La rivoluzione in Vecchia e Nuova Europa

NEWS 237214

di Giulietto Chiesa

È in corso una rivoluzione in Europa. Una rivoluzione che modificherà quasi tutti i parametri del comportamento collettivo degli europei. Introdurrà cambiamenti radicali che saranno diversi tra di loro nella parte occidentale e in quella orientale, ma anche diversi tra di loro in ciascuna delle due parti. Non è escluso che la stessa costruzione dell’Unione Europea, come la osserviamo in questo momento, ne risulterà drasticamente colpita, perfino demolita.
Questo è il mio assunto, che cercherò di illustrare nei paragrafi che seguono. Ma dirò subito che sono esterrefatto dalla quasi completa cecità che contraddistingue le classi dirigenti europee di fronte a fenomeni che a me paiono straordinariamente visibili, percepibili a occhio nudo, ma che esse ignorano con tanta pervicacia da indurmi a pensare che non li si voglia vedere. Che ne abbiano paura.

Diamo un’occhiata veloce, a volo d’uccello, alle ultime consultazioni politiche nazionali. Tra queste la più recente è stata quella paneuropea per l’elezione del Parlamento Europeo del 2014. Prendiamo i casi più eclatanti. In Gran Bretagna la tradizione pluridecennale del XX secolo è stata rovesciata completamente dai risultati elettorali. Dal bipartitismo classico che ha visto competere, da tempo immemorabile, due soli partiti, il Labour e i Tories, siamo arrivati all’improvviso (dopo il marginale apparire di un terzo partito intermedio, il liberale) all’apparizione di un partito del tutto nuovo. Il partito di Nigel Farage, l’UKIP, ha superato d’un balzo entrambi i partiti storici britannici e ha conquistato la maggioranza dei seggi di quel paese nel Parlamento Europeo, con il 27% dei voti. Diversi milioni di elettori britannici hanno d’un tratto cambiato partito e prospettiva politica. E il trend è in ulteriore sviluppo. Sebbene l’elezione del parlamento Europeo abbia caratteristiche particolari, le elezioni suppletive in diversi collegi nazionali per la Camera dei rappresentanti hanno portato nel parlamento nazionale esponenti dell’UKIP che hanno scalzato sia laburisti che conservatori. Dunque il cambio è profondo.
Un fenomeno analogo è avvenuto in Francia. A due anni dalla vittoria di Hollande nelle elezioni presidenziali, le europee hanno registrato un vero e proprio tracollo di tutti i partiti che fino a quel momento avevano gestito, alternandosi, il potere politico e amministrativo in Francia. Alle europee L’UMP (Unione per un Movimento Popolare, conservatori) aveva perduto il 7,07% e sette seggi. La coalizione Partito Socialista (PS) e Partito Radicale di Sinistra (PRG) è rimasta ferma a 13 seggi, perdendo tuttavia il 2,50% dei voti. Europa Ecologia e Verdi (EELV) ha avuto il tracollo maggiore, perdendo il 7,33% e nove seggi. Unica formazione tradizionale che ha tenuto i suoi voti (+1,48%), perdendo tuttavia due seggi è stata la coalizione MoDem-UDI (Movimento Democratico+ Unione dei Democratici e Indipendenti). Complessivamente l’arco del centro-sinistra e del centro-destra ha perduto il 16,90%. Un solo partito è uscito vincitore, il Fronte Nazionale di Marine Le Pen, che ha ottenuto il 24,86% dei voti, con un incremento del 18,52% , portando i propri seggi nel parlamento Europeo da 3 a 24. La geografia politica francese è stata ribaltata completamente. E ora, il 25% ottenuto da tale partito alle recentissime amministrative – sebbene sia meno di quel che gli promettevano i sondaggi- corrisponde a un’inedita presenza in metà dei ballottaggi.
Gran Bretagna e Francia indicano un secco spostamento “a destra”, sebbene le differenze politiche e di programma tra l’UKIP di Farage e il Front National di Marine Le Pen siano rilevanti.
Un anno prima, in Italia, si era verificato un fenomeno di portata analoga, seppure anch’esso con caratteristiche molto peculiari. Un partito fino a quel momento inesistente, mai presentatosi prima d’allora in una consultazione nazionale, il Movimento Cinque Stelle dell’attore-comico Beppe Grillo, aveva scompaginato la geografia politica italiana. Il segnale d’allarme lo aveva dato nelle elezioni regionali siciliane, in cui il M5S era divenuto il primo partito, sia per percentuali di voto (14,90%) , sia per numero di seggi (15) . Alle successive elezioni politiche il M5S diventava il secondo partito italiano, subito dopo il Partito Democratico, con il 25% dei voti, pari a più di nove milioni di elettori. In un contesto – non va dimenticato – di un record di astensioni dal voto, a testimonianza di una larghissima disaffezione e disistima di un’ampia fetta di popolazione nei confronti dei partiti politici tradizionali.
Nel frattempo in Spagna sta avvenendo un analogo rivolgimento politico, che numerosi segnali indicano come vasto e profondo al tempo stesso. Anche in questo caso la consolidata contrapposizione destra-sinistra risulta in via di smantellamento. I sondaggi d’opinione, tenutisi nei primi mesi del 2015, annunciano il sorgere di una nuova forza politica, Podemos (che echeggia il We Can del primo Obama ma che è decisamente più radicale e assai poco “americana”), che pare già contare sul 30% dei consensi, cioè si annuncia come il primo partito politico nelle prossime elezioni, tra poco più d’un anno circa. A differenza del M5S italiano, che ha un carattere decisamente “trasversale”- avendo raccolto consensi sia a destra che a sinistra, ma probabilmente più a destra che a sinistra – Podemos appare fin d’ora come un partito più inclinato “a sinistra”, ma con forti caratteristiche anti-politiche, anti-burocratiche, libertarie. Una nuova aggregazione composita, di ceti medi insoddisfatti e delusi da tutte le politiche precedenti, di lavoratori e di giovani, e fortemente anti-americana. Prova ne sia che i suoi leader, prima ancora di entrare nel nuovo parlamento spagnolo (cosa che tutti gli osservatori considerano ormai scontata) hanno subito annunciato che promuoveranno un referendum popolare per l’uscita della Spagna dalla Nato.
Il quadro europeo registra fenomeni analoghi, di improvvise apparizioni di nuovi partiti, prevalentemente di orientamento di destra, anche in Olanda, Finlandia, ma il più rilevante sommovimento della “vecchia Europa” è avvenuto in Grecia, con la squillante vittoria dell’alleanza di sinistra Syriza, guidata da Aleksis Tsipras. Syriza, che non è un partito, ma una coalizione assai differenziata al suo interno, anche se con una corrente di maggioranza con diverse componenti di ispirazione variamente comunista. Un cospicuo 36% ha portato al primo posto Syriza, la quale, a sua volta – confermando le tendenze trasversali che stanno prendendo piede in molti paesi – ha immediatamente dato vita alla coalizione con un partito di destra che ha preso in mano il governo della Grecia con un programma esplicitamente ostile alle politiche della Trojka europea, guidate dalla Germania. Né va dimenticato che, nel programma di Siryza è contenuta la parola d’ordine dell’uscita della Grecia dalla Nato.

Le tendenze e le cifre fin qui esposte sono dunque generali, nella forma e nella modalità di apparizione. Tutte stanno verificandosi simultaneamente e in un lasso di tempo molto breve. Anche se disomogenee dal punto di vista dei contenuti politici che stanno esprimendo, indicano sommovimenti profondi delle opinioni pubbliche della “vecchia Europa”.

Confrontare queste tendenze con ciò che avviene (o non avviene) nella “nuova Europa” – l’Europa dell’est, quella che è stata assorbita nell’Unione Europea a partire dal 2005 – è difficile, ma anche improprio. Questa “nuova Europa” ha infatti avuto un’evoluzione del tutto diversa, partendo da radici politiche, storiche e psicologiche del tutto disomogenee. Il suo innesto nell’Unione Europea è avvenuto in modo differenziato, in gran parte improvvisato, per analogia, per imitazione o per colonizzazione. Erano diverse – e anche in gran parte ingannevoli – le aspettative dei popoli che arrivavano direttamente in Europa emergendo dal Patto di Varsavia, o addirittura che fuoruscivano dall’ex Unione Sovietica, come è stato nel caso di Estonia, Lettonia e Lituania. I partiti che sono nati all’Est dopo il crollo dell’URSS e si sono sviluppati negli anni successivi, portano nomi analoghi a quelli dei partiti storici dell’Europa occidentale, ma sotto i nomi c’è ben poco in comune con le relative storie, statuti, funzionamenti, siano esse di destra o di sinistra. Le stesse idee e percezioni di “destra” e “sinistra” avevano, e hanno tuttora, significati del tutto diversi da quelli della “vecchia Europa”, ed è ben comprensibile che ciò rimanga a lungo presente data l’esperienza dei “partiti unici”, delle “democrazie popolari”, di quello che è stato chiamato il comunismo di tipo sovietico. Inoltre vanno aggiunti due dati opposti l’uno all’altro, entrambi importantissimi. Il primo è stato che i vecchi gruppi dirigenti, pre-europei, si sono riciclati, in diversi paesi, ad esempio la Bulgaria, l’Ungheria, la Slovacchia, la Polonia, sotto nuove spoglie, variamente autodefinitesi socialiste, socialdemocratiche, progressiste, rimanendo nell’orbita del potere politico e dunque trasferendovi metodi e tradizioni del passato. Il secondo – radicalmente opposto, appunto – è stato l’apparizione di gruppi dirigenti “d’importazione”, costituiti da elementi dell’emigrazione, seguita all’esito della Seconda Guerra Mondiale, e dai loro discendenti. Si capisce che questa “apparizione” è stata niente affatto miracolosa. Gli Stati Uniti e il Canada erano stati i ricettacoli principali di tutte le emigrazioni est-europee e le avevano “tenute in caldo”, con invidiabile lungimiranza, in attesa di riportarle al comando non appena se ne fosse presentata l’occasione. Altrove, come in Ungheria e nella stessa Polonia, sono sorti partiti “nuovi” dal carattere apertamente reazionario. Tutto questo indica anch’esso un profondo sommovimento latente, che probabilmente arriverà a maturazione in tempi più lunghi e con risultati diversi rispetto a quelli della “vecchia Europa”. Ma, paradossalmente, dieci anni dopo l’ingresso in Europa, dovunque all’est la disaffezione nei confronti delle istituzioni europee appare grande e crescente. Rivelata, ad esempio, dalla scarsissima affluenza alle urne nelle elezioni per il Parlamento Europeo. L’«adattamento» non solo non c’è stato, ma non offre segni di sviluppo.
Sotto questo profilo – cioè quello della disaffezione all’Europa – le tendenze appaiono identiche sia all’est che all’ovest. Secondo un recentissimo sondaggio – effettuato sui sei paesi maggiori dagl’istituti Demos e Pragma, integrato dall’VIII Rapporto sulla Sicurezza Europa – solo l’opinione pubblica tedesca conserva una fiducia maggioritaria verso l’Europa. In Francia, Spagna, Polonia, è la sfiducia a essere maggioritaria: solo il 40% ritiene soddisfacenti le istituzioni europee. In Gran Bretagna è ancora peggio, con il 30%. Il paese che manifesta il “rigetto” maggiore è l’Italia, dove soltanto il 27% è contento di come vanno le cose in Europa.
Per quanto concerne la moneta comune, l’Euro, in tutti i paesi presi in esame, tra il 45 e il 50% dei cittadini ritiene l’Euro “un male necessario”, mentre, ad esempio in Spagna e in Francia, solo il 20% lo ritiene vantaggioso. In Italia, di nuovo, la sfiducia prevale di gran lunga: solo il 10% pensa che la moneta unica sia uno strumento utile. Perfino in Germania – che dall’euro ha ricavato i maggiori vantaggi – solo il 37% dei cittadini vorrebbe restare nell’euro. La nostalgia del marco è prevalente.
Presi tutti insieme, questi dati appaiono eloquenti. La crisi dell’Europa – s’intende qui dell’Unione Europea – è evidente. Da dove scaturisce questa crisi? Da molti fattori indubbiamente. Il progetto iniziale dell’Europa è stato abbandonato e stravolto. L’ispirazione democratica del Trattato di Roma è stata sostituita da una costruzione burocratica sostanzialmente autoritaria, che è raffigurata malamente dal Trattato di Lisbona. Maastricht ha aperto la strada al passaggio dei poteri dalle istituzioni democratiche pensate da Spinelli e Spaak al dominio incontrastato dei mercati finanziari. Gli Stati membri – unici depositari della sovranità popolare – hanno delegato gran parte dei loro poteri verso istituzioni comunitarie tecnocratiche “nominate” e prive di ogni investitura popolare. I referendum popolari che avrebbero dovuto garantire una qualche forma di controllo dal basso del processo costituzionale europeo sono stati eliminati e sostituiti da ratifiche parlamentari del tutto formali e lontane da ogni coinvolgimento delle opinioni pubbliche. La stessa fisionomia del Potere europeo ha finito per identificarsi con la Trojka: una triade di centri di decisione senza alcuna investitura popolare e democratica, uno dei quali – il Fondo Monetario Internazionale – non è nemmeno “europeo”, e gli altri due – Commissione e Banca Centrale – sono composti e nominati dai governi secondo alchimie incontrollabili e perfino invisibili.
Si potrebbe continuare a lungo nell’elenco degli errori (ma non si è trattato di errori, bensì di scelte politiche molto precise).
Tuttavia le radici della crisi sono ben più strutturali e profondamente sociali, oltre che politiche. Il “patto europeo” fu fondato – e questo ne assicurò comunque il successo per quarant’anni – sul mantenimento degl’impegni che legarono classi dirigenti e popoli della “vecchia Europa”. Questi si possono riassumere in questo modo: i secondi concessero fiducia alle prime, ricevendo in cambio un relativo, costante, accettabile benessere. Questo patto è stato stracciato. La crisi economica mondiale in cui l’intero Occidente è coinvolto, ha reso sempre più difficile alle classi dirigenti soddisfare l’«impegno» contratto con i rispettivi popoli. Il tenore di vita delle classi medie ha subito un drastico ridimensionamento nei primi quindici anni del nuovo secolo. La drammatica crisi finanziaria del 2007-2008 continua e si prolunga senza che nuove ricette vengano proposte. Il debito si è trasformato in un vincolo ferreo che incatena ogni movimento verso la crescita. Ma la stessa crescita – alla quale, ormai solo come speranza, fanno riferimento tutti i gruppi dirigenti – è resa sempre più aleatoria dall’esaurimento delle risorse. Essa persiste là dove si è spostata, in Asia, mentre in Europa essa, anche là dove ancora esiste – sempre, comunque, ridotta ai decimali – non produce più crescita occupazionale. Lo sviluppo delle tecnologie e l’aumento della produttività del lavoro riducono il numero degli occupati. La disoccupazione resta altissima. Interi strati popolari vedono scendere il loro tenore di vita, in molti casi ai limiti della povertà.
Il caso della Grecia ha raggiunto un limite oltre il quale parlare di crisi economica non è più possibile, al punto che gli stessi leader europei sono ormai costretti a usare il termine di “crisi umanitaria”. In Grecia, cioè in piena Europa, la mortalità infantile è salita del 40% in quattro anni di ricette di austerità, imposte dalla Trojka, e che hanno fatto aumentare il debito greco verso le banche e le istituzioni internazionali invece che diminuirlo. Ma tutti percepiscono il pericolo che, nelle stesse condizioni, possano presto trovarsi paesi cruciali per il destino europeo come la Spagna, l’Italia, la Francia. In altri termini i popoli europei hanno cominciato a capire che il “patto europeo” è stato rotto. Crollata la fiducia nei governanti tradizionali, cioè dei partiti che li esprimevano, essi stanno cercando nuovi rappresentanti dei loro compositi interessi. Ma questi nuovi rappresentanti, i nuovi partiti, ancora non esistono, come non esistono classi dirigenti capaci di affrontare la brusca svolta imposta dai vincoli esterni della crisi. Parti importanti degli elettorati si orientano temporaneamente verso le formazioni politiche più estreme e radicali. Quasi dovunque si registra l’abbandono del “centro”. Ecco così spiegato ciò che abbiamo descritto nelle pagine precedenti. La situazione che abbiamo di fronte è quella, tipica, di un vasto processo di transizione. I vecchi partiti quasi dovunque spariscono, si liquefano o evaporano. I nuovi partiti ancora non si sono formati. Nascono dunque forme di aggregazione politica più o meno temporanee. Le loro caratteristiche ideologiche sono incerte, anch’esse temporanee. La crisi, infatti, non può essere né spiegata, né risolta in base alle ricette del XX secolo. E, dunque anche le fisionomie ideali e politiche dei nuovi movimenti e correnti di opinione tradiscono l’incertezza e la temporaneità. Tutto indica l’esistenza di vasti sommovimenti in corso, anzi all’inizio. Le correnti profonde della storia stanno emergendo alla superficie dopo essersi scavate nuovi alvei sotterranei.
Quando il processo esploderà con tutto il suo vigore, l’attuale costruzione europea non sarà in grado di contenerlo. Lo stesso rapporto tra Europa e Stati Uniti che ha caratterizzato tutto il secondo dopoguerra sarà profondamente modificato.

La versione russa di questo articolo compare sul numero di questa settimana della rivista Odnako.

Tratto da: megachip.globalist.it