Ardita: ”Quella di Catania è una Mafia che si è alimentata nei rapporti con il potere”

Sulle scarcerazioni: “Quando tutti i cittadini vengono costretti a casa per limitare il contagio, i detenuti al 41 bis vengono aperti e mandati in una zona rossa per essere curati”
di AMDuemila



“Catania è l’epicentro narrativo di questo volumetto. Ho voluto raccontare questa città come era negli anni ’70 e ’80. Poi ad un certo punto ho raccontato fatti e fenomeni non solo di mafia, guerre di mafia ma anche guerre di politica, infiltrazioni, collusioni, disillusioni”. Queste sono state le parole del magistrato e consigliere togato del Csm, Sebastiano Ardita, durante la presentazione del suo libro ‘Cosa nostra S.p.A.’, tenutasi a Catania nel cortile di Palazzo Platamone. “Poi ho rappresentato la città nei tempi più recenti”, ha proseguito il magistrato, “lasciando che fosse il lettore a trarre le conclusioni di quelle che sono le differenze, valutando se, in queste differenze, quelle vicende di mafia narrate avessero avuto una parte”.
Ardita, raccontando le differenze tra la Catania degli anni ’70, dove “i negozi erano tutti aperti, la gente andava per guardare, si fermavano le famiglie e l’incedere era molto lento e cadenzato” e la Catania di oggi, dove le persone scendono sole per strada, “i negozi hanno le saracinesche abbassate o le vetrine sono abbandonate e individui che da soli passeggiano guardando il telefono”, ha chiarito come “questa è una modifica importante nella vita di una città”, “è cambiato quello che è stato l’input principale dei catanesi: l’attività commerciale”.
“Catania è una città nella quale si è spenta quella energia fondamentale dei catanesi che era il dire dei piccoli commerci, perché è accaduto – ha spiegato il consigliere togato del Csm – che in una decina di anni sono sorte un numero impressionante di strutture di iper mercato e molte attività economiche hanno chiuso”. Purtroppo, come viene raccontato anche nel suo stesso libro, a Catania “è avvenuta con violenza una diversa distribuzione della ricchezza e del lavoro e improvvisamente è cambiato tutto. Se non avessimo avuto la amara opportunità di verificare come questo cambiamento è avvenuto”, ha continuato Ardita, “se non avessimo letto gli atti giudiziari che hanno riguardato Cosa Nostra catanese che ci hanno spiegato come sono sorti gli ipermercati, con quanti ‘pasticci’ sono sorti, con che concorrenza tra mafiosi e imprenditori sono sorti, non avremmo mai capito quello che era accaduto a Catania”.
“Il tema fondamentale”, ha detto il magistrato, era che negli anni ’80 “c’è stato un atteggiamento di contenimento del fenomeno mafioso perché era sempre visto con atteggiamento ambivalente: da un lato era un fenomeno negativo perché legato alla criminalità e dall’altro era un fenomeno che qualcuno pensava di poter gestire per un interesse proprio. Perché la mafia era un potere in certi territori”.

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“Purtroppo la parabola di una mafia soltanto che spara è diventata negli ultimi tempi una brutta storia, che ha consentito diversi fenomeni di mutamento di questa realtà, all’interno anche della stessa Cosa nostra”, ha affermato Ardita. “Siccome sono stati fatti un sacco di soldi sporchi e le famiglie sono organizzate con delle strutture particolari, qualcuno ha pensato di poter tagliare il cordone ombelicale con la parte più militare della organizzazione, e di trasformare questa Cosa nostra in quello che può essere una Cosa nostra S.p.A, una realtà votata al reinvestimento, ai rapporti che contano”, ha proseguito.
“D’altra parte la mafia questo è: i rapporti tra la criminalità di élite e il potere. La criminalità, le attività illegali in tutte le realtà di territorio sono organizzate in reti, non tutte le reti sono mafiose, ma le reti convergono verso un vertice, la sintesi di questo vertice è la mafia: il soggetto che interloquisce con il potere. Credo che negli ultimi tempi l’aver voluto dipingere il fenomeno mafioso come un fenomeno che spara è servito a molti: a mettere in silenzio coloro i quali volevano andare a disvelare i rapporti più importanti, quelli che alimentano il fenomeno e che lo ledono al potere e dall’altra parte a lasciare in una condizione di limbo i quartieri nei quali si sono formate le squallide realtà che traggono spunto dal disagio e poi armano la Cosa nostra, in modo militare”.
“Quindi si possono arrestare 1, 2 o 100 di questi killer ma non si è combattuta la mafia”, ha chiarito il consigliere togato del Csm, “hai colpito un terminale di cui le reti criminali si servono ma che di per sé non è sufficiente per dire che si è vinta la battaglia contro la mafia. Dietro questa ipocrisia c’è molta storia, ci sono carriere, c’è un’antimafia di maniera, ci sono stati magistrati di antimafia buoni perché si sono occupati di catturare coloro che svolgono un’attività criminale e ce ne sono alcuni che sono considerati cattivi perché si occupano anche dei rapporti della mafia con il potere, che sono quelli più scomodi e che incidono su quelli che sono gli equilibri importanti e istituzionali”. Sono magistrati “che fanno verità e cercano giustizia”.
“Tutti i fenomeni criminali organizzati sono fatti di storie di persone e le storie di persone, comunità e società anche deviate sono soggette ai ricorsi storici”, ha continuato il magistrato, “tutti sappiamo che non esiste nulla di nuovo nella storia, ma solo la rielaborazione di fatti che sono già accaduti in modalità già realizzate. Dunque il pericolo è sempre presente”. Ardita ha ricordato infatti le dichiarazioni del pentito Galatolo, già prima menzionate da Nino Di Matteo, chiarendo che “l’esplosivo era già arrivato a Palermo ed era per Nino Di Matteo”. Ecco perché “ci siamo arrabbiati per le scarcerazioni dei mafiosi: non è che lo abbiamo fatto perché non ci piacciono certe scelte amministrative che avvengono nell’amministrazione penitenziaria, lo abbiamo fatto perché c’è un pericolo concreto di riorganizzazione militare di Cosa nostra. Tutto quello che si è determinato in termini di equilibrio tra Stato e mafia, rispetto a quelle che possono essere le forme di attacco allo Stato è un equilibrio che vive di variabili, ma se qualcuna di queste variabili salta, salta tutto, salta quell’equilibrio. Ecco perché il rischio dei 250 mafiosi scarcerati è enorme se ci sono capi di famiglie mafiose anche su questo territorio che sono tornati fuori dal carcere. Bisogna tenere gli occhi aperti”.


“L’amarezza maggiore che abbiamo in questi anni è quello di avere visto accanto a forme importanti di impegno culturale contro la mafia intesa anche come rapporto con il potere anche un’antimafia che ha preteso di diventare essa stessa potere ed ha quindi contraddetto se stessa”, ha proseguito il consigliere togato del Csm.
“Questo modo di intendere l’antimafia oggi necessita di due elementi fondamentali. Un elemento di attenzione a quelle che sono le dimensioni reali del fenomeno: non c’è più tempo di proclami, affermazioni e pronunce di leggi che aggravano il 41bis, che aumentano pene per reati per poi cedere di fronte ad una banalità, ad una questione che riguarda una pandemia. Quando tutti i cittadini vengono costretti a casa e i detenuti al 41 bis vengono aperti e mandati in una zona rossa per essere curati. Queste sono le assurdità di un sistema che evidentemente sta cedendo dalle fondamenta, di un sistema che è eroso da una reazione strumentalmente garantista, ma non realmente garantista. Perché il garantismo è un’altra cosa: è il rispetto dei diritti, di civiltà della pena, fa parte dello stato di diritto.
Io credo che quando si affrontano questi fenomeni non si può avere un atteggiamento ipocrita e sprezzante e non si può considerare la mafia un fenomeno sordido, squallido relegato a certi nomi e a certe famiglie e soprattutto confinato dentro certi quartieri, perché la mafia che conosciamo noi, quella di Catania, è una mafia che si è alimentata nei rapporti con il potere e nell’incapacità delle istituzioni del mondo che conta di prendere coscienza di questo rapporto. Occorre invece avere una prospettiva diversa che manca a volte e che vedo sempre più spesso in questa città”.
“Io ho ancora speranza”, ha affermato poi il magistrato, “Catania è una città viva culturalmente, che ha capito che il problema non è l’emarginazione dei quartieri. Ha capito che per risolvere il problema bisogna entrare in questi quartieri, guardare questa gente e far capire che non esiste una città bene e una città emarginata che crea problemi, ma che c’è un mondo unico in cui c’è chi ha avuto la fortuna di crescere in una famiglia borghese e chi è vissuto in realtà emarginate in cui veniva alimentato il meccanismo mafioso.
“L’obiettivo in questo momento”, ha chiarito in conclusione Ardita, “è quello di entrare in questi quartieri in modo diverso, con l’atteggiamento di chi vuole riscattarsi e superare quelle barriere, di chi vuole farsi carico di ragazzini cresciuti con il papà in carcere e che hanno solo voglia di riscatto e voglia di essere accuditi e ascoltati prima che diventino criminali dalla Catania bene”.



Di Matteo: ”Necessaria riforma elettorale del Csm che spezzi il vincolo degli eletti con le correnti”

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“Nel momento in cui sentivo parlare Saverio Lodato sulla magistratura mi è venuta in mente questa annotazione. Io, dato il mio ruolo, non entrerò nei particolari e nelle singole responsabilità, ma non posso stare zitto. Sono un magistrato e non posso non affrontare il momento particolare della magistratura. Di fronte a quanto accaduto con l’inchiesta di Perugia non possiamo essere sorpresi, ma dobbiamo indignarci e reagire. Senza aspettare che altri reagiscano per conto nostro. Noi dobbiamo reagire contro quei fenomeni che hanno provocato quella degenerazione: il correntismo, la diffusione dei metodi clientelari; il collateralismo di molti magistrati con la politica; la corsa sfrenata, stupida e ridicola per ottenere incarichi direttivi; la gerarchizzazione degli uffici procura. Oggi dobbiamo batterci a maggior ragione perché sappiamo che una parte consistente della politica, e del potere in generale, vuole cogliere l’occasione con riforme che apparentemente sono fatte per evitare certe degenerazioni, ma in realtà mirano a ledere l’autonomia e l’indipendenza della magistratura, al servizio dei cittadini, per renderla collaterale al potere politico ed esecutivo in particolare”. E’ questo l’appello lanciato a tutta la magistratura da parte del magistrato Nino Di Matteo, parlando anche della prossima riforma del Csm. Quindi ha fatto anche delle proposte: “E’ necessaria una riforma elettorale del Csm che spezzi il vincolo degli eletti con le correnti. In questa direzione, a mio avviso, possiamo anche pensare ad una forma di sorteggio temperato dei candidabili al Consiglio superiore della magistratura. Penso, più continuamente e senza dubbi, ad una rotazione automatica degli incarichi direttivi. La bellezza di fare il magistrato sta nel fare inchieste, processi e cercare verità e non nel diventare Procuratore capo, Procuratore generale o Presidente della Corte d’appello. La corsa alla carriera è pericolosa in relazione al sacro principio dell’articolo 107 della Costituzione che sancisce che i magistrati si distinguono tra loro solo per funzioni, sappiamo, obbediscono soltanto alla legge”. Infine ha concluso: “Io, come Sebastiano, sono entrato in magistratura poco prima delle stragi. Da tirocinante ho vissuto a Palermo il periodo delle stragi. Ho indossato per la prima volta la toga che avevo appena comprato in piena notte, alle tre di notte, al palazzo di giustizia a Palermo accanto alla bara di Giovanni Falcone. Mi batterò con tutte le mie forze perché chi, non solo nella magistratura, occupa indegnamente le istituzioni, non sporchi la memoria di chi è morto per il nostro Paese e per le istituzioni che quelle persone servivano nell’interesse dei cittadini e del popolo italiano”.



Di Matteo: ”Via d’Amelio non solo una strage di mafia. Bisogna proseguire l’accertamento di verità”

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“Da pochi giorni è trascorso l’ennesimo anniversario, il 28esimo, della strage di via d’Amelio. E non è vero che non sappiamo nulla o che gli sforzi giudiziari sono stati tutti inutili. Dopo gli iniziali depistaggi ed errori già dal 1996 le indagini dei processi hanno consentito di accertare passaggi importanti e non solo le condanne definitive e mai messe in discussione di 24 tra esecutori e mandanti, ma qualcosa di più importante: l’acquisizione di elementi concreti che oggi ci possono far dire che quella di via d’Amelio non è stata solo una strage di mafia. Ed è necessario proseguire il percorso di accertamento della verità senza azzerare tutto, ma partendo dalle acquisizioni consacrate correttamente per colmare i vuoti di verità”. E’ questa la considerazione del consigliere togato Nino Di Matteo parlando dell’attentato del 19 luglio 1992, nel corso del suo intervento alla presentazione del libro “Cosa nostra S.p.a”, scritto da Sebastiano Ardita ed edito da Paper First. “E’ necessario muoversi in due direzioni – ha proseguito – capire il perché di un’improvvisa accelerazione del progetto di uccidere il dottor Borsellino che intervenne tra la metà di giugno del 1992 ed i primi di luglio del 1992. E poi sforzarci, come sempre, di cercare di inquadrare quell’attentato in un contesto più ampio di sette stragi, avvenute tra il 1992 ed il 1994, che insanguinarono l’Italia. Noi abbiamo capito perché i corleonesi intrapresero quella strategia: si muovevano politicamente e ritenevano saltati quei vecchi equilibri politici fotografati anche nella sentenza Andreotti. Il programma politico di Riina era ‘dobbiamo fare la guerra per poi fare la pace’. Dobbiamo mettere in condizioni lo Stato a venirci a cercare per arginare la violenza stragista. Noi abbiamo capito il perché furono fatte le stragi. Dobbiamo capire meglio perché nel gennaio 1994 interruppero quella strategia. Si poteva ripetere il fallito attentato all’Olimpico la domenica successiva. Non lo fecero. Certo è che al di là delle responsabilità penali individuali accertate in primo grado, di cui non voglio parlare in attesa e in costanza di processi in corso, un dato è certo. Che mentre Paolo Borsellino e gli agenti della scorta andavano incontro alla morte una parte dello Stato, per il tramite di Vito Ciancimino, si rivolse a Riina per chiedere cosa volesse per abbandonare le stragi. E ci fu una ricerca di un dialogo e un patto oscuro e osceno che di fatto non evitò altro sangue, anzi lo provocò perché rafforzò negli stragisti il convincimento che la strategia era giusta e li indusse ad organizzare altre stragi”. E poi ancora ha ricordato: “Uno degli stragisti, in una villetta di Santa Flavia, vicino a Palermo, spiegò quali fossero gli obiettivi da colpire. Ammesso che sia solo farina del sacco di Cosa nostra individuare i monumenti, San Giorgio al Velabro, San Giovanni in Laterano, o la Galleria degli Uffizi. E questo per dire qual è il ruolo di Matteo Messina Denaro nelle stragi. Non solo un esecutore, ma un organizzatore”.


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Di Matteo: “Non normale che non si riesca a catturare un latitante come Messina Denaro”

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“E’ grave che la latitanza di Matteo Messina Denaro, condannato all’ergastolo per questi fatti, si protragga da 27 anni. Così come per 43 anni si protrasse la latitanza di Provenzano. Situazioni di questo genere non possono non essere anche, in parte, il frutto di coperture istituzionali e politiche. Non è normale che per 27 anni, o 43 anni, non si catturi un latitante. E per Messina Denaro la gravità è acuita dal fatto che è stato uno dei protagonisti della campagna stragista. Questo lo pone in condizioni, potenzialmente perché è uno dei pochi depositari di segreti inconfessabili, di brandire un’arma micidiale di ricatto nei confronti di chi ha ancora molto da nascondere su quella fase di storia recente”. Lo ha affermato il magistrato Nino Di Matteo alla presentazione del libro del magistrato Sebastiano Ardita “Cosa nostra S.p.A.” tuttora in corso a Palazzo Platamone di Catania.



Di Matteo: “Pericoloso minimizzare possibile ritorno alle stragi delle mafie”

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di AMDuemila
“Quando si scrive che lo Stato ha vinto e Cosa nostra è stata sconfitta, quando si dice e si scrive con assoluta certezza che la parentesi stragista è stata solo una parentesi limitata che non si ripeterà mai più io penso che queste persone, questi studiosi, questi storici, forse si accostano con superficialità al problema. Perché in Cosa nostra si sono alternati nel tempo momenti di sostanziale ed apparente pace con lo Stato seguito da momenti di attacco allo Stato. Come si può dire che si è abbandonata la strategia di attacco alle istituzioni nel momento in cui nel 2013, un collaboratore di giustizia come Vito Galatolo, ritenuto attendibile non solo dalle Procure ma anche da sentenze, ha raccontato, con tanto di riscontri, dell’acquisto di tritolo per colpire un magistrato a Palermo. E questo lo dico per porre il problema della non scontata fine del periodo di violento attacco alle istituzioni”. E’ un grido d’allarme quello che lancia il consigliere togato del Csm Nino Di Matteo, intervenendo alla presentazione del libro del magistrato catanese Sebastiano Ardita, oggi componente del Csm, dal titolo “Cosa nostra S.p.a.” (ed. Paper First), in corso a Catania. “In carcere – ha ricordato il magistrato – ci sono uomini protagonisti della strategia stragista, ancora giovani, che a mio parere difficilmente si rassegneranno a morire al 41 bis, rassegnati ad essere traditi da chi gli aveva prospettato che quella strategia stragista poteva portare benefici a tutta Cosa nostra. Non è in carcere un altro di quei soggetti che quella strategia stragista hanno condiviso e vissuto come Matteo Messina Denaro. Per questo a giudizi sommari e silenzi dobbiamo contrapporre la memoria, il dibattito, le parole, il coraggio di esporsi in prima persona”.
“Cosa nostra – ha proseguito ancora – è l’unica organizzazione al mondo che è riuscita a concepire stragi, centinaia di omicidi eccellenti tra magistrati uomini delle forze dell’ordine, politici, sindacalisti, prefetti e giornalisti. Questo perché Cosa nostra è quell’organizzazione che più di altra ha avuto come faro l’intendimento e la capacità di intessere rapporti con la politica e le istituzioni”. Nel corso del suo intervento ha dunque ricordato le sentenze come quella Andreotti, quella Dell’Utri, quella Cuffaro, e la sentenza di primo grado sulla trattativa Stato-mafia. “Non ci si può concentrare solo sui fenomeni militari mafiosi – ha proseguito – Il libro di Sebastiano Ardita ci parla di questo. Ci spiega come sia falsa e rassicurante e ipocrita e ingiusta la tendenza a considerare la mafia solo ciò che parte dalla disperazione e la miseria degli ultimi della società”.

Morra: “Lotta alla mafia si vince con cultura e istruzione”

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Nel corso del suo intervento il presidente della Commissione Antimafia Nicola Morra ha parlato dell’importanza della cultura e dell’istruzione nel contrasto alla mafia e alla mentalità mafiosa, ancor più invasiva nel tessuto sociale. Sono queste, secondo Morra, le chiavi per vincere la partita.
“Io sono convinto che per combattere le mafie a partire da Cosa nostra, a partire da Nitto Santapaola o Giuseppe Calderone, si debba avere chiara la coscienza dei propri doveri oltre che dei propri diritti. Nella misura in cui cresce l’una deve crescere anche l’altra”, ha detto Morra.
“Oggi è più facile parlare di valore in riferimento al conto corrente in banca piuttosto che ideali che ci venivano impartiti da piccoli”. Il senatore ha poi riportato, durante il suo intervento, la vicenda della caserma di Piacenza che qualche giorno fa è stata chiusa perché alcuni militari dell’Arma si erano resi protagonisti di “reati gravissimi” (queste le parole del gip).
“Tutti abbiamo seguito una vicenda dolorosa che è quella dei carabinieri beccati a Piacenza con le mani nella marmellata. A me più che della narrazione ha fatto impressione ciò che veniva proposto da questi soggetti in termini di immagini con cui loro si proiettavano all’esterno, spesso e volentieri sui social dove si facevano ritrarre con mazzette di soldi, alcolici a bordo di una piscina come se la vita fosse questa”, ha affermato Morra rifacendosi al discorso di Nicola Gratteri sui valori e la moralità dell’individuo, e quindi della società. “Il nostro Paese – ha aggiunto – deve fare una rivoluzione culturale anzitutto leggendo, ma soprattutto meditando, ad esempio su quello che viene scritto in questo libro”. “Noi italiani dovremmo avere un po’ più di coraggio smettendo con l’ipocrisia che ci accompagna tutti i giorni. In queste settimane vengo raggiunto da foto scattate all’interno di beni sequestrati e confiscati gestiti da cooperative sociali in cui con il supporto del ministro dell’istruzione Azzolina, ci sono dei ragazzi che stanno facendo delle esperienze di educazione alla legalità e di condivisione. La partita – ha concluso – si vince sul versante dell’istruzione perché riflettere è anche un’azione antimafia. Quindi benvengano libri come quello di Sebastiano Ardita che fanno bene al cuore e alla mente”.



Morra: ”Lotta alla mafia non è priorità nelle agende di tante forze politiche”

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di AMDuemila
“L’azione di contrasto alle mafie non è il primo punto dell’agenda di tante forze politiche”. Ha esordito così, il presidente della Commissione parlamentare antimafia Nicola Morra, alla presentazione del libro del magistrato Sebastiano Ardita “Cosa nostra S.p.A.” tuttora in corso a Palazzo Platamone di Catania. “E che non sia il primo punto, e forse neanche tra i primi tre  – ha detto Morra  – lo dimostrano tante scelte che hanno impedito l’azione di alcuni magistrati e forze di polizia giudiziaria di poter arrivare a meta”.
In questo libro “si tratteggia di una Cosa nostra che, in una maniera meno virulenta e sanguinaria, ha capito che la partita si vince rapportandosi al potere”. “E il potere  – ha spiegato  – soprattutto quando non è democraticamente fondato e imbullonato su valori condivisi, si fa tentare e sedurre. In tante di queste pagine si legge di centri commerciali costruiti come funghi perché con qualche variazione del piano regolatore generale si concede questa possibilità con l’avallo della classe dirigente. E dunque della politica. E tutto questo perché, come ho imparato studiando Rocco Chinnici, a fondamento della mafia c’è una straordinaria propensione all’accumulazione di capitali”. Pertanto, ha aggiunto il senatore, “credo che si debba tornare a categorie di lettura economicista di certi fenomeni per comprendere certe dinamiche. Le mafie hanno compreso che relazionandosi al potere della classe dirigente potevano ottenere ancora più forza. Le mafie attraverso l’esempio di Nitto Santapaola, relazionandosi alla Catania bene hanno fatto il salto di qualità, quindi abbiamo i cavalieri del lavoro, e quindi, come sbocco, giuridicamente parlando, il concorso esterno. Ovvero favorire il sodalizio senza mai risultare intraneo allo stesso. Noi  – ha concluso Morra  – dobbiamo prendere coscienza che troppe volte chi rappresenta lo Stato gioca contro lo Stato”.


Gratteri: “C’è gente che lavora per trovare prove false nei confronti di chi ama l’Italia e spera in un futuro migliore”

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di AMDuemila
“Mi ha colpito l’intervento del giornalista Saverio Lodato. Tra tante cose belle e importanti che ha detto ha fatto un passaggio a una certa stampa, cogliendo nel segno. E’ un punto di snodo importante su cui invito a soffermarvi. Perché oggi è importante internet, con la possibilità per chiunque di scrivere, parlare e farsi conoscere. E’ una cosa bella e positiva. Però c’è tanta spazzatura in giro e veramente c’è molto falso. Lui ha detto una cosa forte, grave, ma vera: c’è gente che si alza la mattina per costruire prove false. Per provare ad indebolire e di lavorare ai fianchi quelle persone che amano in modo viscerale l’Italia, che cercano di dare tutto se stessi alla collettività de per il lavoro per cui credono ancora, vivono e sperano in un futuro diverso per questa nazione”. Così è intervenuto il procuratore capo di Catanzaro, Nicola Gratteri, nel corso della presentazione del libro del magistrato e componente del Csm Sebastiano Ardita ‘Cosa nostra S.p.A’ a Palazzo Platamone (Catania), riprendendo quanto detto nel video intervento dal giornalista.

Stimolato dalla domanda di La Rosa a seguito dell’intervento di Di Matteo,
Gratteri ha poi parlato anche della crisi della magistratura spiegando che “la madre di tutte le riforme è quella del Csm “. “Io – ha aggiunto – sono d’accordo con il sorteggio. Escludendo chi ha avuto condanne e quelli che hanno ritardi nelle sentenze, si può dividere l’Italia per macro-aeree (Nord-centro-Sud) e poi si fa il sorteggio. Perché se sono in grado di scrivere una sentenza sono in grado di valutare se una persona è idonea a fare il Presidente del Tribunale o il Procuratore generale. Se tolgo questo giocattolo delle nomine le correnti spariscono e la magistratura diventerà più indipendente e la gente si avvicinerà più a noi, perché la gente non è masochista, non è omertosa. La gente non si avvicina perché non si fida, non sa con chi parlare”. Già a margine della presentazione del libro, intervistato dai giornalisti, Gratteri ha spiegato che “non c’è un problema giustizia oggi ma da decenni. Non abbiamo ancora un legislatore che affronti il problema in modo radicale, avendo il coraggio di rileggere i codici per modificarli, per adeguarli alle esigenze del 2020″. “Ci provammo – ha aggiunto – in una commissione nel 2014 che aveva il compito di fare delle riforme di ‘superficie’. Ma nemmeno quelle passarono. Passò solo quella del processo a distanza, che consente un risparmio di 70 milioni di euro l’anno, limitando a zero il rischio di evasioni. Solo per questa riforma gli avvocati fecero cinque giorni di sciopero”.
Il procuratore capo di Catanzaro ha poi commentato gli arresti dei carabinieri della Caserma di Piacenza, avvenuto negli scorsi giorni. “Piacenza? Sono soltanto mele marce. Non c’è un problema reale. Da più di 30 anni lavoro con i carabinieri e ne ho conosciute diverse migliaia che danno l’anima e che hanno nel sangue il senso della giustizia – ha detto – La corruzione, i corrotti, gli infedeli e gli indegni sono in tutte le categorie. Questo non vuol dire buttare l’acqua sporca con tutto il bambino ma avere il coraggio di togliere in modo radicale queste mele marce per continuare ad aver fiducia perché non esiste alternativa”.
In conclusione, il magistrato ha spiegato che “nel medio e nel lungo periodo il Coronavirus ha rafforzato le organizzazioni criminali. Noi pensiamo agli imprenditori, commercianti e ristoratori che non sono riusciti ancora a riaprire o a lavorare a regime. Potrebbero essere tutti preda di usurai e dopo una lenta agonia sappiamo che il loro obiettivo è quello di rilevare l’attività commerciale e poi fare riciclaggio”. “La corruzione, i corrotti, gli infedeli e gli insegni sono in tutte le categorie. – ha concluso – Questo non vuol dire buttare l’acqua sporca con tutto il bambino ma avere il coraggio di togliere in modo radicale queste mele marce per continuare ad aver fiducia perché non esiste alternativa”.



Gratteri: ”Oggi c’è una classe dirigente che vuole farsi corrompere”

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di AMDuemila
“In questo libro c’è il centro del problema dell’Italia e dell’Europa in quanto Ardita spiega molto bene e analizza la mafia che non spara, che non fa danneggiamenti, non terrorizza. Spiega l’attualità di una mafia che corrompe. Oggi c’è un abbattimento dell’etica, non si arrossisce più e non c’è più vergogna. Gli ultimi 20-30 anni sono stati catastrofici sul piano etico. Non ci si scandalizza più di nulla e si vive l’assuefazione. Oggi c’è la cultura del consumismo, dell’apparire anziché dell’essere, mentre prima la cultura era un valore. Oggi il valore è avere un Suv da 80mila euro fuori questa strada. Oggi si è accettati se si è vestiti firmati o se si va alla settimana bianca. Ed oggi c’è una fetta di classe dirigente/impiegatizia che non intende rinunciare a tutto questo e quindi è disposta a farsi corrompere. Spesso la gestione della cosa pubblica non è fatta funzionare non tanto per la farraginosità del sistema, ma molte volte sono i funzionari che non la fanno funzionare. Perché la pratica si sblocca subito dopo una mazzetta”. E’ quanto ha detto il procuratore capo di Catanzaro, Nicola Gratteri, durante la presentazione del libro del magistrato e componente del Csm Sebastiano Ardita ‘Cosa nostra S.p.A’. Secondo il magistrato questo libro “affronta molto bene la parte che riguarda il concorso esterno in associazione mafiosa. Ardita pensa ad un Daspo per coloro cui si trovono elementi ma non sufficienti sul piano penale. E’ come una misura di prevenzione quando non si riesce a condannare al 416bis. E questo è un punto focale”. Il magistrato ha evidenziato anche un altro argomento, ovvero l’impossibilità di utilizzare le intercettazioni per individuare i reati contro la pubblica amministrazione: “Perché tutto sarebbe molto più difficile se non ci fossero le intercettazioni. E c’è un limite posto dal legislatore che ha fatto un grande regalo alle mafie, cioé l’impossibilità di utilizzare le intercettazioni per i reati comuni o quelli sulla pubblica amministrazione. Ed è una follia. Perché se io sento due mafiosi parlare di questo io non le posso utilizzare”.
Nel corso del suo intervento ha anche ricordato le difficoltà incontrate al suo arrivo a Catanzaro nel momento in cui “se tu indaghi sui soliti noti tutti dicono che sei un bravo magistrato, ma non appena alzi il tiro esce un verminaio. Io ricordo che quando sono arrivato a Catanzaro ho passato due anni solo a organizzare l’ufficio e capire le indagini che erano ferme. Agli intervenuti pubblici c’erano 1000 persone e mano mano che passavano gli anni vedevo sempre più persone offese, vessate e sempre meno classe dirigente e borghesia. Questo perché abbiamo alzato il tiro”. Rivolgendosi ai presenti ha spiegato come a lungo si è affermato che le province di Catanzaro e Cosenza, Vibo Valentia, Crotone fossero “un’isola felice”. Poi “in pochi anni c’è stato un boom di Comuni sciolti per mafia, non ci sono elezioni in cui non sentiamo qualche politico, ascoltato con intercettazioni telefoniche e ambientali, chiedere pacchetti di voti o che monitoriamo mentre va ad incontrare mafiosi, sapendo di andare ad incontrare mafiosi. E a questo punto, come diceva Saverio Lodato, iniziano i giornali specializzati nel tentare di demolire tutto sul piano psicologico. Ma io ho spalle larghe e nervi d’acciaio e non faccio mai falli di reazione”.

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di AMDuemila 
“La scena è quella di una delle presentazioni più riuscite di un libro su Cosa nostra catanese. I giovani mi guardano sbalorditi quando racconto delle collusioni degli anni Ottanta e degli appoggi che Nitto Santapaola aveva tra i magistrati e le forze di polizia catanesi. Sono stati molto attenti e dopo l’incontro sfilano uno dopo l’altro per avere una firma sulla loro copia. Quando sto per andar via, un giovane si avvicina. È molto più grande degli altri – decisamente non ha l’aspetto dello studente – ma anche lui ha in mano un libro. Ha lo sguardo molto sveglio. Mi guarda negli occhi e mi chiede una firma: ‘È la prima volta che compro un libro, ma a sentirla parlare di mafia mi sono incuriosito’. ‘Da come ha parlato di noi, ho capito che lei non ce l’ha con quelli che veniamo dai quartieri…’”. E’ questo uno dei passaggi del libro “Cosa nostra Spa” (ed. PaperFirst) del consigliere togato del Csm, Sebastiano Ardita, interpretato da Sonia Bongiovanni e Jamil El Sadi, del Movimento Culturale Internazionale Our Voice, durante la presentazione del libro a Catania presso il cortile del Palazzo Platamone. Il magistrato in questo passo ha raccontato la storia di un ragazzo a lui raccontata durante un firma copie. “Dice che si vuole sfogare e vuole raccontarmi la sua storia: inizia a parlare tutto di un fiato, vuol farsi capire aiutandosi con le mani e col tono della voce, tra dialetto e italiano. – hanno proseguito nella lettura del libro i due attori di Our Voice  – Mi immergo nel racconto come dentro un film che ti travolge. ‘Vengo dal quartiere, dove siamo in tanti, siamo poveri e ti senti un numero. Ho seguito la scuola fino alla terza media e poi, studiando e lavorando, ho preso la maturità. C’era gente che iniziava presto a rubare o a spacciare. Ma a me la malavita non mi interessava, avrei voluto fare il Carabiniere, e nel quartiere non era ben visto chi voleva fare lo sbirro. E non ero il solo: tanti ragazzi in cuor loro volevano indossare la divisa anziché andare a commettere reati, solo che non avevano il coraggio di dirlo, anche perché sapevano che poteva restare solo un sogno. Come è stato per me, ed il perché posso immaginarlo. Tanti anni fa mio padre aveva commesso uno di quei brutti reati della malavita e per questo è stato a lungo in galera. Mi ricordo che ero bambino e andavo a trovarlo con mia mamma. Ci vergognavamo un po’ ad aspettare davanti alla piazza del carcere. Stavamo ore e ore in attesa che ci chiamassero, e io passavo il tempo giocando a calcio con una pietra insieme agli altri bambini; mentre mia madre si disperava perché mi vedeva tutto sudato e con i pantaloni sporchi, gli unici decenti che avevo e indossati apposta per andare a trovare mio papà. Poi entravamo dentro la sala colloqui del carcere di Piazza Lanza e lì ogni volta che portavano mio papà mi sentivo un groppo alla gola. Lui era sorridente, ma era infelice e aveva sui polsi i segni delle manette. E mia madre ogni volta che lo vedeva scoppiava a piangere e ci voleva un bel po’ prima che si riprendesse”. E ancora prosegue il racconto: “La prima cosa che mio padre le chiedeva era se ci bastavano i soldi per mangiare. E lei rispondeva sempre di sì, anche se non era vero, per tranquillizzarlo. Andava a servizio presso una famiglia per tirare su me e mio fratello. Mio padre capiva di avere sbagliato e non poteva dare la colpa a nessuno per la sofferenza che stava vivendo. Certo non le amava le guardie, ma neppure le odiava. E io, figlio di detenuto, avevo desiderato di indossare la divisa per riscattare me e anche la mia famiglia. E così non appena fui maggiorenne feci la domanda per arruolarmi. Andai a fare le visite e per un attimo sognai di poterla indossare davvero, quella divisa nera con gli alamari. Ma alla fine rimase solo la delusione per un sogno che non si sarebbe mai realizzato: le  informazioni sulla mia famiglia non erano buone. Mi sono sentito rifiutato dalla divisa che amavo. Dottore, non mi hanno voluto…! Non mi avete voluto tra di voi..!”.  Nel concludere il passo del libro, dopo il racconto della storia del giovane, Ardita ha riflettuto: “E così, dopo venticinque anni di magistratura, di impegno antimafia, di responsabilità delle carceri, gestione del 41bis e via discorrendo, ho ricevuto questa lezione da un ragazzo che sistemava la sala. La dovevo raccontare perché la considero rivolta a me, innanzitutto; ma questa lezione dovrebbe ascoltarla ogni persona che intende dedicare il proprio impegno alla lotta alla mafia per capire che mafiose possono essere, per colpa nostra, anche persone che non lo sarebbero diventate; – hanno letto Sonia Bongiovanni e Jamil El Sadi – e che i ciarlatani che lottano contro interi quartieri senza sapere neppure contro chi, non sanno di cosa parlano”.

Bongiovanni: ”’Cosa nostra S.p.A’, lo specchio della mafia di oggi”

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di AMDuemila
E’ iniziata a Palazzo Platamone, nel cuore di Catania, la presentazione del libro del magistrato catanese Sebastiano Ardita, oggi componente del Csm, dal titolo “Cosa nostra S.p.a.” (ed. Paper First). Ad aprire l’evento è il direttore di ANTIMAFIADuemila Giorgio Bongiovanni che, insieme al collega Salvo La Rosa, ha presentato i vari e rinomati ospiti: l’autore Sebastiano Ardita, il consigliere togato del Csm Nino Di Matteo, il procuratore capo di Catanzaro Nicola Gratteri e il presidente della Commissione antimafia Nicola Morra. “‘Cosa nostra s.p.a.’ è un libro che consiglio a tutti, soprattutto ai più giovani – ha detto Bongiovanni – perché è lo specchio della mafia oggi a Catania e in Sicilia. Ma il libro – ha aggiunto – rappresenta soprattutto il quadro generale della situazione odierna della criminalità organizzata in Italia. Non a caso infatti oggi a parlarcene qui sono Nino Di Matteo, Nicola Gratteri e Sebastiano Ardita. Questi personaggi presentano, ognuno secondo le proprie indagini condotte, il proprio punto di vista.”


Presentazione del libro ”Cosa Nostra S.p.A”, Our Voice racconta: Santapaola e le titubanze sulla strategia stragista

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di AMDuemila

“‘C’è in arrivo un pacco con un libro per Santapaola…!’ annunciava con un urlo l’addetto al sopravvitto facendo ingresso in sezione, e dirigendosi verso la sua cella glielo consegnò nelle mani che l’altro teneva protese fuori dalle sbarre. Nitto afferrò il pacco che attendeva. Scartò l’involucro già lacerato e con un gesto automatico se ne liberò facendolo cadere nel cestino dei rifiuti. Poi si appoggiò con le spalle allo schienale della branda, mentre non vedeva l’ora di poter leggere quella storia che lo vedeva protagonista. Lesse e rilesse più volte titolo e sottotitolo, desideroso di capire qualcosa che gli potesse ricordare la città che se ne sta ai piedi dell’Etna. Quando il racconto finisce nelle mani di chi ha messo in piedi “il sistema dominante” non c’è nulla che possa impedirgli di leggerlo con una dose di sinistra soddisfazione. Santapaola rimase colpito da quella ricostruzione. E si lasciò andare al suo sfogo, pur consapevole che gli agenti ne avrebbero relazionato per iscritto, come è previsto dalle regole interne del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria”. E’ questo il passaggio del libro “Cosa nostra S.p.a.” (ed. Paper First) del magistrato Sebastiano Ardita, letto dai giovani del Movimento Our Voice durante la presentazione del volume ancora in corso a Palazzo Platamone (Catania). A leggere alcune pagine del libro sono Sonia Bongiovanni, direttrice di Our Voice e Jamil El Sadi, anche lui componente e giovane attore del gruppo. I due ragazzi hanno riportato al pubblico il momento, descritto dall’autore nel suo ultimo lavoro, in cui al capo mafia catanese Nitto Santapoala, arrivò in carcere un libro che raccontava alcune fasi del suo vissuto criminale. E in particolare quella in cui, per volontà dei boss corleonesi, gli uomini di Santapaola accettarono di aderire, a modo loro e malvolentieri come ben spiega Sebastiano Ardita nel libro, alla strategia stragista di Cosa nostra. Nitto Santapaola “si riferiva al suo chiodo fisso, che sono le stragi. – hanno continuato Sonia Bongiovanni e Jamil El Sadi – Rispetto alle quali continua a dire che non le avrebbe volute, e all’analisi su una strategia di non attacco allo Stato, che conosce bene perché è lui che l’ha messa in piedi. Sa pure che parlare di trattativa – e dei “buoni rapporti” tra Stato e mafia come li ha avuti lui – è stato per anni un argomento off limits negli ambienti istituzionali. Nitto sa di essere stato giustamente condannato e sa che – hanno proseguito nella lettura del libro i due attori di Our Voice – tutte le altre centinaia di delitti che ha commissionato lo avrebbero comunque costretto in carcere per il resto della vita. E allora: perché lo colpisce quella analisi sulle origini catanesi della trattativa tra Stato e mafia e perché ci tiene a ribadire che lui le stragi non le avrebbe volute, manifestando risentimento verso i corleonesi? Il rammarico non è per la condanna, ma per il fallimento di un progetto. Si arrabbia perché capisce che quelle stragi hanno mandato a monte un suo disegno, rispetto al quale persino i corleonesi, rozzi e violenti, erano solo strumenti. Quel progetto era cominciato con Giuseppe Calderone – prima suo amico e poi rivale di cui aveva ereditato i suoi rapporti – diretti e indiretti – con gli uomini che contavano e con tutto l’establishment cittadino, dai poteri economici a quelli istituzionali: magistrati, imprenditori, forze di polizia. La tappa finale era la creazione del rapporto stabile mafia-Stato: l’unica vera simbiosi per rendere invincibile Cosa nostra e munirla di adeguati strumenti di ricatto.
Senza le stragi e senza l’omicidio Dalla Chiesa che lo aveva portato allo scoperto, chi avrebbe mai potuto individuare e arrestare Nitto Santapaola? Immaginiamo le lancette dell’orologio che tornano indietro al 1982, ipotizzando per un attimo che da quel momento in avanti non sarebbero stati commessi i delitti eccellenti. Nitto era il re della Cosa nostra che dialoga con lo Stato, corrompe funzionari, fa divertire i catanesi, assicura un ordine pubblico parallelo. Nessuno a Catania si sarebbe preoccupato di lui se Giovanni Falcone non gli avesse spiccato un mandato di cattura da Palermo dopo l’omicidio del Generale dei Carabinieri. E se i corleonesi non avessero continuato a seminare terrore avrebbe governato in santa pace su Catania. Nella sua cella al 41bis, quel libro che ha tra le mani svela la sua strategia e lo proietta con la mente dentro un romanzo di fanta mafia. Immagina lo scenario alternativo in cui si sarebbe realizzato il suo progetto: si vede in vestaglia di seta a ricevere a casa amici e imprenditori; poi a volare in tutta Europa su un jet per concordare direttamente coi responsabili delle più importanti case automobilistiche la nascita di un nuovo show room da 20.000 metri quadrati al centro della città e magari anche un centro commerciale; a seguire l’andamento degli affari nelle discoteche e gestire il monopolio del gioco, magari facendo aprire un casino’ in Sicilia, grazie agli appoggi politici. Un vero paradiso della mafia, dove tutto sarebbe possibile sotto gli occhi dello Stato, perché tanto toghe e divise quando era libero preferiva averle alleate. È un sogno che dura qualche istante. Ma poi all’improvviso c’è il risveglio, la delusione e la rabbia. E così – hanno concluso Bongiovanni e El Sadi interpretando le parole del magistrato Ardita contenute nel suo libro – Nitto Santapaola è costretto a riconoscere che quell’alleanza coi viddani è stato un pessimo affare e forse sarebbe stato più conveniente attendere che Calderone morisse di morte naturale o gli cedesse lo scettro dopo essere andato in pensione. I giornali avrebbero continuato a scrivere che a Catania la mafia non c’era e Cosa nostra ai piedi dell’Etna avrebbe comandato indisturbata e sconosciuta chissà per quanti anni ancora”.


fonte: antimafiaduemila.com

Il video integrale della diretta streaming!




A Catania, la meglio Magistratura

di Saverio Lodato



Avrei voluto essere con voi, questa sera, a Catania, ma anche se non mi è stato possibile, intendo dire poche parole su questa serata che si preannuncia eccezionale.
Eccezionale, sotto tanti profili.

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Foto © ACFB/Jacopo Bonfili