Matteo Messina Denaro, il boss di Cosa nostra protetto dallo Stato-Mafia

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Mafia e poteri occulti – Prima parte

Di Giorgio Bongiovanni

Nei giorni scorsi, su Nove, è andato in onda la videoinchiesta “Matteo Messina Denaro – Il Superlatitante”, prodotta da Videa Next Station per Discovery Italia, sviluppata da Giovanni Tizian e Nello Trocchia in collaborazione con il quotidiano “Domani”.
Uno speciale che suona non solo come un’occasione persa, ma a tratti appare anche fuorviante sul ruolo che ancora oggi riveste il boss trapanese, ultimo stragista rimasto latitante.
E lo diciamo senza nulla togliere all’impegno dei cronisti che hanno raccontato la storia.
Perché se da una parte è sicuramente apprezzabile la scelta di aver dato voce ai familiari vittime delle stragi dei Georgofili e di via Palestro, accanto alle intercettazioni più recenti dei suoi sodali che parlano della sua figura, o le dichiarazioni di alcuni collaboratori di giustizia, dall’altra ci sono le scelte discutibili di intervistare personaggi ambigui.
Molto si è parlato del primo Matteo Messina Denaro, del giovane “killer” e “latin lover” che ama la bella vita, nonostante la latitanza. Solo qualche accenno sulle grandi connessioni con il sistema politico, imprenditoriale e massonico che, probabilmente, garantiscono la sua latitanza. Nulla su quei mandanti esterni delle stragi che hanno accompagnato Cosa nostra in quella strategia di attacco allo Stato. Per questo il prodotto finale, a nostro parere, è rimasto mediocre.
E così facendo il rischio che l’opinione pubblica abbia un’idea incompleta sul latitante più famoso del mondo è altissimo.
Ma è soprattutto nel dossier giornalistico “Dopodomani”, pubblicato dal quotidiano, che siamo rimasti sconcertati. Perché è qui che abbiamo ravvisato grossolani errori, nella migliore delle ipotesi per disattenzione, nella peggiore per volontà “devianti” e “manipolatrici” sul ruolo che lo stesso Messina Denaro ha ancora oggi nel panorama del Sistema criminale.


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Nino Di Matteo © Imagoeconomica


E ciò avviene per bocca di Giacomo Di Girolamo, autore del libro “L’Invisibile – Matteo Messina Denaro”. Come? Nel momento in cui sminuisce in maniera grave l’intera storia del progetto di attentato nei confronti del magistrato Nino Di Matteo, lasciando intendere che si tratti di una bufala generata da collaboratori di giustizia che avrebbero millantato conoscenze e fatti. E lo fa in barba a quei riscontri trovati dagli stessi pm nisseni e alla convergenza nei racconti di collaboratori di giustizia ritenuti attendibili dalle procure. L’inchiesta sull’attentato a Di Matteo è stata archiviata, come è scritto anche sul dossier, ma tacere quelle conclusioni dei pm in cui si mette in evidenza come la condanna a morte non sia stata mai revocata è un’omissione pesante. Un’inchiesta sempre pronta ad essere riaperta in quanto si continua a cercare il tritolo arrivato a Palermo per colpire il magistrato antimafia. Questione di ignoranza? Di pregiudizio? Di superficialità? Comunque è grave.
Perché così facendo si fa esattamente il gioco di chi vuole isolare, delegittimare e uccidere quei magistrati scomodi al potere e che da anni cercano la verità su stragi e delitti. Quel gioco che piace anche a Matteo Messina Denaro che resta latitante.
Del boss di Castelvetrano (figura ben più importante di un fuggitivo che “si fa solo gli affari propri”); delle protezioni su cui può contare grazie allo Stato-mafia; dell’attentato a Di Matteo e quei contorni inquietanti che riguardano il capomafia trapanese ed i suoi “amici romani” parliamo di seguito in maniera approfondita. Perché la mafia può anche aver cambiato “politica”, puntando sulla sommersione, ma non è stata ancora vinta e la strategia stragista non è affatto un lontano ricordo.


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La strage di Capaci © Shobha


Tanti soprannomi, un solo volto
Diabolik, U siccu, Alessio, Luciano, “La testa dell’acqua”, Iddu, “U Diu”, il Premier, “il noto”. Tanti soprannomi per indicare un solo nome: Matteo Messina Denaro.
Il boss di Castelvetrano è latitante dal 1993 ed i ventotto anni di fughe non gli hanno impedito di compiere omicidi, stragi, crimini efferati, né di gestire affari milionari nei settori più svariati.
Su di lui sono stati scritti libri, articoli e sono state fatte trasmissioni televisive.
Certo è che il suo è un “curriculum” di primissimo piano nell’organizzazione criminale siciliana.
Prima accanto al padre, don “Ciccio”, Francesco Messina Denaro. Poi, alla morte di quest’ultimo, si fece largo tra i “corleonesi”, “adottato” da Riina in persona, fino a diventare protagonista dello stragismo della criminalità organizzata siciliana.
Autore, secondo gli investigatori, di almeno una settantina di omicidi come mandante ed esecutore, nei primi mesi del 1992, assieme ad altri boss di Brancaccio, il giovane “Diabolik” fece parte del gruppo che doveva uccidere a Roma Giovanni Falcone, a colpi di kalashnikov, fucili e revolver. Salvatore Riina, forse “preso per la manina” da qualcuno come ha poi raccontato il pentito Salvatore Cancemi, cambiò idea all’improvviso, optando per un altro luogo ed una modalità decisamente più eclatante.
E così fu “l’Attentatuni” lungo l’autostrada, all’altezza di Capaci, in cui morirono Giovanni Falcone, Francesca Morvillo, Vito Schifani, Antonio Montinaro e Rocco Dicillo.
Anche di quell’attentato, così come per la strage di via d’Amelio, è stato ritenuto responsabile, in qualità di mandante, nel processo di primo grado tenuto davanti alla Corte d’Assise di Caltanissetta che lo ha condannato all’ergastolo.
Una sentenza che di fatto conferma come vi sia stato un collegamento tra le bombe del 1992 pretese da Totò Riina e gli attentati nel nord Italia.
L’opera sanguinaria di Messina Denaro si estende anche ad altri fatti.
Sempre in quella calda estate del 1992, poco prima dell’attentato in cui morirono Paolo Borsellino e gli agenti di scorta (Agostino Catalano, Vincenzo Li Muli, Walter Eddie Cosina, Emanuela Loi e Claudio Traina), partecipò come esecutore materiali ad uno dei delitti più crudeli di Cosa nostra: il duplice omicidio dei fidanzati Vincenzo Milazzo (capo della cosca di Alcamo che aveva cominciato a mostrarsi insofferente all’autorità di Riina) ed Antonella Bonomo (incinta di tre mesi, ritenuta testimone scomoda degli affari di Cosa nostra).


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Leoluca Bagarella © Letizia Battaglia



Nel 1993, a soli 31 anni, fu favorevole alla continuazione della strategia degli attentati dinamitardi insieme ai boss Leoluca Bagarella, Giovanni Brusca e i fratelli Filippo e Giuseppe Graviano. E’ l’anno delle stragi di Firenze, Milano e Roma che provocarono in tutto dieci morti (tra cui Nadia e Caterina Nencioni, rispettivamente di 9 anni e di 50 giorni) e 106 feriti a cui sono da aggiungersi i danni al patrimonio artistico. Stragi per cui è stato condannato all’ergastolo con sentenza definitiva nel 2002.
Basterebbe già questo per far comprendere il peso di Matteo Messina Denaro. Ma vi è molto di più.

Scalata Cosa nostra
Continuando a scorrere l’elenco di fatti e misfatti è noto che nel novembre 1993 Messina Denaro fu tra gli organizzatori del sequestro del piccolo Giuseppe Di Matteo, appena 12enne, per costringere il padre Santino a ritrattare le sue rivelazioni sulla strage di Capaci. Dopo 779 giorni di prigionia, il piccolo Di Matteo venne brutalmente strangolato e il cadavere sciolto nell’acido. Un altro omicidio efferato per una nuova condanna all’ergastolo, stavolta in appello.
Nonostante la sua longeva latitanza, come dimostrato da decine di indagini e testimonianze, non ha mai perso il controllo nella gestione del mandamento di Trapani e, in seguito agli arresti di storici boss come Bernardo Provenzano (2006) e Salvatore Lo Piccolo (2007) è divenuto indubbiamente il vero punto di riferimento per Cosa nostra.
Proprio nella Provincia di Trapani, secondo le relazioni della Dia più recenti, Messina Denaro regna incontrastato senza, in apparenza, inserirsi nelle scelte criminali a livello interprovinciale e regionale.
Se nel recente tentativo di ricostruzione della Cupola a Palermo non era stato interpellato, così non era stato nel 2008 (operazione Perseo) quando dispensò in maniera chiara consigli anche condizionando le scelte dell’organizzazione nel Capoluogo.
Consigli che non vengono disdegnati neanche oggi, almeno stando a quanto emerso nelle carte dell’operazione antimafia ‘Xydi’. Nell’inchiesta della Procura di Palermo compare anche il nome del boss trapanese.




Francesco Messina Denaro, a sinistra, e il figlio Matteo


Procura di Palermo compare anche il nome del boss trapanese

In un’intercettazione il boss Giancarlo Buggea, uomo d’onore della famiglia di Canicattì, parlava della primula rossa mentre legge un pizzino scritto a mano: “Messina Denaro. Iddu, la mamma del nipote che è di qua, è mia commare, hanno sequestrato tutti i telegrammi mandati dalla posta di Canicattì, per vedere, per capire”. Il “nipote” di cui si parla è Girolamo Bellomo, marito di Lorenza Guttadauro, figlia della sorella del superlatitante.
La Dda di Palermo indica in Buggea l’uomo “in condizione di intrattenere rapporti direttamente con Matteo Messina Denaro, essendo a conoscenza della segretissima rete di comunicazione e protezione utilizzata dal capo di Cosa Nostra latitante”.
In un altro incontro Buggea parlava sempre del boss di Castelvetrano. “Quelli di Trapani lo sanno dov’è?”, gli domandava l’affiliato. “Lo sanno…”, rispondeva il boss. “Con Matteo glielo dovremmo dire, ci volevano altri due che ci andavano”, diceva ancora l’interlocutore. Secondo gli inquirenti si faceva riferimento ad un affare sul quale Messina Denaro deve dare il proprio assenso.
La prova che il superlatitante viene riconosciuto come un importante riferimento, non solo a Trapani, dove regna incontrastato. Ma anche fuori.
Certo è che da qualche anno a questa parte il cerchio attorno al boss trapanese si è fatto sempre più stretto.

Ricchezze infinite
Nonostante i numerosi arresti di fedelissimi, familiari e continui sequestri di beni (secondo le stime ad oggi sarebbero stati sequestrati beni per oltre 3,5 miliardi di euro, ndr), il boss trapanese continua ad essere libero e ad intrecciare importanti rapporti con soggetti di altissimo livello nell’ambito politico ed imprenditoriale e ad accumulare infinite ricchezze.
Un esempio sarebbe dato dai rapporti che la sua famiglia avrebbe avuto con l’ex senatore di Forza Italia Antonino D’Alì, ex sottosegretario agli Interni dal 2001 al 2006, finito sotto processo per concorso esterno in associazione mafiosa.
Attualmente è in corso a Palermo il processo in appello dopo che la Cassazione ha annullato con rinvio il precedente giudizio di assoluzione (e dichiarato prescritti i fatti precedenti al 1994).
Sul piano economico sono noti gli affari del boss di Castelvetrano con Giuseppe Grigoli, re dei supermarket, prestanome e riciclatore di denaro delle cosche trapanesi. E in questi anni è emerso il suo forte interesse nel settore turistico e delle energie alternative. Le inchieste hanno portato al sequestro di beni ad imprenditori ritenuti prestanome del boss: Carmelo Patti, patron della Valtur, e l’imprenditore dell’eolico, Vito Nicastri. Quest’ultimo è stato condannato lo scorso ottobre dal Gup di Palermo a 9 anni di reclusione, in abbreviato, per il reato di concorso esterno in associazione mafiosa.


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Antonino D’Alì © Imagoeconomica


Ma indagini più recenti come “Eden 3”, che portò a novembre dello scorso anno a tre arresti e a 19 indagati per un traffico di droga tra Campobello di Mazara e Milano, hanno svelato l’esistenza di legami ed interessi anche nel campo del traffico di droga.
Tra le figure coinvolte nell’indagine ci sono Giacomo Tamburello, Nicolò Mistretta e l’ex avvocato Antonio Messina, considerati i “vertici del sodalizio” vicino a Messina Denaro.
Altro dato interessante, che emergeva nell’inchiesta, è il contatto che alcuni personaggi siciliani hanno avuto con figure come Giuseppe Calabrò, legato alle cosche di San Luca, Vincenzo Stefanelli (indagato), già coinvolto nel sequestro di Tullia Kauten (1981), legato alle ‘ndrine liguri e a Calabrò, e Giovanni Morabito, secondo gli inquirenti legato “all’articolazione milanese della ’ndrina Morabito” di Africo.
Un asse, quello tra Cosa nostra e ‘Ndrangheta, che si conferma nel racconto di numerosi collaboratori di giustizia, non solo nel traffico di stupefacenti.
Negli anni Novanta lo stesso Riina trascorse proprio in Calabria un periodo di vacanza.
Un esempio concreto delle sinergie fra Cosa Nostra e ‘Ndrangheta è costituito sicuramente dall’omicidio del giudice Scopelliti, ammazzato il 9 agosto del 1991 a Villa San Giovanni mentre faceva rientro a Campo Calabro. La Procura di Reggio Calabria ha riaperto il fascicolo d’inchiesta scrivendo nel registro degli indagati 17 persone, tra boss e affiliati a cosche siciliane e calabresi: tra i nomi figura anche Matteo Messina Denaro ricercato dal 1993.
Il procuratore aggiunto di Reggio Calabria Giuseppe Lombardo da tempo sta indagando sulla partecipazione della criminalità organizzata calabrese in stragi ed omicidi eccellenti tanto che davanti alla Corte d’assise di Reggio Calabria si è celebrato un processo, denominato ‘Ndrangheta stragista, che ha visto lo scorso luglio le condanne all’ergastolo di Giuseppe Graviano e Rocco Santo Filippone, accusati di essere i mandanti di una serie di attentati contro i carabinieri, in cui morirono anche i militari Fava e Garofalo, avvenuti tra il 1993 ed il 1994.
Ma l’asse Sicilia-Calabria emerge anche nella storia recente nelle dichiarazioni di un collaboratore di giustizia come Vito Galatolo il quale riferì che Cosa nostra acquistò proprio dai calabresi il tritolo per eliminare un altro magistrato: Nino Di Matteo.


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Giuseppe Lombardo © Imagoeconomica


La lettera di Messina Denaro e l’attentato contro Di Matteo
Che ne dica il Di Girolamo di turno non si tratta solo di dicerie di qualche collaboratore di giustizia. Ma vi sono anche intercettazioni telefoniche come quelle in cui Galatolo viene registrato a colloqui con la moglie. Alla donna confida di essere stato pesantemente coinvolto nella preparazione di un attentato a un magistrato. E lo fa riferendosi, fra l’altro, alla festa dell’Immacolata dell’8 dicembre 2012, quando si era dovuto allontanare da casa per partecipare urgentemente a una delle riunioni operative. Ciò avviene prima della sua collaborazione con la giustizia.
Di questo progetto stragista ci siamo occupati più volte in questi anni. Una vicenda tornata alla ribalta dopo le recenti dichiarazioni del collaboratore di giustizia Alfredo Geraci, ex mafioso di Porta nuova e uomo riservato vicino al boss Alessandro D’Ambrogio di fatto confermando alcuni dettagli già forniti da Galatolo.
Entrambi parlano proprio di quel dicembre 2012 quando i boss di Palermo Alessandro D’Ambrogio (capomafia di Porta Nuova), Girolamo Biondino (capo a San Lorenzo), Vincenzo Graziano e Vito Galatolo (Acquasanta) si incontrarono segretamente dopo una riunione con altri capimafia. Un incontro per parlare di un tema preciso: l’attentato da organizzare contro il magistrato di Palermo.
Una richiesta che portava una firma di peso: quella del boss Matteo Messina Denaro.
Entrambi i pentiti hanno confermato che il boss trapanese avrebbe inviato delle missive in cui spiegava che Di Matteo andava fermato in quanto “si è spinto troppo oltre”.
Di questi elementi Vito Galatolo, da quando nel 2014 ha deciso di “togliersi un peso dalla coscienza” diventato collaboratore di giustizia, ha parlato in svariati processi.
“La prima lettera me la porta Biondino (Girolamo, capomandamento di San Lorenzo e fratello del più noto Salvatore, autista storico di Totò Riina e depositario dei segreti del boss corleonese) e c’era anche Graziano e iniziava così: ‘caro fratello, spero che tu stia bene’ha raccontato il pentito durante il processo sulla trattativa Stato-MafiaMessina Denaro voleva indicarmi come capomandamento di Resuttana e Biondino per quello di San Lorenzo. Lì si accenna all’attentato, chiedendo la disponibilità dei mandamenti ad eseguirlo, ma non si spiegano i motivi. La prima lettera scritta in corsivo e la seconda lettera in stampatello. Nella seconda invece si spiegano i motivi dell’attentato, poi la strappammo subito. Dell’attentato, mi disse Biondino, non dovevamo parlare a nessuno perché ci avrebbero ammazzato pure i bambini”.




Gaspare Spatuzza


Dell’attentato a Di Matteo si parlò poi anche nella seconda lettera. “Qui si spiegò il motivo e c’era il riferimento ai processi. Si doveva dare un segnale che la mafia era sempre pronta a reagire allo Stato – ha detto Galatolo – anche qui si parlava in maniera affettuosa. Oltre all’attentato a Di Matteo si parlava di eliminare anche i due pentiti, “Manuzza”, Nino Giuffré, e Gaspare Spatuzza. Se accettavamo di fare l’attentato avremmo dovuto dire tutto a Mimmo (Biondino) che lui sapeva come organizzare. Biondino nello specifico si doveva occupare dell’esplosivo. C’erano da raccogliere dei soldi anche. Ed ogni mandamento doveva mettere due persone”.
A detta di Galatolo a chiedere a Messina Denaro di uccidere il magistrato sarebbero stati dei mandanti esterni, “gli stessi di Borsellino”.
Quel progetto di morte, forse anche grazie alle parole dell’ex boss dell’Acquasanta non è stato ancora eseguito ma, come hanno scritto i magistrati nisseni nella richiesta di archiviazione delle indagini, si tratta di un progetto di attentato “ancora in corso”.
Resta da capire perché una figura come Matteo Messina Denaro, attuale vertice di Cosa nostra, nel pieno della sua latitanza possa decidere di ritornare a quella strategia stragista chiedendo ai palermitani di adoperarsi.
Una decisione inquietante e terribile che evoca anche la stagione dei delitti eccellenti, accantonata proprio dopo l’attacco allo Stato dei primi anni Novanta.


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Salvatore “Totò” Riina © Fotogramma


Benestare Riina
Una decisione che, appena un anno dopo quelle missive, fu in qualche maniera avallata dal Capo dei capi, Totò Riina, che dal carcere “Opera” di Milano lanciava i suoi strali contro il magistrato. E’ così che si realizza quella che può essere definita “convergenza di due prove autonome”.
Da una parte le dichiarazioni di alcuni protagonisti di quelle riunioni in cui si parlava del progetto di attentato. Dall’altra la voce di Riina dal carcere.
Il boss corleonese auspicava che quel progetto di attentato fosse eseguito il prima possibile. “Io dissi che lo faccio finire peggio del giudice Falcone” diceva il boss corleonese il 16 novembre 2013 al boss pugliese Alberto Lorusso, durante l’ora d’aria.
“E allora organizziamola questa cosa. Facciamola grossa e non ne parliamo più – continuava ancora ‘U curtuPerché questo Di Matteo non se ne va, ci hanno chiesto di rinforzare, gli hanno rinforzato la scorta. E allora se fosse possibile ad ucciderlo, un’esecuzione come eravamo a quel tempo a Palermo”.
Quelle conversazioni, cruente e drammatiche, venivano registrate dagli inquirenti che da qualche tempo avevano messo sotto intercettazione il capomafia. Durante il passeggio Riina parlava liberamente anche degli attentati del passato come quello a Rocco Chinnici, nel 1983.
In quei dialoghi di Riina vi erano segni di insofferenza nei riguardi di Messina Denaro. Al contempo, nonostante i dissensi nella gestione quotidiana di Cosa nostra, in quelle registrazioni si evince la perfetta sintonia quando si devono intraprendere strategie importanti come uccidere il magistrato, Di Matteo, che in quel momento stava conducendo con il pool di Palermo (Del Bene, Teresi, Tartaglia, ndr) delle delicatissime indagini e si apprestava ad aprire un processo, quello sulla trattativa Stato-mafia, portando alla sbarra alti vertici delle istituzioni. Una tempistica temporale che non può passare inosservata.

(Continua)

Foto di copertina: rielaborazione grafica by Paolo Bassani

Fonte:Antimafiaduemila