Dell’Utri e la trattativa. Le indagini seguono la pista dei soldi

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Dalla Fininvest alla P3
di Lorenzo Baldo e Monica Centofante – 26 novembre 2011
Segue la scia dei soldi la nuova inchiesta sul senatore del Pdl Marcello Dell’Utri, da quanto si è appreso due giorni fa ufficialmente indagato nell’indagine palermitana sulla cosiddetta trattativa tra Stato e mafia negli anni delle stragi. La pista che percorreranno i pm Antonio Ingroia, Lia Sava, Nino Di Matteo e Paolo Guido punterà ora a ricostruire operazioni finanziarie mai chiarite, quelle che da sempre caratterizzano la storia dell’impero di Silvio Berlusconi, dalle sue origini sino ai giorni nostri.

Dal lontano 1974, anno in cui il boss Stefano Bontade fu accolto con tutti gli onori negli uffici della Edilnord, fino al marzo scorso, quando l’allora Presidente del Consiglio ha versato all’amico Marcello 8 milioni di euro non giustificati, che erano andati ad aggiungersi al milione e mezzo “donato” poco tempo prima.
Una lunga sequela di misteri che parte dalla nascita della Fininvest e da quei 113 miliardi di vecchie lire, la cui provenienza non è stata mai chiarita, che tra il 1975 e il 1983 sarebbero affluiti nelle 22 holding del gruppo, diventate poi 37. Inspiegabile immissione di denaro, sulla quale Berlusconi si è sempre rifiutato di fornire chiarimenti, che era seguita proprio a quell’incontro a Milano, organizzato da Marcello Dell’Utri, tra il giovane imprenditore del nord e l’allora capo di Cosa Nostra. Chiamato dall’amico Marcello a risolvere il problema delle minacce provenienti dall’anonima sequestri e dirette ai familiari del costruttore di Milano 2. Un incontro, ricorda il pentito Francesco Di Carlo – testimone oculare giudicato perfettamente attendibile dalle corti di primo e secondo grado che hanno condannato Dell’Utri per concorso esterno in associazione mafiosa (7 anni di reclusione comminati in appello) – terminato con un accordo fra i due interlocutori: a disposizione l’uno dell’altro “per qualsiasi cosa”.
A tirare nuovamente in ballo, qualche mese fa, i presunti investimenti di Bontade nelle attività del Cavaliere il pentito Giovanni Brusca, ascoltato al processo che vede imputati gli ufficiali del Ros Mario Mori e Mauro Obinu con l’accusa di favoreggiamento a Cosa Nostra, per aver favorito la latitanza del boss Bernardo Provenzano. Il cui interrogatorio è già stato acquisito dai magistrati di Palermo.
In quell’occasione Brusca ricorda che la mafia legata a Bontade “investì denaro con Dell’Utri e Berlusconi”. “Seppi da Ignazio Pullarà che poi il boss Giovannello Greco, temendo di perdere i frutti dell’investimento fatto con Berlusconi, fece un blitz a casa di Gaetano Cinà per riprenderseli”.
Prima di lui era stato l’imprenditore e faccendiere Filippo Alberto Rapisarda (scomparso lo scorso 1° settembre) a parlare di Dell’Utri e Berlusconi come riciclatori dei soldi di Bontade, mentre Angelo Siino, alias “ministro dei lavori pubblici di Cosa Nostra” aveva raccontato ai magistrati di un suo colloquio con lo stesso Bontade, che parlando dell’odierno senatore gli aveva accennato ai suoi rapporti con “un certo Alamia” e con Vito Ciancimino. In merito a quest’ultimo “mi disse che stava… il Dell’Utri curava problemi finanziari del Ciancimino, inerenti a questa società di costruzioni dell’Alamia”. La società era la Inim Spa del gruppo Rapisarda e i rapporti tra Ciancimino e Alamia erano stati confermati dal giudice Paolo Borsellino in un’intervista rilasciata al giornalista Zagdoun Jean Claude. “Che Alamia fosse in affari con Ciancimino – sono le sue parole – è una circostanza da me conosciuta e che credo risulti anche da qualche processo che si è già celebrato”.
In ogni caso, aveva proseguito Brusca, nel corso dell’udienza di maggio, il patto criminale stretto con Bontade non esonerava Berlusconi dal pagamento di 600 milioni di lire l’anno a titolo di pizzo, per le sue attività in Sicilia. Pagamento che sarebbe proseguito anche dopo la guerra di mafia, l’uccisione di Bontade e di tutta la mafia cosiddetta “perdente e l’ascesa al vertice di Cosa Nostra dei corleonesi guidati da Totò Riina. E sarà proprio Riina, dopo aver scoperto l’esistenza di quel rapporto, ad avvicinare ulteriormente Berlusconi per il tramite di Antonino Cinà e Marcello Dell’Utri. Con chiari fini politici: l’intento del boss dei boss è infatti quello di arrivare a Bettino Craxi, amico del Cavaliere, in un periodo in cui la mafia è alla ricerca di nuovi referenti. In quest’ottica va letto l’attentato alla villa di via Rovani  del 1986 unito a una serie di minacce rivolte a Berlusconi e, contemporaneamente, i favori e le telefonate affettuose tra Tanino Cinà e Dell’Utri o le cassate inviate per Natale al Cavaliere. Un colpo e una carezza, come è nello stile di Cosa Nostra, che in quello stesso anno, per il tramite di Vito Ciancimino avrebbe anche tentato di far ottenere a Berlusconi un prestito di 20 miliardi di vecchie lire per le sue aziende attraverso la Banca Popolare di Palermo.
A rivelarlo, questa volta, è Giovanni Scilabra, ex direttore generale di quella banca, oggi in pensione. E la sua testimonianza è già inserita nel fascicolo di indagine dei magistrati di Palermo. “Nei primi mesi del 1986 – racconta Scilabra – il Cavaliere Arturo Cassina mi disse: ‘Dottore Scilabra, vengo sollecitato da Vito Ciancimino per un finanziamento ad un grande gruppo del nord. Io vorrei che lei lo riceva e ascolti le sue richieste’. Dopo alcuni giorni – afferma l’ex manager – Vito Ciancimino è venuto insieme al signor Marcello Dell’Utri… Veniva a chiedere un finanziamento per il Cavaliere Berlusconi”. E “mi disse: ‘Abbiamo problemi al nord con il sistema bancario e allora abbiamo tentato con l’amico Ciancimino di sentire cosa si può ottenere dalle piccole banche siciliane’.” L’operazione però, a detta del Scilabra, non andrò in porto perché troppo rischiosa (“la centrale rischi bancari indicava per il Gruppo Berlusconi un’esposizione per migliaia di miliardi di lire”) e Ciancimino ci rimase “molto male”, tanto che la sfuriata “fu sgradevole”. E Scilabra è convinto: “Per capire l’Italia di oggi bisogna partire dalle storie come quella di Cassina e per ricostruire un Paese migliore bisogna cominciare a raccontare tutta la verità”.
Quella stessa verità che i magistrati di Palermo stanno tentando faticosamente di ricostruire, riaprendo un capitolo che la sentenza di secondo grado del processo contro Marcello Dell’Utri aveva tentato di chiudere:  ossia il risvolto politico di quei contatti ormai accertati tra Cosa Nostra e Berlusconi per il tramite dell’odierno senatore del Pdl. Contatti che non si sarebbero interrotti nel 1992 – come vorrebbero far credere i giudici d’appello, con motivazioni decisamente discutibili – ma sarebbero proseguiti, con le stesse modalità e con maggior forza, per tutti gli anni novanta e sino ad oggi. Perché Marcello Dell’Utri, dopo l’uccisione di Salvo Lima e l’arresto di Vito Ciancimino avrebbe assunto il ruolo di intermediario tra Cosa Nostra e lo Stato negli anni delle stragi. E avrebbe favorito gli interessi della mafia alla corte di Silvio Berlusconi sin dalla nascita di Forza Italia, il partito che dal ’94 in poi i boss avrebbero sempre appoggiato.
Per questi motivi il senatore del Pdl è oggi indagato a Palermo con l’accusa di “violenza o minaccia a un Corpo Politico, amministrativo o giudiziario”. Lo stesso capo d’accusa contestato al generale Mario Mori e al suo braccio destro al Ros Giuseppe De Donno, anche loro coinvolti nella difficile inchiesta dei pm che stanno tentando di ricostruire gli anni in cui parte delle istituzioni scese a patti con i boss. Per farlo sono partiti dalle rivelazioni dei pentiti Gaspare Spatuzza, Giovanni Brusca, Stefano Lo Verso e da quelle del dichiarante Massimo Ciancimino, attualmente agli arresti domiciliari. E hanno ripercorso il giro di denaro che dalle casse di Cosa Nostra è finito in quelle dell’impero berlusconiano e viceversa.
Su quei percorsi impervi avrebbero trovato anche i versamenti milionari di Silvio Berlusconi a Marcello Dell’Utri, scoperti grazie alle indagini sulla cosiddetta P3, nella quale il senatore del Pdl è indagato insieme a soggetti inquietanti della portata del faccendiere Flavio Carboni, da sempre vicino ad ambienti criminali. In quelle carte si legge che il 22 maggio del 2008 Berlusconi aveva versato sul conto dell’amico Marcello, un bonifico di 1,5 milioni di Euro” con la causale “prestito infruttifero”. Operazione che si era ripetuta il 25 febbraio 2011 e l’11 marzo 2001, date in cui, con la medesima causale, l’allora Presidente del Consiglio aveva versato sul conto di Dell’Utri rispettivamente 1 milione e 7 milioni di euro. Per un totale di 9 milioni e mezzo. L’Uif e la Guardia di Finanza hanno ricostruito la destinazione di parte di quelle somme, utilizzate per pagare i lavori di ristrutturazione della villa del senatore, ma per il resto del denaro non si è saputo più nulla. A cosa servivano quei soldi? Tenteranno di rispondere alla domanda i magistrati di Palermo. O forse la risposta ce l’hanno già.

Fonte:Antimafiaduemila