La bestia si agita!
Il boss stragista Graviano depone per la quarta volta a Reggio Calabria
di Giorgio Bongiovanni
E’ agitato Giuseppe Graviano,
agitatissimo. E’ questa l’immagine del boss di Brancaccio nella sua
quarta udienza al processo ‘Ndrangheta stragista. Abbiamo ascoltato le
sue risposte ed i suoi nervosismi nel rispondere alle domande più
scomode e penetranti a lui rivolte dall’avvocato ed ex magistrato Antonio Ingroia.
Senza avvalersi direttamente della “facoltà di non rispondere” ha preferito trincerarsi dietro al “per ora non ricordo, perché non ho sentito le intercettazioni”.
Un modo come un altro per poter continuare a lanciare i suoi messaggi e
rimandare ad altra data argomenti importanti come le stragi di mafia,
l’agenda rossa o l’omicidio del poliziotto Antonino Agostino (ucciso assieme alla moglie Ida Castelluccio,
incinta). Ha allontanato da sé ogni accusa a lui rivolta dai
collaboratori di giustizia, fino a professarsi innocente di ogni reato
di cui è stato accusato. Ha detto e non detto quando gli sono state
rivolte domande sui nomi dei ministri e dei senatori. Si è agitato
all’inverosimile quando Antonio Ingroia, con estrema lucidità e fermezza, è tornato su alcune sue affermazioni rilasciate nelle ultime udienze.
Di estrema importanza quella sul riferimento a “quegli imprenditori del nord che volevano le stragi”. Ingroia ha chiesto, senza mezzi termini, di esplicitare se l’ex premier Silvio Berlusconi sia il “vero mandante delle stragi” a cui faceva riferimento.
Non è un caso che il capomafia è esploso proprio su questo punto, messo nell’angolo dalle sue stesse parole.
Agli insulti e alle provocazioni rivolte contro Ingroia ha dovuto porre un freno la Corte, in più di un’occasione.
Anche
perché Graviano, nel suo fiume di parole, ha fatto oscuri riferimenti
alla Procura di Palermo, ricordando i procedimenti sulla morte del padre
ed accusando, senza nominarli, i magistrati.
E’ facile intuire che Graviano punta il dito contro Giovanni Falcone.
Già alle scorse udienze aveva fatto allusioni su presunte spaccature in
procura all’epoca di Falcone e Borsellino sull’utilizzo – sosteneva –
di informatori come Totuccio Contorno.
Badilate di
fango che hanno mostrato tutto il rancore e la rabbia che Cosa nostra ha
ancora oggi verso il magistrato che li ha portati alla sbarra, e quindi
alle condanne poi divenute definitive nel 1992, nel maxi processo.
Giuseppe Graviano, sanguinario, stragista, assassino di bambini (su tutti basti ricordare Nadia e Caterina Nencioni,
di nove anni ed appena 50 giorni di vita che hanno perso la vita in via
dei Georgofili nel maggio 1993). Cerca di fare il moralista, dicendo in
aula di voler rispondere alle domande perché ha “la coscienza pulita”,
ma la sua verità, raccontata in queste udienze al processo ‘Ndrangheta
stragista, è pregna di menzogne.
Il boss Giuseppe Graviano
Lo raccontano i processi che lo hanno visto imputato e le condanne per le stragi del ’92-’93 e per l’omicidio di don Pino Puglisi.
Collaboratori di giustizia lo indicano come un membro del livello riservato della mafia di cui facevano parte Riina, Bagarella, Messina Denaro (ancora in libertà) e il defunto Antonino Gioè, morto in circostanze misteriose in carcere nell’estate del 1992.
Altri
raccontano dei suoi strettissimi rapporti con i pari grado calabresi,
passando dai De Stefano ai Piromalli fino ai Nirta-Pelle, anche detti
Nirta ‘La Maggiore’.
Anche questa una componente riservata che
dialogava con pezzi delle istituzioni, del mondo dell’imprenditoria,
delle libere professioni ed appartenenti infedeli dei servizi di
sicurezza.
Che avesse rapporti con uomini di potere è confermato
dalle sue stese parole, intercettate nel carcere di Ascoli Piceno tra il
2016 ed il 2017, che oggi cerca di spiegare o confutare.
E’ in quelle pieghe che si inseriscono, forse, le verità indicibili e parziali che abbiamo potuto cogliere.
Graviano più volte ha dichiarato che la verità delle stragi si nasconde dietro il proprio arresto.
Un
dettaglio non da poco se si considerano le date. Il fallito attentato
allo stadio Olimpico è fissato il 23 gennaio 1994. Il 27 gennaio Giuseppe Graviano viene arrestato a Milano insieme al fratello Filippo,
il giorno dopo l’ufficializzazione da parte di Berlusconi del suo
ingresso in politica. L’arresto, eseguito dai Carabinieri, è disposto
dal Gip di Palermo su richiesta della Procura. Oggi è tornato a ripetere
che “i carabinieri devono dire la verità” sull’arresto ma di fatto non ha spiegato a cosa si riferisce con esattezza.
Poi
ha detto di essere disposto a parlare soltanto quando leggerà la verità
sull’assassinio del padre, avvenuto quando lui era appena maggiorenne.
E’ evidente che “Madre natura”,
così lo chiamavano in Cosa nostra, non vuole collaborare con la
giustizia. Ha detto più volte di non voler fare nomi per non tirare in
ballo persone che gli avrebbero “fatto confidenze”. Ma la verità è forse
ben altra.
Perché dobbiamo chiederci il motivo per cui, oggi, nel 2020, Giuseppe Graviano
ha deciso di violare tutte le regole di Cosa nostra, comunque
rispondendo alle domande di magistrati e parti civili. Se quell’eterno
silenzio che durava dal 1994 si è rotto, seppur non in maniera genuina,
c’è un motivo.
Le sentenze della Cedu e della Corte Costituzionale
sull’ergastolo ostativo ed i permessi premio ai mafiosi (continuamente
richiamate dal boss nelle sue dichiarazioni), hanno indubbiamente dato
un nuovo vigore alle esternazioni (o forse si dovrebbero chiamare
proclami?, ndr) del boss siciliano che si erge a paladino di tutti i detenuti.
Ma
potrebbe anche essere valida l’ipotesi che il capomafia, rimasto ormai
solo, non conti più niente in Cosa nostra e che quindi tenti di giocarsi
le sue ultime carte per ottenere qualcosa.
Altra ipotesi è che siamo di fronte ad una nuova interlocuzione. Di un nuovo patto.
Silvio Berlusconi e Marcello Dell’Utri in uno scatto d’archivio © Imagoeconomica
Perché anche oggi Graviano ha detto che lui non è il solo a conoscere la verità, che potrebbe venir fuori tra dieci o vent’anni.
Brusca, al processo contro Matteo Messina Denaro per le stragi del ’92, ha detto che Riina gli disse, prima di essere arrestato, che qualora gli fosse successo qualcosa “i picciotti Matteo Messina Denaroe Giuseppe Graviano sapevano tutto”.
Ecco i depositari dentro Cosa nostra dei segreti sulle stragi. Ma qualche nome potrebbe essere anche all’esterno. Nelle intercettazioni con Adinolfi il boss di Brancaccio aveva fatto riferimento ad un “Giovanni che sa le cose” di cui, ovviamente, al processo ‘Ndrangheta stragista ha voluto sminuire l’importanza (“Non esiste Giovanni, sarà un altro nome. E’ un ragazzo che era detenuto con me che è stato scarcerato”).
Quello del capomafia palermitano, nel suo dire e non dire, potrebbe essere un “lavoro sporco” che inquirenti, giudici, magistrati, avvocati di parte civile, con il dovuto discernimento, stanno cercando di capire e svelare, nel tentativo di cogliere quelle informazioni che ancora possono essere utili per fare un nuovo passo in avanti nella ricerca della verità.
Cosa nostra, tramite Graviano, lancia messaggi a quel Silvio Berlusconi che, come dice la sentenza Dell’Utri, condannato in via definitiva per concorso esterno in associazione mafiosa, pagava la mafia.
Vale la pena ricordare le motivazioni della sentenza, depositate nel luglio 2014, con cui gli ermellini definiscono l’ex senatore come il garante “decisivo” dell’accordo tra Berlusconi e Cosa nostra e affermano che “la sistematicità nell’erogazione delle cospicue somme di denaro da Marcello Dell’Utri a Gaetano Cinà sono indicative della ferma volontà di Berlusconi di dare attuazione all’accordo al di là dei mutamenti degli assetti di vertice di Cosa nostra”.
Inoltre, per la Suprema corte, Dell’Utri garantì “la continuità dei pagamenti di Silvio Berlusconi in favore degli esponenti dell’associazione mafiosa, in cambio della complessiva protezione da questa accordata all’imprenditore”.
Anche di questi contatti il boss di Brancaccio ha scelto una via di mezzo.
Perché ha affermato di non aver conosciuto Dell’Utri ma non ha avuto dubbi alla scorsa udienza nell’affermare che anche l’ex senatore “è stato tradito da Berlusconi”.
La prossima settimana sarà nuovamente ascoltato perché, prima di concludere, ha chiesto di poter ascoltare tutte le registrazioni che l’hanno visto parlare con Adinolfi, di leggere le trascrizioni e i documenti. Bene. Lo faccia! Sperando che sia illuminato dal buon senso e faccia una scelta precisa, netta, coerente e coraggiosa. L’unica che potrebbe permettergli di vedere negli occhi il proprio figlio da uomo “libero” ed impedire che quest’ultimo prenda la sua strada: collabori con la giustizia, senza se e senza ma. Altrimenti non resterà altro che il carcere a vita.
fonte: antimafiaduemila.com