Tina Anselmi, la partigiana bianca che veniva da lontano

“Storia di una passione politica”, il libro in cui si raccontò ad Anna Vinci
di Saverio Lodato
vinci anselmi blue

Il fascismo andava imparato a memoria; a questo serviva il sabato fascista, e dovevi avere validissimi motivi per disertarlo, se non volevi passare i tuoi guai nel lunedì successivo. Il fascismo andava imparato a memoria. Poi, c’era un’altra maniera, per inculcarlo bene nella memoria degli adolescenti che andavano a scuola: condurli in gita ad un’impiccagione, o a più impiccagioni, per rendersi conto di quanto fosse forte lo Stato fascista, serio nei suoi propositi, poco incline alle chiacchiere, insomma degno fratello del suo alleato nazista. Testimonianza dal vivo del metodo educativo che indossava la camicia nera: “Io ero a scuola a Bassano del Grappa, dove frequentavo l’istituto magistrale, quando i fascisti e i nazisti costrinsero tutti gli studenti, e la popolazione, a recarsi in viale Venezia, oggi viale dei Martiri, ad assistere all’impiccagione di quarantatré giovani che erano stati presi dopo un rastrellamento sul Grappa. Un macabro spettacolo, un monito a chi osasse ribellarsi, quei giovani presi come ostaggi e che, in base al principio etico secondo il quale non è responsabile chi non compie l’atto – e loro non erano responsabili di alcun atto di guerra -, non avrebbero dovuto essere condannati”.
Parla una partigiana bianca. Una partigiana cattolica. Democristiana, parlamentare, ministra, a guerra finita, in quel Veneto che vide brigate partigiane di credenti, e che frequentavano le Chiese, imbracciare il mitra con altrettanta determinazione dei gruppi di ispirazione socialista e comunista.
Una partigiana d’eccezione, visto che stiamo parlando di Tina Anselmi, che nei decenni successivi alla Liberazione avrebbe per sempre legato il suo nome alla commissione d’inchiesta sulla P.2, diretta dal bandito Licio Gelli, trovando così il suo filo autobiografico conduttore fra l’antifascismo di guerra e la lotta a quel grumo di poteri occulti che il 25 aprile del 1945 non riuscì a recidere per niente.
Tina Anselmi si raccontò alla scrittrice e collega Anna Vinci, per un libro “Storia di una passione politica”, adesso ripubblicato da Sperling & Kupfer, con introduzione di Dacia Maraini, che dovrebbe meritare molta più attenzione; ché troppe cose ancora i giovani italiani “devono imparare a memoria”, e solitamente sbagliate, in un’Italia dalla memoria vilipesa, dove c’è perfino chi, periodicamente, tira fuori la storiella che un conto era Benito Mussolini, altro conto Hitler, a significare che il nazismo fu orrore, il fascismo ideologia alla buona, fatta in casa, da italiani brava gente.
E c’è un passo, in questo libro, in cui Tina Anselmi, invece, rivendica sino in fondo la Resistenza, quando si chiede – e se lo chiede lei, democristiana – che cosa avrebbe avuto in mano, alla Conferenza di Parigi, Alcide De Gasperi, se non avesse potuto dire agli alleati, a guerra finita: “non tutti gli italiani sono stati fascisti”?
Ascoltiamola: “Adesso quando qualcuno, che evidentemente non ha vissuto la Resistenza, dice che non dovevamo fare azioni di guerra, perché queste hanno portato ritorsioni, vendette, eccidi, la risposta che noi possiamo dare è che se non avessimo fatto niente, i tedeschi e i fascisti per quanto tempo ancora avrebbero occupato il paese? Come ci saremmo presentati davanti a quanti hanno combattuto il nazifascismo? Davanti alle nazioni vincitrici?”.
Un libro, e come poteva essere diversamente, che essendo declinato tutto al femminile, ripercorre tappe salienti, quali la conquista del diritto del voto alle donne o l’incontro con Angelina Merlin, “Quando l’’Italia “tollerava”” – per dirla con il titolo di un bel libro di Gian Carlo Fusco -, e sarebbe finalmente diventata legge del parlamento, la legge a suo nome, quella che chiuse per sempre le case di tolleranza; o, analogamente, le tappe, assai sofferte, del “divorzio” e dell’”aborto”.
Nilde Jotti e Aldo Moro (con il suo sacrificio, tragedia avvolta ancora dalle nebbie) e Pietro Nenni e Benigno Zaccagnini e Sandro Pertini e Luciano Lama, Enrico Berlinguer, solo a fare alcuni nomi: una storia, quella di Tina Anselmi, vissuta da pari a pari, con personaggi che, come lei, l’Italia di oggi, allora, l’avevano sognata diversa.
Ma Tina che vuole?
Ma Tina che vuole?
E’ lei stessa, nei capitoli in cui racconta ad Anna Vinci la sua esperienza alla guida della Commissione parlamentare d’inchiesta sulla P.2 (fra il 1981 e il 1984), a raccontare il fastidio di molti dei suoi colleghi parlamentari: “Ma che cosa vuole questa Tina? Che fissazione questa Anselmi su Gelli e la massoneria”.
La Partigiana Bianca, ora, non era più nel suo Veneto. Era nella palude della politica romana. Ma Lei, che era stata staffetta partigiana, capì tutto quello che c’era da capire: “La verità è che la P.2 faceva paura a molti, anche a persone che non erano direttamente coinvolte. Quando se ne parlava, c’erano timore, preoccupazione. E credo che la P.2 continui ancora a destare molta inquietudine. Bisognerebbe capire perché. Sarebbe interessante”.
E qualcuno, oggi che Tina Anselmi non c’è più, dovrebbe saperci spiegare cosa sono la P.2, la P.3, la P.4, e via contando… Ma queste son cose che nessuno vuole che gli italiani le imparino a memoria.

saverio.lodato@virgilio.it