagarella, ha avuto modo di acquisire diverse dinamiche della mafia catanese, e non solo.
Nel
corso dell’udienza ha parlato dell’esistenza del direttorio di Cosa
nostra che decise la linea stragista. Di quell’organo facevano parte
Riina, lo stesso Bagarella, i fratelli Filippo e Giuseppe Graviano, Matteo Messina Denaro ed altri, con riunioni che “furono fatte ad Enna, ma anche a Palermo, Caltanissetta, Mazara del Vallo e Castelvetrano”.
La
scia di sangue degli anni Novanta vide l’esecuzione delle stragi di
Falcone e Borsellino per poi giungere alle bombe del 1993. E nel mezzo
anche l’eliminazione di Salvo Lima, l’omicidio del maresciallo Guazzelli, l’attentato (fallito) nei confronti del commissario Rino Germanà.
E poi ancora l’esplosione dell’autobomba davanti alla caserma dei
carabinieri di Gravina di Catania, il ritrovamento del proiettile nel
giardino di Boboli, a Firenze, il tentativo di attentato nei confronti
del carabiniere Luigi Venezia e l’uccisione del commissario Giovanni Lizzio.
Ma il progetto di “attacco allo Stato” avrebbe visto anche il coinvolgimento di Camorra, Sacra Corona Unita e ‘Ndrangheta (“L’interesse
era comune a tutte le mafie, destabilizzare lo Stato, di assoggettare
le istituzioni che, dopo la morte di Falcone e Borsellino, avevano
reagito con un inasprimento delle pene e una lotta senza quartiere alla
criminalità organizzata”).
La criminalità organizzata calabrese divenne parte integrante del progetto con l’uccisione dei carabinieri Fava e Garofalo
e gli attentati tra la fine del 1993 e la fine del 1994. A detta del
collaboratore di giustizia l’adesione a quella strategia fu decisa dal
direttorio della criminalità organizzata, un organo di vertice, “un
livello supremo” che, secondo la ricostruzione del pentito catanese,
sarebbe stato composto dai capi crimine: Pino “Facciazza” Piromalli, Luigi Mancuso, Franco Coco Trovato, Pasquale Condello “il Supremo”, Giuseppe De Stefano, un rappresentante dei Pesce ed uno dei Bellocco. “Tutti
loro erano capo Crimine, ma con la dote dei punti della Stella. Un
gergo che usano come riconoscimento per le cariche più elevate. E quel
livello, stellare, sta ad indicare proprio qualcosa di molto in alto” ha spiegato il teste.
“I calabresi – ha detto Di Giacomo collegato in videoconferenza – avevano già fatto un ‘favore’ a Totò Riina
assassinando il giudice Scopelliti, per ripagare il suo intervento di
mediazione per porre fine allo scontro armato tra i De Stefano e i loro
avversari“.
Rispondendo ad una domanda della Presidente Pastore ha anche ricordato che “gli attentati dovevano essere rivendicati dalla Falange armata“. Un dato, quest’ultimo, che apprese da Aldo Ercolano, nipote di Nitto Santapaola e plenipotenziario della cosca.
Sempre Ercolano gli avrebbe riferito degli incontri avuti con l’ex senatore Marcello Dell’Utri (condannato definitivo per concorso esterno in associazione mafiosa e fondatore di Forza Italia), rispetto alla natura degli attentati a Catania contro i magazzini Standa, allora di proprietà del gruppo Fininvest. “L’ordine di danneggiare la Standa – ha detto Di Giacomo – partì da Totò Riina per indurre il gruppo commerciale ad attivare contatti con cosa nostra e piegare la Fininvest ai nostri usi“.
Ad un certo punto le stragi si sarebbero fermate, assieme al progetto
separatista Sicilia Libera, perché in Cosa nostra si decise di
appoggiare il nascente partito di Forza Italia.
“Sapevamo della nascita del nuovo movimento politico – ha detto Di Giacomo rispondendo alle domande del procuratore aggiunto Giuseppe Lombardo – dal 1993, perché Dell’Utri ne parlò con Aldo Ercolano.
Il direttorio disse di far convergere tutta la nostra attenzione
politica a sostegno di Forza Italia perché c’erano crescenti aspettative
sulle richieste avanzate dai boss (tra questi la revisione dell’ergastolo, il ridimensionamento dei collaboratori di giustizia, i sequestri di beni),
Forza Italia rappresentava una garanzia che le richieste della mafia
venissero accolte. Anche la ‘ndrangheta venne coinvolta in questo
progetto politico e i risultati schiaccianti dei candidati dimostrano
questa convergenza”.
Nell’udienza odierna è stato anche sentito l’ispettore della Dia Massimo Cappottella, in servizio presso il Centro Operativo DIA di Firenze, che si occupò in particolare di accertamenti sugli spostamenti di Gaspare Spatuzza
nel gennaio 1994 fino ad arrivare nel 21 gennaio la data in cui si
sarebbe tenuto il famoso incontro al bar Doney in via Veneto a Roma e
non solo. Assieme al luogotenente Sandro Micheli si
occupò di riscontrare le dichiarazioni dell’ex boss di Brancaccio, oggi
pentito, riscontrando anche i dati sulla preparazione dell’attentato
all’Olimpico, sul furto delle targhe, sull’utilizzo di una Lancia Thema
portata da Palermo, e sulla stessa presenza dell’ex boss di Brancaccio,
confermata dall’attivazione del suo cellulare a Roma proprio tra il 16 e
il 21 gennaio 1994.
In quella data, disse Spatuzza, vi fu
l’incontro con Graviano in cui il capomafia stragista diede l’ok per
proseguire con il progetto d’attentato, dove si dovevano colpire i
carabinieri, e che si sarebbe dovuto verificare il 23 gennaio 1994, in
occasione della partita tra Roma ed Udinese. Solo un problema tecnico
evitò la nuova strage. Il 27 gennaio, poi, i fratelli Graviano vennero
arrestati a Milano. E forse non è un caso che la stagione delle bombe,
da quel momento in poi, ebbe fine.
In foto: uno scatto d’archivio del processo
fonte: antimafiaduemila.com