Covid-19, l’Europa unita passa dagli investimenti pubblici strategici per il Green deal

Ripartiamo anche in Italia, senza paura, dall’integrazione possibile di innovazione, ambiente e sviluppo

di
Massimiliano Mazzanti

La situazione macroeconomica europea è molto negativa e richiede importanti sostegni di politica fiscale, monetaria, investimenti in capitale umano e beni pubblici primari come sanità ed ambiente, a fini di sviluppo e riduzione del rischio di fronte a crisi sistemiche.

Il Pil cresce del 1.2%, in Germania e Italia dello 0.5 e 0.2%, la disoccupazione è in media del 7.5%, a livelli ancora altissimi dopo la crisi del 2009, con valori di 8, 10 e 14% in Francia, Italia e Spagna. L’inflazione ancora intorno al 1% testimonia un basso livello di sostegno a investimenti e consumi. Le emissioni di CO2 sono ridotte del 20% rispetto al 1990, ma ancora distanti dal 40% dell’obbiettivo 2030.

Il lettore attento osserverà che questi dati non sono quelli attuali, sono più positivi di quelli che si presentano nella primavera del 2020: vero. Tuttavia, ciò che affermo all’inizio rimane significativo. La situazione macroeconomica di fine 2019 era già negativa, e già necessitava, da anni, di politiche fiscali e investimenti di emergenza. Politiche fiscali e investimenti che oggi più o meno tutti supportano e invocano per affrontare la crisi Covid-19, ma che erano necessari nel decennio passato per ridurre l’elevata disoccupazione europea. Investimenti sostenuti in modo primario dallo Stato che possono condurre a crescita e sviluppo, con un ruolo attivo della finanza pubblica.

Investimenti in innovazione, scuola, ricerca, sanità ed altri beni pubblici che sono le vere leve di crescita e sviluppo, a differenza delle ‘riforme strutturali’ (che a differenza del termine ‘investimenti’ non è chiaro cosa siano), che ancora nel cuore della crisi Covid-19 sono già richiamate[1].

A fine 2019 e inizio 2020, in una situazione macroeconomica piena di ombre, si discuteva, tra le altre strategie di rilancio degli investimenti, di Green new deal e di una nuova strategia sull’economia circolare.

Il rischio (è già avvenuto nel post 2009) è che si riaffermi ora il conflitto tra economia e ambiente, e si scelga, per ripartire, nelle fasi 2 e 3 e seguenti, un approccio ‘quick and dirty’. Pur nelle tragiche difficoltà sanitarie ed economiche, occorrerebbe mantenere[2] il Green deal e le politiche di decarbonizzazione ed economia circolare come investimenti strategici per aumentare crescita, sviluppo e resilienza di lungo periodo del sistema.

Gli extra deficit pubblici e gli investimenti europei (Bei, etc.) devono e possono ora contenere ampi spazi per coprire i gap sostanziali di molti paesi nelle spese di sanità, scuola e ricerca. Le spese di ricerca e sviluppo sono deficitarie, le spese europee in sanità ferme ai livelli del 2011, come le spese in protezione ambientale (0.8% del Pil), le spese in education addirittura ridotte dal 2011.

Extra defict che dovrebbero essere finanziati da un portafoglio di azioni fiscali (fisco più progressivo, spostamento fiscalità da lavoro a ‘cose’, tasse di scopo, riduzioni sussidi ambientalmente dannosi) e soprattutto da un nuovo ruolo della Bce a forte e costante supporto dei titoli di Stato e dei debiti pubblici. Essendo la Bce, attuale o meglio riformata – à la Fed – autorevole ed efficace, in modo un po’ paradossale può aiutare a raggiungere quell’unità europea tanto faticosamente ricercata.  Un’unità che passa attraverso il sostegno ad investimenti pubblici strategici.

Un pensiero finale all’Italia. L’Italia, Paese con forti criticità macroeconomiche, non deve temere il conflitto tra economia e ambiente. Imprese, sindacati, lavoratori e consumatori possono avere opportunità da un nuovo Green deal che si basi su innovazione e formazione.

Il sentiero delineato prima della crisi Covid-19 era accidentato e pieno di buche da coprire, ma le performance ambientali su economia circolare e decarbonizzazione, in gran parte grazie alla capacità innovativa del sistema socio-economico, davano alcuni segnali incoraggianti. Ad esempio, sugli indicatori di uso efficiente delle risorse l’Italia era ai primi quattro posti in Europa. E anche nell’ambito delle riduzioni di emissioni di CO2, l’Italia presenta una riduzione del 17% (2017-1990), più elevata di paesi quali Francia e Olanda nei 27 anni, e più elevata di quella europea, svedese e tedesca nel 2010-2017, dove la riduzione italiana vede un’accelerazione dopo anni di stagnazione.

Ripartiamo, senza paura, dalla possibile integrazione di innovazione, ambiente e sviluppo. Devono rimanere ed essere pilastri delle nuovi ‘fasi’ del 2020, e oltre.

fonte: greenreport.it