Giovanni Brusca libero, rispettata la legge

Mano dura e 41 bis contro i boss non pentiti

“Ho ucciso Giovanni Falcone (e assieme a lui la moglie Francesca Morvillo e gli agenti di scorta Antonio Montinaro, Vito Schifani e Rocco Dicillo, ndr), ma non era la prima volta: avevo già adoperato l’auto bomba per uccidere il giudice Rocco Chinnici e gli uomini della sua scorta.
Sono responsabile del sequestro e della morte del piccolo Giuseppe Di Matteo, che aveva 13 anni quando fu rapito e 15 quando fu ammazzato. Ho commesso e ordinato personalmente oltre 150 delitti. Ancora oggi non riesco a ricordare tutti, uno per uno, i nomi di quelli che ho ucciso. Molti più di cento, di sicuro meno di duecento”.
Non si nascondeva dietro a un dito Giovanni Brusca, in queste dichiarazioni contenute nel libro di Saverio Lodato, “Ho ucciso Giovanni Falcone” (edito da Mondadori e rieditato nel 2017).
Come capo mandamento di San Giuseppe Jato fu membro della cosiddetta Cupola; venne affiliato personalmente dal Capo dei Capi, Salvatore Riina e fu arrestato il 20 maggio 1996, ad Agrigento, mentre guardava, ironia della sorte, proprio un film sulla strage di Capaci.
Lo chiamavano “scannacristiani”; “u verru” e adesso, dopo 25 anni di detenzione, è divenuto un uomo libero per fine pena.
La notizia, riportata per prima da L’Espresso e confermata dagli ambienti giudiziari, è di ieri. Ha lasciato il penitenziario di Rebibbia, a Roma, con 45 giorni di anticipo rispetto alla scadenza della condanna e adesso sarà sottoposto a controlli e protezione ed a quattro anni di libertà vigilata, come deciso dalla Corte d’Appello di Milano.
E come era ovvio aspettarsi tra i familiari vittime di mafia, e nell’opinione pubblica, sono molteplici i sentimenti suscitati dalla sua uscita dal carcere.
Considerazioni comprensibili.


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Giovanni Falcone © Shobha


A caldo ha commentato Maria Falcone: “Umanamente è una notizia che addolora, ma questa è la legge, una legge che peraltro ha voluto mio fratello e quindi va rispettata. Mi auguro solo che magistratura e le forze dell’ordine vigilino con estrema attenzione in modo da scongiurare il pericolo che torni a delinquere, visto che stiamo parlando di un soggetto che ha avuto un percorso di collaborazione con la giustizia assai tortuoso. La stessa magistratura in più occasioni ha espresso dubbi sulla completezza delle sue rivelazioni, soprattutto quelle relative al patrimonio che, probabilmente, non è stato tutto confiscato: non è più il tempo di mezze verità e sarebbe un insulto a Giovanni, Francesca, Vito, Antonio e Rocco che un uomo che si è macchiato di crimini orribili possa tornare libero a godere di ricchezze sporche di sangue”.
A proposito dei pentiti, quando era in vita, Giovanni Falcone diceva: “Non sono dei deboli che tradiscono, ma persone che sempre più si sentono estranee alle culture del silenzio e dell’omertà”. E poi ancora su Tommaso Buscetta, anni dopo l’avvio della collaborazione, disse: “Prima di lui, non avevo – non avevamo – che un’idea superficiale del fenomeno mafioso. Con lui abbiamo cominciato a guardarvi dentro. Ci ha fornito numerosissime conferme sulla struttura, sulle tecniche di reclutamento, sulle funzioni di Cosa Nostra. Ma soprattutto ci ha dato una visione globale, ampia, a largo raggio del fenomeno. Ci ha dato una chiave di lettura essenziale, un linguaggio, un codice. È stato per noi come un professore di lingue che ti permette di andare dai turchi senza parlare coi gesti”.
Ecco, dunque, l’importanza dei collaboratori di giustizia.
Un istituto che parte da lontano.
E’ negli anni Novanta che furono emanate le prime norme fino ad arrivare al decreto-legge 15 gennaio 1991, n. 8, convertito, con modificazioni, dalla legge 15 marzo 1991, n. 82 ricordata come una delle prime leggi emanate per disciplinare il fenomeno nell’ambito della repressione della mafia in Italia. Il provvedimento fu modificato dalla legge 13 febbraio 2001, n. 45. La legge che ha consentito, oggi, la liberazione di Giovanni Brusca.
E’ chiaro che quello dell’ex boss di San Giuseppe Jato è un caso che diventa nodo centrale per il futuro della lotta alla mafia.
Il perché è presto detto, ma procediamo per gradi.


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Maria Falcone © Imagoeconomica


Il contributo di Brusca
Sicuramente non si può dire che per Brusca il percorso di collaborazione con la giustizia sia stato facile.
Tutt’altro. Fu particolarmente travagliato in principio, dove non mancavano le contraddizioni e le incertezze ed addirittura si pensava potesse essere un falso pentito.
Poi, però, dopo essere stato indagato per calunnia e messo alle strette, Giovanni Brusca, cominciò a dire la verità raccontando fatti di grandissimo rilievo oltre alle proprie responsabilità su omicidi da lui commessi o sulle responsabilità di Cosa nostra.
Nel processo Borsellino ter parlò del rapporto tra mafia-politica-istituzioni arrivando a raccontare in aula anche della trattativa, di Mori e De Donno. E disse che il Capo dei Capi, Totò Riina, gli riferì del papello e gli fece il nome del ministro degli Interni Nicola Mancino (assolto definitivo nel processo trattativa Stato-mafia).
Dopo l’incontro avuto con Rita Borsellino ha ritrovato un nuovo impulso per andare ancora più a fondo su certi argomenti. Così ha riferito anche del ruolo dell’ex senatore Marcello Dell’Utri (condannato in via definitiva per concorso esterno in associazione mafiosa) nel contatto con Silvio Berlusconi e più recentemente, ha raccontato anche dell’incontro che vi sarebbe stato, secondo quanto gli riferì il boss di Trapani Matteo Messina Denaro, tra Giuseppe Graviano, boss di Brancaccio, e lo stesso ex Premier, oggi indagato a Firenze come mandante esterno delle stragi del 1993. Secondo quanto riferito da Brusca, Messina Denaro gli disse che Graviano avrebbe visto al polso di Berlusconi un orologio da 500 milioni.
Un ricordo sovvenuto dopo aver letto alcuni passaggi della sentenza trattativa Stato-mafia, come raccontato agli stessi magistrati di Palermo.
Ugualmente ha fornito un ulteriore tassello di verità sul periodo delle stragi spiegando che Totò Riina ebbe a dirgli, verso la fine del 1992, che “qualora lui fosse arrestato o che gli succedeva qualche cosa, i picciotti, Matteo Messina Denaro e Giuseppe Graviano, sapevano tutto”. E’ quella la strada che porta ai segreti di Cosa nostra.


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Giovanni Brusca



Per comprendere la portata delle dichiarazioni di Brusca nel corso della sua storia vale la pena ricordare le motivazioni con cui la Procura nazionale antimafia, qualche anno addietro, espresso parere favorevole ai domiciliari: “Il contributo offerto da Brusca Giovanni nel corso degli anni è stato attentamente vagliato e ripetutamente ritenuto attendibile da diversi organi giurisdizionali, sia sotto il profilo della credibilità soggettiva del collaboratore, sia sotto il profilo della attendibilità oggettiva delle singole dichiarazioni”. Secondo quanto riferito dalla Dna vi sono anche “elementi rilevanti ai fini del ravvedimento del Brusca” quali le sentenze che hanno riconosciuto “la centralità e rilevanza del contributo dichiarativo del collaboratore” e “le relazioni e i pareri sul comportamento di Brusca in ambito carcerario e nel corso della fruizione dei procedenti permessi”.
E’ storia giudiziaria che Brusca, dopo le difficoltà iniziali, sia stato riconosciuto attendibile da diversi organi giurisdizionali tanto che in moltissimi processi gli sono state riconosciute le attenuanti previste dall’art.8 (quello previsto per i collaboratori di giustizia).
Su Giovanni Brusca si può dire e pensare tutto quello che si vuole.
Ci si può chiedere se abbia o meno raccontato tutto quello che sa (abbiamo già messo in evidenza le dichiarazioni più recenti), o se sia veramente pronto a cambiare vita così come hanno fatto altri ex uomini di mafia.
In questo senso è giusto che lo Stato sia vigile e monitori, accertandosi che non rompa il “patto” previsto per i collaboratori e non torni a delinquere.
Così come avvenne anni fa quando, mentre si trovava in carcere, fu indagato perché sospettato di riciclaggio e fittizia intestazione di beni. Una storia che fu chiarita tanto che venne assolto in tutte le sedi, diversamente da altri collaboratori di giustizia che, nel corso del loro percorso, hanno commesso anche delitti o altri che hanno platealmente nascosto le verità di cui erano a conoscenza ed eppure godono di libertà senza che vi siano “levate di scudi”.
Certo, il perdono, seppur difficile, per chi è di fede cristiana è una via.
Chi è laico ha altri strumenti.
In particolare i familiari vittime di mafia hanno tutto il diritto di esprimere il loro parere in piena libertà. E nessuno può chiedere loro di difendere o perdonare Giovanni Brusca.
Bisogna essere vigili, questo sì.
E la verità in questo momento preciso è che l’istituto dei collaboratori di giustizia, fortemente voluto da Giovanni Falcone, è in pericolo e può passare anche dal frastuono che questa scarcerazione sta generando.


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Salvatore Borsellino © ACFB


Il valore dei pentiti
Giovanni Falcone ha sempre ritenuto fondamentali per la lotta alla mafia le figure dei cosiddetti pentiti. Ovviamente non ignorava la problematicità e la delicatezza della questione relativa all’attendibilità e alla genuinità delle dichiarazioni rilasciate dai criminali mafiosi in sede collaborativa. Vi dovevano essere valutazioni rigorose delle loro dichiarazioni ed era necessaria la ricerca di elementi oggettivi affinché tali contributi potessero assumere valore di prova. E sempre Falcone sosteneva che le dichiarazioni dei collaboratori di giustizia, di per sé non indispensabili e decisive, costituivano però un riscontro utilissimo e diretto dei risultati raggiunti per altra via e si offrono come spunto per ulteriori indagini. Ed era anche sua convinzione che vi fosse la necessità di predisporre da un lato misure premiali che potessero incentivare la collaborazione e dall’altro misure di protezione che assicurassero tranquillità e sicurezza agli stessi collaboratori di giustizia ed ai loro familiari.
Questioni che oggi vengono fortemente compromesse. Basti pensare alle poche garanzie di anonimato come raccontato di recente dal procuratore aggiunto di Firenze Luca Tescaroli, oppure alla grave questione dell’incostituzionalità dell’ergastolo ostativo. Il rischio che molti capomafia stragisti escano dal carcere, anche solo per proseguire la detenzione ai domiciliari o godendo di permessi premio (vedi le richieste recenti del boss di Brancaccio Filippo Graviano), è alto.
Perché come ha scritto il giornalista e scrittore Saverio Lodato in questo giornale il nostro è un Paese strano dove si rischia di vedere liberi gli assassini criminali e mafiosi “che non hanno mai collaborato con la giustizia né hanno alcuna intenzione di farlo” e che, una volta usciti dal carcere è ovvio pensare che tornerebbero a delinquere e a manifestare tutto il proprio potere.
Ecco il punto, a 29 anni dalle stragi.
E allora, come ha detto Salvatore Borsellino all’Adnkronos, “quella dello Stato contro la mafia è, o almeno dovrebbe essere, una guerra e in guerra è necessario anche accettare delle cose che ripugnano. Bisogna accettare la legge anche quando è duro farlo, come in questo caso. Questa legislazione premiale per i collaboratori di giustizia fa parte di un pacchetto voluto da un grande stratega, Giovanni Falcone, per combattere la mafia. Dentro ci sono l’ergastolo ostativo, il 41 bis. Va considerata nella sua interezza ed è indispensabile se si vuole veramente vincere questa guerra contro la criminalità organizzata”.

P.S. Come abbiamo più volte detto e scritto, ovviamente, massimo rispetto sul dolore dei parenti delle vittime di mafia che protestano e si indignano sulla scarcerazione di Giovanni Brusca. Non entro nel merito perché il dolore va rispettato. Diversamente, però, qualcosa da dire a certi politici e politicanti c’è. Penso ai vari Matteo Salvini, Maurizio Gasparri, Enrico Letta, Maurizio Lupi, Antonio Tajani, Francesco D’Uva e affini. Tutti soggetti membri di quei partiti, da Forza Italia al Cinque Stelle, passando per il Pd, Lega Nord, Noi con l’Italia ecc.. ecc… che fanno parte della maggioranza hanno oggettivamente sproloquiato con comizi di propaganda su una scarcerazione che è inserita nei canoni di legge. Se non vogliono più una legge sui collaboratori di giustizia, se preferiscono buttare via la chiave per i pentiti, se vogliono togliere l’ergastolo ostativo, il 41 bis, sul sequestro di beni, e chi più ne ha più ne metta, tornino negli scranni del parlamento, votino e poi spieghino al popolo italiano del perché vengono abolite quelle stesse leggi pensate ed ideate da Giovanni Falcone. Fino ad allora l’unica loro possibilità è il silenzio.

fonte: antimafiaduemila.com