Il falso mito della Mafia che non uccide i bambini

I boss come Graviano, Messina Denaro e De Stefano collaboreranno con la giustizia?
di Giorgio Bongiovanni

Omicidi, attentati, stragi, bimbi sciolti nell’acido, donne incinte ammazzate, magistrati, giornalisti, forze dell’ordine, imprenditori, preti, rappresentanti della società civile e cittadini inermi, uccisi in nome del potere e sporchi affari. Sono alcuni dei crimini e dei delitti che i boss mafiosi (siano essi appartenenti a Cosa nostra, ‘Ndrangheta, Camorra o Sacra Corona Unita) hanno compiuto e compiono nel corso della propria storia. In molti, per questi efferati crimini, sono stati condannati al “fine pena mai” e si trovano detenuti sotto regimi speciali di “alta sicurezza” o “41 bis”. Più volte ai boss mafiosi, stragisti e sanguinari, abbiamo ricordato che l’unica via possibile che hanno per sperare di poter avere una vita, solo dopo aver scontato il massimo della pena prevista per i crimini commessi, è quella di collaborare con la giustizia.
Una via che nel corso della storia è stata percorsa da capimafia di altissimo livello (erano membri della Cupola) come Salvatore Cancemi, Giovanni Brusca e Nino Giuffré, o anche killer come Gaspare Spatuzza (ha ucciso don Pino Puglisi per poi avere anche un pentimento spirituale). Tutti loro hanno intrapreso, seppur tra mille difficoltà ed una visione non sempre completa dei fatti, in particolare rispetto ai più alti rapporti della mafia con i più alti vertici del potere.
Comunque, grazie ai loro contributi, è stata disvelata una parte di quelle “relazioni pericolose” tra Stato e mafia che arrivano a svilupparsi all’interno di quel Sistema criminale integrato di cui ci parlano oggi diversi addetti ai lavori e che è emerso nello sviluppo di diverse indagini. E’ un quadro chiaro quello che emerge dalle inchieste delle Procure di Palermo, Caltanissetta, Reggio Calabria e Firenze, con il coordinamento della Procura nazionale antimafia, e che punta sempre più l’obiettivo anche su quei mandanti esterni delle stragi fino ad oggi rimasti a volto “più o meno” coperto.
Nuovi tasselli di verità potrebbero emergere grazie al contributo di “pentiti di Stato”, ma anche da parte di quei boss mafiosi di primo livello che posseggono i segreti sulle stragi, gli accordi e le trattative che si sono sviluppate nel passaggio tra la Prima e la Seconda Repubblica.
Due nomi di rilievo sono quelli che, qualche anno fa, ha fatto Giovanni Brusca al processo che vede come imputato Messina Denaro come mandante delle stragi del ’92. “Totò Riina – ha raccontato l’ex boss di San Giuseppe Jato – mi ebbe a dire che, qualora lui fosse arrestato o che gli succedeva qualche cosa, i picciotti, Matteo Messina Denaro e Giuseppe Graviano, sapevano tutto. Queste cose me le dice alla fine del 1992, tra novembre e dicembre. Era il periodo in cui non avevamo più notizie e lui iniziava a preoccuparsi che poteva essere arrestato”.
Lo stesso potrebbero svelare importanti tasselli di verità boss di ‘Ndrangheta come Giuseppe De Stefano, figlio di don Paolino De Stefano, ucciso ad Archi il 13 ottobre 1985.
Certamente non un semplice capo bastone. Per capire lo spessore del personaggio basti ricordare quanto disse al magistrato Giuseppe Lombardo, nel 2011, durante un interrogatorio. Si trattava di un episodio vissuto con il padre nei primi anni Ottanta. “Usciamo a comprare un paio di scarpe e a pagare i debiti che ho con i calzaturifici di Reggio Calabria. I De Stefano non lasciano mai debiti e conti aperti” aveva detto il capomafia. Al tempo un buon paio di scarpe costava in media 20mila lire, eppure, al rientro da quel giro disse al figlio: “‘Sai quanto ho pagato un paio di scarpe? 60 milioni’. Dottore Lombardo, Reggio cammina sulle scarpe che gli abbiamo messo noi. Cammina sulle nostre scarpe“.
Figure come i De Stefano, i Piromalli, i Messina Denaro (a tutt’oggi latitante, ndr) i Graviano sono possessori di notevoli segreti indicibili. I loro rapporti di altissimo livello emergono ormai da svariati processi. Non ultimo anche quello ‘Ndrangheta stragista, in corso davanti alla Corte d’assise di Reggio Calabria e ormai prossimo all’inizio della requisitoria del procuratore aggiunto Lombardo. Proprio in un’udienza di questo processo la bestia Graviano ha dichiarato senza mezzi termini di non avere mai avuto timore degli uomini, ma solo di Dio.
Chissà se il timore di Dio certe figure lo hanno anche per quei bambini morti ammazzati nel corso degli anni. Ad oggi si contano 125 bambini in Italia vittime, in un modo o in un altro di agguati mafiosi (109 dei quali riconosciuti ufficialmente dallo Stato). Storie come quelle di Nadia e Caterina Nencioni, di nove anni ed appena 50 giorni di vita che hanno perso la vita in via dei Georgofili la notte tra il 26 e il 27 maggio 1993. O come quella del piccolo Giuseppe Di Matteo, 13enne figlio del pentito Mario Santo Di Matteo, strangolato e sciolto nell’acido proprio per far ritrattare il padre. O ancora il piccolo Claudio Domino, 11 anni, freddato a Palermo nel 1986 con un colpo sparato in fronte. O Giuseppe Letizia, giovane pastore corleonese morto a 13 anni dopo essere stato testimone scomodo dell’omicidio Rizzotto. In ospedale, dove giunse delirante e in preda a una febbre alta, morì dopo essere stato “curato” con un’iniezione del capomafia e dottore Michele Navarra.
O come il piccolo Coco Campolongo, morto a soli 3 anni il 16 gennaio del 2014, nelle campagne di Cassano allo Jonio (Cs) insieme al nonno Giuseppe Iannicelli e alla compagna marocchina di quest’ultimo, Betty Touss. Pochi giorni fa il sostituto procuratore generale di Catanzaro, Salvatore Di Maio, ha chiesto la conferma di condanna all’ergastolo per Cosimo Donato e Faustino Campolongo, accusati dell’omicidio. I loro cadaveri furono ritrovati carbonizzati nell’auto incendiata di Iannicelli. Dalla ricostruzione degli inquirenti, l’omicidio maturò nell’ambito del traffico di sostanze stupefacenti gestito dalla famiglia Abruzzese in particolare nella persona di Faustino Campilongo e Cosimo Donato i quali avrebbero attirato in una trappola Iannicelli, divenuto un loro bersaglio dopo che il nonno del ragazzino aveva deciso di rifornirsi per la droga dai rivali della cosca Forastefano. Iannicelli, consapevole del pericolo che stava correndo, si muoveva sempre in compagnia della donna e del piccolo Cocò (affidato al nonno perché padre e madre erano detenuti per altri reati). E l’elenco continua, attraversando anni di storia, a dimostrazione che non mai esistita una mafia buona che non uccideva i bambini.
In attesa del ravvedimento interiore, che per chi è credente può essere giudicato solo da Dio, può esservi un percorso di ravvedimento di fronte alla giustizia dell’uomo.
E per mandanti ed esecutori di certi delitti, lo ribadiamo, l’unica via d’uscita possibile, per non fare la fine dei Riina e dei Provenzano (morti in cella dopo le condanne all’ergastolo): collaborare con la giustizia e dire tutto quello che sanno su tutti i delitti, sulle stragi, sui segreti di Stato e sui mandanti esterni.

fonte: antimafiaduemila.com