La Mafia in Basilicata

di Nicola Tranfaglia – 21 novembre 2012
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Quello che una volta era definito dai giornalisti, come dai lettori, l’organo principe della borghesia italiana, Il Corriere della Sera, ha pubblicato ieri alcune notizie che sono tra il clamoroso e l’esilarante e che purtroppo nessun telegiornale né pubblico né privato ha ritenuto di dover riprendere. Le riassumo con la massima brevità.

Da un articolo di Sergio Rizzo, pubblicato senza risalto (a pagina 19 tra le Cronache) si può leggere che contributi dello Stato per fondi agricoli sono stati attribuiti senza controllo al fratello di Salvatore Riina, il capo dei corleonesi catturato nel 1993 e oggi all’ergastolo e allo stesso modo altri contributi sono stati versati ad Antonio Piromalli noto per essere stato a suo tempo uno dei capi della ‘ndrangheta calabrese.
Ora l’agenzia delle entrate italiane ha intrapreso un’azione legale per recuperare i fondi a suo tempo versati ma se si scopre – come rileva Rizzo – che complessivamente lo Stato ha versato senza controllo circa due milioni di euro di contributi agricoli illegittimi, è facile arrivare ad amare conclusioni.
Come è possibile che quello stesso Stato che ha perseguito per molti anni con le forze dell’ordine e la magistratura quei capi mafia e tanti altri loro seguaci fino a catturarli ha potuto, senza nessun filtro, versare contributi di migliaia e addirittura milioni di euro a fratelli e altri parenti di quei delinquenti e non accorgersi della contraddittorietà terribile di un simile comportamento sia in sé stesso che come esempio negativo per le nuove generazioni?
E’ un interrogativo questo che mi piacerebbe portare all’attenzione delle massime autorità del paese poiché una condotta schizofrenica come quella che abbiamo descritto rischia di avere effetti molto negativi non soltanto sull’immagine del nostro paese ma anche sul giudizio che ci si può fare di esso in patria come nel resto del mondo.
Non si può continuare ad essere, come a volte sembra di vedere, uno Stato che si nutre nello stesso tempo di illegalità e di burocratismo e che sembra incapace di scegliere tra l’uno e l’altro termine o decide al contrario di coniugarli come se fossero compatibili e convergenti piuttosto che invece, come sono, contraddittori e divergenti.
Ma c’è un altro aspetto che, per chi si è dedicato molto come chi scrive sia con i suoi libri che, con il suo insegnamento universitario, a un problema centrale del nostro paese quale è la presenza e il dominio crescente delle associazioni mafiose è il silenzio quasi completo che vedo nei giornali, come nei canali televisivi, sulle principali associazioni che dominano il Mezzogiorno e le isole maggiori ma che sono sempre più presenti anche nell’Italia del Centro e del Nord.
Nei giorni scorsi, per fare l’ultimo esempio, la Corte di Appello di Potenza ha di fatto confermato – con poche modifiche – la sentenza di primo grado contro la “famiglia dei basilischi” riconosciuta come “associazione a delinquere di stampo mafioso” e ha condannato delle 38 persone già condannate in primo grado 36 infliggendo agli imputati complessivamente più di duecento anni di carcere. A Giovanni Cosentino considerato il capo dell’associazione ventuno anni di carcere ma una misura che varia dai tre ai sette anni ai gregari dell’organizzazione mafiosa.
I giudici ricostruiscono in maniera precisa la nascita e lo sviluppo dell’associazione negli anni ottanta e novanta. “Cosentino – afferma la sentenza – è leader indiscusso del clan fino agli anni novanta, quando gli investigatori scoprono che, durante la detenzione degli esponenti dei clan storici, i loro affiliati allo sbando e senza una guida si erano riuniti sotto un unico cartello.”
Ed è a questo punto che qualcosa cambia nel panorama criminale della Basilicata. Le mafie delle regioni vicine, la camorra campana e la ndrangheta calabrese per i loro affari in terra lucana non possono non tener conto della nuova famiglia dei basilischi che controlla il territorio.
Ma, a un certo punto, una questione familiare rompe gli equilibri: la compagna di Cosentino viene accusata di averlo tradito mentre lui era detenuto. Dal carcere parte l’ordine di regolare i conti e Michele Danese, cognato del boss, viene incaricato di sfregiare la donna. Ma Danese non porta a termine l’incarico e pagherà in prima persona perché viene aggredito in casa e sfugge miracolosamente alla morte.
A questo punto Danese, sopravvissuto, va alla procura della repubblica di Potenza, consegna il rito di affiliazione e svela l’esistenza dell’associazione mafiosa.
Per la famiglia lucana è la fine e i personaggi più importanti del clan sono catturati e processati ma questo è quello che avviene entro la fine degli anni novanta. E non sappiamo quasi nulla di quello che è avvenuto negli anni successivi.
Ora questo breve racconto significa qualcosa nella storia della mafia italiana. Nel senso che la Basilicata, rimasta per più di un secolo e mezzo fuori di tutte le storie delle mafie, è entrata anch’essa in questa storia e si può dubitare che dopo l’esperienza degli anni novanta ne sia uscita.