Povertà lavorativa e disuguaglianze nella UE

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di Letizia Lanzi (CSEPI)

Il 10 febbraio il Parlamento Europeo ha adottato la Risoluzione 44/2021 riguardante le disuguaglianze con particolare attenzione alla povertà lavorativa.

Innanzitutto concediamoci una piccola digressione terminologica: “Risoluzione” potrebbe far intendere che il Parlamento Europeo abbia trovato una soluzione ad una questione posta, ma nel linguaggio burocratese dell’UE, questo termine altisonante altro non sta a rappresentare che una serie di inviti, osservazioni, sollecitazioni rivolti agli Stati Membri e alla Commissione Europa su un tema che problematico era e problematico resta.

La propaganda pro europeista ci ha abituati ad un’idea di Europa dei Popoli coesi, fraterni, dove vige la solidarietà tra gli Stati Membri e dove la libera circolazione di persone e beni è la panacea di tutti i mali conosciuti prima dell’unione.

Ora si potrebbe supporre che quanto seguirà possa essere una critica pregiudizievole, dettata da un’estrazione culturale anti-unionista ma, ironia della sorte, quanto si leggerà nel prosieguo è solo una sintetica ripresa del documento stesso del Parlamento Europeo che dipinge, in tutta la sua drammaticità, un quadro disastroso circa le disuguaglianze all’interno dell’UE e il loro accrescimento negli anni, invece della proclamata diminuzione. Il culmine della tragicità poi è dato dall’accento posto sulla povertà lavorativa, ossimoro straziante che defrauda il lavoro dal suo scopo fondamentale, ovvero garantire ai lavoratori, e alle rispettive famiglie, una vita dignitosa, consentendo loro di diventare economicamente indipendenti.

Come si suol dire “la strada per l’inferno è lastricata di buone intenzioni” ed è così che appaiono l’obiettivo di coesione stabilito dall’art. 3 del TUE, i principi 5 e 6 del Pilastro Europeo dei Diritti Sociali, la strategia Europa2020 e non per ultime le numerose Risoluzioni del Parlamento Europeo[1] che, dal 2008 ad oggi, hanno trattato dell’inclusione sociale, della tutela dei lavoratori, del ruolo del reddito minino nella lotta alla povertà, delle condizioni di lavoro in Europa, della prospettiva di genere, tutti concetti ripresi nelle premesse della Risoluzione 44/2021.

E sì, solo che di “buone intenzioni” si può trattare, considerando l’inferno descritto nella stessa Risoluzione. Ma non staremo esagerando? Andiamo dunque al dettaglio del testo emanato dal Parlamento e lasciamo al lettore il giudizio.

1. Aumento delle disuguaglianze e della povertà

L’UE promuove, come uno dei suoi punti di forza, il modello sociale, eppure i dati più recenti di Eurostat, che comunque risalgono al 2018, indicano che quasi il 10% dei lavoratori europei è a rischio povertà[2], dato destinato sicuramente a peggiorare nelle prossime rilevazioni, considerando gli effetti della pandemia, che tra l’altro provocherà l’aumento del divario di reddito tra coloro che guadagnano di più e coloro che guadagnano di meno. Nell’Unione Europea un lavoratore su sei percepisce un salario basso ovvero inferiore a due terzi della mediana nazionale, il che è fattore di accelerazione del fenomeno di esclusione ed ha un impatto particolare non solo sui lavoratori scarsamente qualificati, ma anche sulle persone diplomate che entrano nel mondo del lavoro. In molti Stati Membri i salari bassi sono stati adeguati ancora meno delle altre retribuzioni e ciò ha provocato un aumento delle disuguaglianze ed ha aggravato la povertà lavorativa, rendendo i lavorati a basso reddito incapaci di far fronte alle esigenze economiche proprie e della propria famiglia. Altro aspetto rilevante in tema di differenze e povertà è il divario retributivo di genere, mediamente le donne guadagnano negli Stati Membri il 15% in meno degli uomini[3], differenza che accumulata negli anni ha portato una variazione in ribasso dei redditi da pensione del 37% per le lavoratrici dell’Unione e un rischio povertà ed esclusione sociale del 23%, oltre 2 punti percentuali superiore a quello degli uomini.

Sempre nell’UE i giovani hanno difficoltà ad essere occupati in modo stabile e con contratti a tempo indeterminato, vivono situazioni di disoccupazione a lungo termine e alcuni Stati Membri consentono ai datori di lavoro di corrispondere retribuzioni più basse; spesso, inoltre, vengono impiegati in tirocini non retribuiti e senza prospettive di lavoro.

I dati Eurostat mostrano 95 milioni di persone a rischio povertà e altri 85 milioni già colpiti dalla povertà e dall’esclusione sociale dopo i trasferimenti sociali: ebbene, stiamo sempre parlando della terza maggiore area economica al mondo, l’Unione Europea appunto, dove una persona su cinque deve lottare per la sopravvivenza economica.

I cittadini dell’UE, su cui grava tale enorme disagio sociale legato all’occupazione, sono soggetti a condizioni lavorative inaccettabili come, ad esempio, quelle legate all’assenza di un contratto collettivo o alle violazioni dell’orario di lavoro[4], ai rischi professionali per la salute e la sicurezza, Conseguenza inevitabile di tutto ciò è la precarietà delle condizioni di vita, con ripercussioni economiche e sociali tra cui livelli inferiori di benessere mentale soggettivo, problemi relativi all’alloggio e al proprio ambiente di vita, relazioni carenti e sentimenti di esclusione sociale[5].

Circa il 10% della popolazione della UE, dati 2019, vive in condizioni di deprivazione materiale, cioè in uno stato di pressione economica definito come l’incapacità forzata di pagare spese impreviste, permettersi una vacanza annuale di una settimana, potersi nutrire con un pasto a base di carne o pesce ogni due giorni, avere un riscaldamento adeguato dell’abitazione e possedere beni durevoli come una lavatrice o un televisore a colori. La quota di popolazione soggetta a questo stato è inevitabilmente destinata a salire a causa della pandemia.

Nel 2019 le persone senzatetto erano circa 700 mila[6], con un aumento del 70%  rispetto ai dieci anni precedenti[7].

2. Riduzione della copertura della contrattazione collettiva e aumento del lavoro atipico e precario

In almeno quattordici Stati Membri dell’UE il 50% dei dipendenti non è soggetto a contratto collettivo e solo in sette il tasso di copertura supera l’80% (in Italia è appunto l’80%)[8]. Ancora più preoccupante è la diminuzione della copertura della contrattazione collettiva nei paesi OCSE che, negli ultimi tre decenni è passata dal 46% al 32%, con un declino più rapido nei paesi oggetto di riforme strutturali che hanno preso di mira la contrattazione collettiva[9].
In Europa (sì, proprio “nell’emancipata” Europa!) tra il 2018 e il 2019 si è registrato l’aumento maggiore di paesi in cui ai lavoratori è stato impedito il diritto di aderire o istituire un sindacato, nella misura del 40%; nel 68% è stato violato il diritto di sciopero, mentre nel 50% è stato violato il diritto alla contrattazione collettiva[10].

Nell’UE i sistemi di retribuzione minima, qualora esistenti, variano notevolmente tra i vari Stati Membri sia in termini di portata che di copertura[11] e solo in tre paesi il salario minimo è sempre superiore alla soglia di povertà definita (60% del salario lordo mediano).

La crisi finanziaria del 2008 ha provocato anche nell’UE una contrazione dell’occupazione che ha avuto come conseguenza un aumento drastico e significativo del numero di persone impiegate nel lavoro atipico, lavori a breve termine e lavoro parziale involontario[12]. Questa condizione è spesso associata ad occupazione in settori di livello inferiore con maggiore esposizione al rischio di povertà lavorativa. Secondo le pubblicazioni Eurofound solo il 59% dei rapporti di lavoro totali nell’UE sono coperti da contratti standard a tempo pieno ed indeterminato, mentre il lavoro atipico, sempre più precario, è in continuo aumento[13].

Quanto sopra riportato, che ricordiamo è tratto dalla Risoluzione oggetto del presente articolo, descrive una realtà sociale preoccupante e profondamente distante sia dalla narrazione tutta rose e fiori alla quale siamo stati soggetti ed abituati per anni, sia dalle promesse di prosperità millantate nel progetto europeista.
Purtroppo la pandemia da Covid-19 sta già provocando un peggioramento delle condizioni di vita dei cittadini europei, non solo per motivi sanitari. Il 75% ritiene che la propria situazione finanziaria attuale sia peggiore di quanto non fosse prima della pandemia, il 68% afferma di essere in difficoltà ad arrivare a fine mese e il 16% ritiene che probabilmente perderà il lavoro nel prossimo futuro[14].

La crisi economica che è scaturita da questa emergenza sanitaria avrà ripercussioni gravi e durevoli sul mercato del lavoro, in particolare per i giovani e i lavoratori vulnerabili, che saranno costretti ad accettare lavori precari e atipici, cosa che peggiorerà notevolmente le condizioni di lavoro, aumenterà le disuguaglianze esistenti e aggraverà la povertà lavorativa.

Venendo al dunque, pertanto, di fronte ad uno scenario così drammatico tutto quello che può fare l’Assemblea degli eletti è una lista, sicuramente corposa e ben dettagliata (ben 111 punti), di buoni propositi e consigli, rivolti a chi, Commissione Europea in primis, avrebbe le possibilità di cambiare lo stato di fatto, ma non ne ha né l’obbligo, né la volontà, a dispetto degli orientamenti politici di Ursula von der Leyen citati nell’incipit della Risoluzione.

L’amara conclusione è che questo documento, come molti altri che lo hanno preceduto e che lo seguiranno, è la lapalissiana manifestazione di quanto sia inconcludente – se vogliamo anche inutile – l’azione parlamentare europea rispetto alle esigenze reali e concrete dei propri elettori; mettendo in luce altresì quanto sia utopistico un cambio di passo “dall’interno” di questa Unione, che considera i propri cittadini più valevoli per delle statistiche che non meritevoli di vere e proprie (Ri)soluzioni.

Letizia Lanzi

Fonte:Comedonchisciotte