Rinascita-Scott, Emanuele Mancuso racconta la forza del clan

Aaron Pettinari 01 Aprile 2021

Sei ore. Tanto è durata la prima giornata di deposizione del collaboratore di giustizia Emanuele Mancuso, ex rampollo della cosca e figlio di Pantaleone Mancuso, detto l’Ingegnere, il nipote del “Supremo” Luigi Mancuso, sentito ieri nel processo “Rinascita-Scott”.
Del resto erano molteplici gli argomenti che dovevano essere affrontati, anche perché la storia della sua collaborazione ha avuto non poche ripercussioni a livello personale.
In particolare, in questa prima udienza, il pentito si è focalizzato sulla figura dello zio Luigi, il capo della famiglia che “stava facendo in modo, una volta uscito dal carcere, nel 2012, di riunirla, sanando i contrasti interni” tanto che “ci sono stati dei pranzi a Limbadi in un’abitazione posta sopra il negozio di abiti da sposa di Silvana Mancuso dove, dopo tanti anni di disaccordi fra Giovanni Mancuso e mio padre Pantaleone Mancuso, erano entrambi presenti con le rispettive famiglie e c’era pure Luigi Mancuso con moglie e figlie”.
Rispondendo alle domande del pm Annamaria Frustaci ha spiegato come la scelta di collaborare, giunta nel giugno 2018, sia giunta “perché ho inteso cambiare vita e dare un futuro diverso a mia figlia. La scelta di collaborare è stata determinata anche da vicende attribuibili a mio zio Luigi Mancuso“.
Lo zio, ha raccontato, aveva un “carisma come pochi”, capace di curare i rapporti con le cosche dell’area reggina e capace di mantenere la pace tra tutte le famiglie.
Luigi Mancuso aveva rapporti con i Pesce e in una campagna doveva incontrare Marcello Pesce, all’epoca latitante e che venne arrestato tre giorni dopo. In quel terreno dove si dovevano incontrare – ha spiegato il collaboratore –, Pantaleone e Francesco Perfidio erano soliti nascondere i soldi del narcotraffico sotto terra. Trovammo delle telecamere sul sentiero che puntavano la campagna di Assunto Megna ed io stesso ho smontato tutto trovando anche un trasmettitore e un’antenna radio. Mi dissero che li avevo salvati”. I Pesce sarebbero stati di casa a Nicotera, secondo Emanuele Mancuso, avendo anche diversi immobili in lidi di Nicotera, mentre Francesco Pesce (alias “Ciccio Testuni”, figlio di Antonino Pesce) sarebbe stato alleato con un ramo dei Mancuso (gli ‘Mbrogghja).
Un’altra occasione ha riguardato una vicenda che interessava i Ferrentino di Laureana di Borrello (Domenico Piccolo di Nicotera aveva un debito con soggetti di Laureana per la cessione di sostanze stupefacenti e una volta si è messo a sparare contro uno dei Ferrentino, venuto a riscuotere. Solo l’intervento di Luigi Mancuso è riuscito a far calmare la situazione”) oppure quella rispetto alla tentata estorsione da parte dei Soriano ai danni dell’imprenditore Antonino Castagna. In carcere fu contattato da Giuseppe Soriano il quale, a suo dire, lo informò  che lo zio Leone Soriano voleva compiere degli attentati a Castagna. “Mi reco così da Leone Soriano il quale mi dice che Pantaleone Mancuso, detto Vetrinetta, ed Antonio Mancuso cl. ’38 l’avevano fatto arrestare dando il placet affinché l’imprenditore Castagna lo denunciasse. Io dissi a Leone Soriano che con mio zio Luigi Mancuso si poteva invece ragionare ed aggiustare la vicenda. Presi così un fascicolo processuale – ha dichiarato il collaboratore – che mi diede Leone Soriano con le dichiarazioni di Castagna e mi recai a casa di Luigi Mancuso il quale mi confermò che i suoi fratelli Antonio Mancuso e Pantaleone Mancuso, Vetrinetta, avevano dato il placet a Castagna di denunciare Leone Soriano poiché quest’ultimo aveva mandato dal carcere allo stesso imprenditore delle lettere in cui accusava i Mancuso. In ogni caso Luigi Mancuso mi disse che avrebbe dato diecimila euro a Leone Soriano per tenerlo buono. Il mio interesse – ha aggiunto Emanuele Mancuso – era quello di non guastare i rapporti con Giuseppe Soriano con il quale trafficavo droga. Mi recai così nuovamente da Leone Soriano informandolo che Luigi Mancuso gli aveva riconosciuto una quota di soldi per la vicenda di Castagna. Leone Soriano alzò però il tiro delle pretese chiedendo una mazzetta all’imprenditore Romano Pasqua e qui Luigi Mancuso fu categorico: Pasqua non andava toccato. Mio zio Luigi, quando tornai per riferirgli l’intenzione di Leone Soriano, mi spiegò che al limite avrebbero costretto Pasqua a licenziare qualche operaio per poi assumere qualcuno vicino ai Soriano, ma Pasqua doveva essere lasciato in pace”.

fonte: antimafiaduemila