La Trattativa Governo-Detenuti: Nino Di Matteo non ci sta

di Saverio Lodato
C’è una trattativa permanente fra la popolazione carceraria e i governanti del nostro paese. Con maggiori o minori affinità elettive, a seconda del colore del governo in carica, ma lo scopo, unanimemente riconosciuto, è quello di una convivenza stabile che stia bene a tutti. In primo luogo, ai detenuti.
Un equilibrio, per forza di cose, delicatissimo, che può essere messo in discussione quando semplici scosse telluriche si possono trasformare in violentissimo terremoto. Eventualità che, chi sta al governo, fa le umane e le divine cose per evitare.
Oggi parleremo allora di Nino Di Matteo e del suo intervento a Non è L’arena. Dove è intervenuto per raccontare del dietrofront del ministro di grazia e giustizia, AlfonsoBonafede che, mentre in un primo tempo gli aveva proposto di dirigere il Dap, a tempo record poi se ne pentì. Mentre il tam tam delle carceri faceva sapere che i detenuti non gradivano Di Matteo su quella poltrona.
E del conduttore Massimo Giletti, che ha sollevato il caso di una quarantina di mammasantissima, criminali da strada, soldati delle più disparate organizzazioni criminali, rimessi in libertà nel disinteresse generale, approfittando della foglia di fico del coronavirus. Parleremo del ministro Bonafede. Anche lui intervenuto nella trasmissione di Giletti per negare di essersi fatto impressionare dal tam tam carcerario sul nome di Di Matteo. Cerchiamo di andare un po’ a ritroso.
Prendiamo il caso della rivolta nelle carceri, che iniziò il 7 marzo, e provocò una quindicina di morti e danni per milioni e milioni di euro. Non prendiamoci in giro. Il fatto che la rivolta si estese contemporaneamente alla maggior parte degli istituti di pena – nello stesso giorno, alla stessa ora, minuto più minuto meno – (scosse telluriche che, per l’appunto, si fecero terremoto) si spiega solo con la disponibilità dell’uso dei cellulari da parte dei detenuti.
Tutti negheranno. Tutti diranno che ci vogliono le prove. Tutti diranno che è una cosa che non sta né in cielo né in terra. Fidatevi: nelle carceri italiane i cellulari circolano in assoluta tranquillità.
Prova ne sia che il procuratore capo di Catanzaro, Nicola Gratteri, intervistato in televisione, ha fatto una proposta semplice semplice: inibire, nelle carceri, la ricezione del segnale. Ma siccome c’è la trattativa di cui sopra, si spiega benissimo perché la proposta rimanga lettera morta. E tale rimarrà.
A spiegazione, invece, di molti di quei decessi, nella rivolta carceraria, scatenata – non dimentichiamolo – dall’abolizione dei colloqui con i parenti a causa del contagio del virus, si parlò di overdose, in seguito all’assalto delle farmacie nei penitenziari. La pezza sembrò peggiore dello strappo. Se ne doveva forse dedurre che i parenti fanno entrare in carcere le modiche quantità per i loro congiunti? E, venute meno le quali, partì l’assalto alle farmacie? Non lo sappiamo. Sia come sia, dopo ventiquattr’ore nessuno ne parlò più.
Veniamo al punto. Che volevano i carcerati? O meglio: che volevano i capi della rivolta carceraria? O meglio ancora: che volevano mafiosi, camorristi e ndranghetisti che, da che mondo è mondo (anche se vi diranno che non è così), la fanno da padroni nelle carceri italiane?
Volevano uscire. Tornare a casa. Chiudere con la parentesi carceraria. E il coronavirus era il ghiotto bingo da non perdere.
Non è forse quello che è accaduto?
Da Pasquale Zagaria, a scender per li rami, pronube il coronavirus (che nella faccenda non c’entra nulla), un bel drappello di detenuti è tornato a casa.
E’ merito di Giletti aver scagliato il sasso della polemica televisiva, visto che nessuno sembrava essersi accorto di nulla.
Apparentemente, le carte sono tutte a posto; par di capire. Anche se ne sono scaturite le dimissioni del capo del Dap, Francesco Basentini (come mai se tutto era regolare?). E le successive nomine di Dino Petralia e Roberto Tartaglia alla guida del Dap.
Ora l’Italia scopre il fattaccio. Per la verità Nino Di Matteo aveva parlato chiaramente e in tempi non sospetti.
Sia della rivolta nelle carceri, ipotizzando che i boss ne fossero gli ispiratori, sia in occasione della liberazione del boss Francesco Bonura, mettendo in guardia da un possibile “liberi tutti”. E ne aveva parlato persino al CSM. Ovviamente, il mondo dei media lo aveva ignorato.
In altre parole, adesso che la pentola della trattativa fra governi e detenuti è stata finalmente scoperchiata, tutti cercano di correre ai ripari.
Chi chiedendo le dimissioni di Bonafede, chi volendo invece rimettere per l’ennesima volta Di Matteo sulla graticola.
Giova ricordare che il cuore della Trattativa Stato-Mafia (materia del famoso processo in cui Di Matteo e Tartaglia, insieme a altri, furono pubblici ministeri) era rappresentato proprio dalla situazione dei detenuti, con le conseguenti richieste di cancellazione del carcere duro, il 41 bis, e di chiusura della carceri speciali di Pianosa e dell’Asinara.
La storia è sempre la stessa.
La medesima, verrebbe da dire.
E che deve rimanere coperta e sigillata. L’ex emerito Capo dello Stato, Giorgio Napolitano, docet.
Oggi il Corriere della Sera, definisce il pm Nino Di Matteo, un pm “divisivo”.
Definizione azzeccatissima.
Per Di Matteo, l’essere “divisivo”, in una materia come questa, va considerata una medaglia al valore.
D’altra parte, queste cose, i politici e i giornalisti che contano le sanno benissimo. Fanno finta di non vedere e di non sapere. Le hanno sempre sapute.
Salvo poi indignarsi a comando, meglio ancora: a tele comando, quando certe verità scomode investono direttamente i cittadini. Da qui, la necessità che ha Nino Di Matteo di “dividersi” da certi ambientini.

? Foto originale © Giorgio Barbagallo

? saverio.lodato@virgilio.it

Fonte:Antimafiaduemila