Rinascita-Scott, Mantella in aula: ”Una rete massonica deviata per il clan”

Il collaboratore di giustizia parla del ruolo di Pittelli e degli interessi della “cupola” vibonese

Primo giorno di audizione al maxiprocesso Rinascita-Scott per il collaboratore di giustizia Andrea Mantella, principale teste dell’accusa rappresentata dai pm della Direzione distrettuale antimafia di Catanzaro, Annamaria Frustaci e Antonio De Bernardo. Nell’aula bunker dell’area industriale di Lamezia Terme, dinanzi al Tribunale collegiale di Vibo Valentia, il collaboratore ha toccato svariati punti dall’escalation vissuto all’interno del clan Lo Bianco-Barba di Vibo Valentia sino alla formazione di un autonomo clan ed alla ribellione nei confronti dello strapotere nel Vibonese da parte del clan Mancuso di Limbadi. Durante l’esame si è anche parlato dei rapporti fra le cosche ed una fitta rete di “massonerie deviate” le quali intervenivano per “aggiustare” i processi, passando per il ruolo “chiave” che avrebbe avuto l’ex parlamentare di Forza Italia e avvocato Giancarlo Pittelli per poi arrivare al ruolo della “cupola” di ‘Ndrangheta nel territorio vibonese.

Gli “aggiusta processi”
La rete massonica deviata, secondo le dichiarazioni del pentito Andrea Mantella, interveniva nel momento in cui c’era la necessita di dare un’aggiustata ad un processo, garantendo attraverso un sistema di conoscenze una riduzione incisiva della pena, se non addirittura la scarcerazione.
Come in occasione dell’omicidio di Ferdinando Manco, avvenuto nel 1992: “La perizia balistica sulla salma mi inchiodava all’omicidio. Rischiavamo l’ergastolo” (lui e Francesco Scrugli altro autore dell’omicidio n.d.r) ha detto Mantella, ma a questo punto il cognato Antonino Franzé e il boss Carmelo Lo Bianco si attivarono assieme al commendatore Carmelo Fuscà, figura per “aggiustare” l’iter processuale con il giudice Michele Amatruda “vicino ai Giampà”: al quale dissero: “Vediamo come fare in modo che non gli si diano più di 16 anni”. Ed infatti il 17 aprile 1993 Mantella si costituì “in quanto la situazione processuale si era messa a posto” e gli venne inoltre riferito che “non avremmo preso più di 16 anni e infatti ne prendemmo 14 (poi divenuti 12 n.d.r) anche perché l’alternativa sarebbe stata la condanna del solo Scrugli a 24″.
Ad ogni modo, secondo il pentito, la rete di ‘salvataggio’ del boss prevedeva altri passaggi.
Successivamente alla riduzione della pena carceraria, il boss Mantella rimase in carcere per “otto nove anni” poi venne fatto uscire “grazie a Saverio Razionale che mi consigliò di nominare quale avvocato, Giancarlo Pittelli che sarebbe intervenuto sull’allora presidente del Tribunale di Sorveglianza di Catanzaro, Pulicicchio”.
E la cosa funzionò. Infatti il boss di Vibo venne “trasferito a Cosenza” dove si ritrovò insieme aFrancesco Barbieri e Peppone Accorinti e poi successivamente a Roma”.
Una volta uscito dal carcere, Mantella, non vi fece più ritorno, “grazie”, ha dichiarato, a Paolino Lo Bianco, figlio di Carmine “Piccinni”, capo dell’omonima cosca. “Nel 2001, ricevetti il permesso premio che mi consentì di fingere una caduta da cavallo per non tornare più in galera; e infatti mi trasferirono all’ospedale di Vibo, che all’epoca sembrava una cantina sociale. Non rientrai più in carcere anche perché giunse la semilibertà”, inoltre, ha spiegato il pentito, che in un’occasione “mi sono inventato la depressione” allo scopo di “essere trasferito nella clinica Villa Verde” e che, parlando ancora della sua scarcerazione, “sborsai 70mila euro per essere scarcerato da un illustrissimo avvocato di Catanzaro” ed una volta in clinica “comunicavo dall’interno all’esterno”. Ad un primario membro della massoneria, il Mantella faceva addirittura “regali costosissimi” e lui “faceva licenziare i medici che non erano di mio gradimento”.


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L’ex parlamentare di Forza Italia e avvocato, Giancarlo Pittelli © Imagoeconomica


L’avvocato Pittelli
Il pentito durante il suo flusso di coscienza ha raccontato inoltre che l’avvocato catanzarese Pittelli – indagato per concorso esterno e attualmente agli arresti domiciliari – era per le cosche un “tramite con la Cassazione” oltre ad essere un “massone clandestino di una loggia para mafiosa con entrature importanti a livello internazionale”.
Con lui, racconta l’ex boss “avevamo entrature massoniche tramite alcuni avvocati” i quali allacciavano i contatti con i giudici che potevano essere corrotti, specificando che potevano contare su una “chiave” per arrivare addirittura ad un ex presidente della Suprema Corte.
Ma oltre a questi episodi, secondo il pentito, l’avvocato Pittelli avrebbe giocato anche un ruolo decisivo nel salvataggio processuale di Luigi Mancuso “uomo intelligente e figura da tutelare” ha detto Mantella, a scapito di Giuseppe Mancuso detto Mbrogghia, ritenuto una testa troppo calda, “dove c’era sangue c’era lui. Peppe doveva stare in carcere. Luigi Mancuso era diverso da questi vaccari”.
Mbrogghia – ha spiegato Mantella – si sentiva giocato in Cassazione e così ha picchiato Pittelli proprio perché secondo lui nella difesa processuale aveva favorito Luigi a suo discapito”.

La ‘Cupola’ e la faida con i Mancuso
Andrea Mantella fu un killer cresciuto all’ombra delle famiglie del boss Carmelo Lo Bianco e dei Barba, per conto delle quali commise cinque omicidi, di cui tre da minorenne, (quelli di Francesco Calippo, Rosario Tavella e Michele Neri) e due da maggiorenne (Filippo Gancitano e Mario Franzoni).
Filippo Gancitano era suo cugino e Mantella ha cercato di salvarlo dalla sentenza di morte emessa dai vertici del clan Lo Bianco per la sua presunta omosessualità “facevo fatica a pensare che fosse frocio – ha detto Mantella – ma era a conoscenza di omicidi ed estorsioni e temevamo che si pentisse perché avrebbe potuto sentirsi discriminato”.
“Io criminale ci nacqui” ha detto il pentito, raccontando anche la sua escalation criminale, la quale iniziò a 12-13 anni, quando, per mettersi in mostra agli occhi della cosca Lo Bianco-Barba, telefonò ad un imprenditore dicendogli “o mi dai 30 milioni o ti faccio saltare in aria”. Gesto che colpì il capo-cosca Carmelo Lo Bianco, alias “Piccinni”.
A quel tempo il clan dei Lo Bianco era in faida con il clan Fiarè – Razionale – Gasparro di San Gregorio d’Ippona (quest’ultimi usciti vincitori) e anche se troppo giovane per prender parte allo scontro che insanguinò il territorio a cavallo del capoluogo Calabrese e San Gregorio, lo visse comunque da vicino per via dell’uccisione dello zio Domenico Lo Bianco detto “Micu u Baccu” per mano dei sangregoresi che patirono poi la perdita di Giuseppe Gasparro, cognato di Saverio Razionale, al quale seguì quella di Francesco Fortuna, alias “Ciccio pomodoro”, nell’88. A quel punto i Lo Bianco dopo aver subito molte perdite divennero satelliti del clan Mancuso, tant’è “che il boss Carmelo ‘Piccinni’ pur di non essere ucciso si alleò con i rivali, l’ala di Peppe Mancuso, diventando il protetto di Antonio.
Da questo episodio prese forma la cosiddetta “Caddara” ossia, ha spiegato il pentito, una sorta di “pentolone in cui tutti ci vanno a finire, senza possibilità di scappare” formata da Saverio Razionale, Rosario Fiarè, Giuseppe Mancuso, Giuseppe Accorinti, Raffaele Fiammingo, Carmine Galati, Antonio e Michele Vinci, “siamo noi i dominatori della Calabria” ha detto il pentito “è inutile che chiunque provi a ribellarsi, fare i capetti”.
Ma a cavallo del 2003-2004 Andrea Mantella, quando ebbe a disposizione una consistente forza militare, attuò una secessione dai Lo Bianco e dal clan Mancuso perché a suo dire, “non accettava più di essere un cane al guinzaglio dei Mancuso” quindi si alleò con “i Bonavota in questo progetto” i quali mi fanno conoscere Damiano Vallelunga detto “il papa della ‘Ndrangheta” e “abbiamo parlato che ognuno era giusto che si doveva prendere il suo spazio”. Ognuno comandava “nel proprio paese” e nel “proprio territorio”. Insomma riprendendosi con una guerra le aree sotto l’influenza dei Mancuso. “Organizzammo anche un attentato contro Pantaleone Mancuso”, alias “Scarpuni” ma il piano fallì.

fonte: antimafiaduemila.com