Se Di Matteo non ha il curriculum…

 

di Antonio Ingroia

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Nel Paese delle mafie e della corruzione, in cui ogni giorno emergono nuovi intrecci tra potere criminale e potere politico, il minimo che è lecito aspettarsi è che contro le mafie vengano valorizzati al meglio i magistrati più bravi e che contro la corruzione vengano approvate rapidamente leggi serie ed efficaci. In Italia, però, questo non succede.
In Italia succede invece che un magistrato come Nino Di Matteo, pm di punta nella lotta alla mafia, il più odiato da Cosa nostra tanto da essere stato condannato a morte da Totò Riina, veda la sua domanda di trasferimento alla Direzione nazionale antimafia bocciata dalla Terza Commissione del Csm, che gli ha preferito tre magistrati con curriculum oggettivamente inferiore e con minore anzianità professionale nella Direzione distrettuale antimafia. Nulla contro di loro, magistrati validissimi, sicuramente preparati e con esperienza, ma la domanda è: perché loro sì e Di Matteo no? Per Di Matteo del resto parla la sua storia, parlano i tanti anni trascorsi nelle Dda di Caltanissetta prima e di Palermo poi, parlano le inchieste sulla mafia, sulle stragi, sulla ‘trattativa’ che ne fanno uno dei magistrati con la più lunga esperienza nella lotta alla criminalità organizzata, parlano i progetti di attentati pianificati da chi per fermarlo lo vuole a tutti i costi morto. Argomenti che però non sono bastati a convincere il Csm, non ancora, almeno al momento in cui scrivo. Perché la speranza è che il plenum di Palazzo dei Marescialli riveda la decisione della Terza Commissione e riconosca a Di Matteo quell’avanzamento di carriera che si è meritato con il suo lavoro, sul campo.

Comunque vadano le cose, resta comunque il paradosso di una prima decisione incomprensibile, passata nel silenzio generale di istituzioni e media, spiegabile forse solo col timore che Di Matteo alla Dna avrebbe potuto dare ulteriore impulso alla ricerca della verità sulle stragi del 1992/93. Una decisione grave quanto l’isolamento di cui il pm che la mafia vuole morto è stato vittima in questi anni, giudicato ‘colpevole’, ormai è chiaro, di aver toccato con l’inchiesta sulla ‘trattativa’ fili scoperti, di aver osato indagare dove la politica non voleva. Evidentemente in tanti non vogliono che continui il suo lavoro a Palermo ma neppure che lo continui da Roma. E’ un copione ben noto, toccò anche a me quando chiesi la Procura nazionale antimafia invece della Procura di Aosta ed il Csm mi disse di no, ed ancora aspetto una pronuncia del Tar del Lazio contro quella ingiusta ed illegittima decisione. E, andando indietro nel tempo, è sin troppo facile tornare a quando a Giovanni Falcone fu negata la guida della Superprocura antimafia. Nessun paragone, ci mancherebbe. Solo la doverosa e amara denuncia di come spesso, troppo spesso, anche nella magistratura valgono più le regole della politica che non quelle del diritto. I precedenti sono tanti, troppi. Basti pensare alla legge “contra personam” approvata nel 2005 per escludere Gian Carlo Caselli dalla corsa a procuratore nazionale antimafia o, restando a tempi più recenti, alla nomina di Francesco Lo Voi a nuovo procuratore capo di Palermo laddove Sergio Lari e Guido Lo Forte avevano sicuramente più titoli. Insomma, nulla di nuovo. Purtroppo.

E nulla di nuovo nemmeno sul fronte anticorruzione, l’altra grave emergenza nazionale. Sono passati più di nove mesi da quando Matteo Renzi, sull’onda dello scandalo Expo e in piena campagna elettorale per le Europee, promise un Daspo a vita per i politici corrotti, ma da allora il governo ancora non ha partorito nulla di serio. Il ddl anticorruzione, che doveva arrivare in Aula al Senato la scorsa settimana, ha subìto l’ennesimo rinvio. Se ne riparlerà dal 17 marzo, con buona pace del decisionismo di Renzi, che evidentemente va veloce solo quando si tratta di cancellare i diritti dei lavoratori o smantellare la Costituzione. L’anticorruzione invece può attendere, anche se fuori dal Parlamento è un continuo fiorire di mazzette, di insospettabili – o presunti tali – beccati a incassare tangenti. Una scandalosa lentezza che indigna ma non sorprende, dal momento che è l’inevitabile conseguenza del continuo mercanteggiamento che c’è sulla giustizia all’interno di una maggioranza politica improbabile e ballerina, ostaggio di veti incrociati e solitamente in grado di procedere solo con accordi al ribasso. E’ chiaro, ma lo era sin dall’inizio, che su certi temi Ncd non ne vuole sapere e Renzi senza i voti di Ncd non può governare, per cui deve trattare, alla ricerca del compromesso. Lo si è visto alla Camera, dove la maggioranza si è spaccata sulla prescrizione, con Ncd salita sulle barricate contro la sia pur parziale abrogazione dell’ex Cirielli. E lo si è visto al Senato, con il rinvio di due settimane del ddl anticorruzione, con le nuove norme sul falso in bilancio, le nuove pene per i corrotti e l’associazione mafiosa. Un ddl che nella sua prima versione fu presentato dal presidente Grasso il 15 marzo del 2013, due anni fa. Da allora, di rinvio in rinvio, il provvedimento non è stato ancora approvato. Un continuo rimandare che si commenta da solo, una vergogna che ogni giorno diventa più grave. E mentre l’Italia onesta aspetta ormai esausta, se non rassegnata, che la maggioranza trovi una quadra, sperando che non arrivi la solita leggina inutile, corrotti e corruttori sentitamente ringraziano. Dopotutto se questo è l’andazzo hanno poco di che preoccuparsi.

Tratto da: azione-civile.net