Caro Travaglio, sul caso Bonafede non solo fake news
Ecco perché il ministro della Giustizia deve dimettersi
di Giorgio Bongiovanni
Guardando
le recenti evoluzioni del caso delle scarcerazioni dei boss mafiosi
(anche detenuti al 41 bis), attraversato dal confronto in diretta
televisiva a Non è L’Arena tra il consigliere togato del Csm Nino Di Matteo ed il ministro della giustizia Alfonso Bonafede,
e dopo aver letto gli svariati commenti, opinioni, interventi, in
Parlamento, sui giornali ed in televisione, è necessario tornare su
alcuni punti che, a differenza di quanto viene sostenuto anche da
giornali come Il Fatto Quotidiano, ed in particolare in alcuni editoriali del direttore Marco Travaglio, non sono “Fake news” né questioni frutto di ricostruzioni da “giornalismo complottista” che si affida ad illazioni.
Lo
diciamo subito, per sgomberare il campo dai soliti malpensanti: il
centro destra intero, da Forza Italia-Lega-Fratelli d’Italia, così come
fa Italia Viva di Renzi, sta chiaramente “usando” i fatti raccontati da
Di Matteo per dare una spallata al governo, ma sottobraccio continua ad
osteggiare il magistrato, il suo lavoro e la sua persona. Basti andare a
risentire l’intervento del senatore forzista Costa durante il question
time, con il suo sproloquio di insulti paragonabile a quelli che da
sempre compaiono sui soliti giornaloni (Il Foglio, il Riformista, il Giornale e così via).
Da
loro, da tempo, è stata avviata una campagna di isolamento nei
confronti del magistrato condannato a morte dal Capo dei Capi, Totò Riina, da Matteo Messina Denaro e quindi da tutta la mafia.
E
ad ogni fiato del magistrato si impegnano a puntare il dito, a
delegittimare, ad accusare ed infangare. Quegli stessi giornali avevano
iniziato a mettere in giro la fake news (questa sì) che Di Matteo sarebbe stato il nuovo capo del Dap dopo le dimissioni di Francesco Basentini.
Nei
giorni scorsi, però, abbiamo constatato come l’isolamento sia arrivato
inaspettatamente anche dal “fuoco amico” solo per aver riacceso un faro
su alcuni fatti che erano più o meno noti all’opinione pubblica.
Non
ci sono equivoci, né calcoli, né vendette: ma la semplice volontà di
fare chiarezza su una ricostruzione che in diretta televisiva veniva
espressa in maniera fuorviante anche a causa delle parole dette da uno
dei membri dello stesso Movimento 5 Stelle (Dino Giarrusso).
Ed è altrettanto fuorviante fare ricostruzioni, come avvenuto durante la puntata di “Accordi&Disaccordi”, il talk show politico condotto da Andrea Scanzi e Luca Sommi, in onda su Nove, facendo riferimento ad alcune parole del giudice estrapolate da un articolo del Corriere della Sera (“Ho
esposto dei fatti, non percezioni. Non so se sia stata una scelta
autonoma o indotta da altri. Non faccio illazioni, ognuno può trarne le
conseguenze che crede. Io non ho secondi fini, come non ne avevo quando
fui contattato dal ministro. Fu lui a cercarmi, non io”) senza considerare quanto da lui stesso affermato in un’intervista successiva a La Repubblica.
Anche in questo caso, nell’ottica di un confronto, diciamo che non siamo affatto d’accordo con quanto detto da Marco Travaglio nel momento in cui ha affermato che quelle di Di Matteo sono “illazioni” ed ha asserito che il magistrato
“ha fatto un pessimo servizio a se stesso perché adesso quelli che lo
accusavano di acchiappare fantasmi quando faceva i processi, invece i
processi li faceva sulle prove e infatti otteneva le condanne, vedi
Trattativa, adesso dirà: ‘O Dio, non avrà mica fatto i processi con lo
stesso modo di ragionare?’. Questo innanzitutto danneggia lui. Quindi,
secondo me, sarebbe meglio che un magistrato ci dicesse sempre quello
che sa, quello che vede e quello che può documentare, ma l’espressione
‘qualcuno’, ‘non so se lui o qualcun altro’, ecco queste sono cose che
non appartengono alla cultura della giustizia e della magistratura che
deve basarsi sempre sulle prove”.
Un passaggio infelicissimo,
se non grave, nel momento in cui si squalifica, di fatto, la
professionalità e la storia stessa del pm. L’elemento in più, di cui non
si è tenuto conto nella ricostruzione del programma, è quanto
dichiarato da Di Matteo a La Repubblica, dove ha spiegato il motivo per cui rimase turbato dal dietro front (“Prima
una proposta, poi un’altra. Da allora mi sono sempre chiesto cos’era
accaduto nel frattempo. Se, e da dove, fosse giunta un’indicazione
negativa, magari uno stop degli alleati o da altri, questo io non posso
saperlo”) aggiungendo che, nel secondo incontro, il ministro disse che “per gli Affari penali ‘non c’è dissenso o mancato gradimento che tenga’”.
È
da qui che nasce la considerazione che “qualcuno” possa aver “indotto”
il ministro nella sua scelta. Un legittimo sospetto accompagnato dalla
certezza che in carcere i boss mafiosi si erano contrariati alla sola
voce che lo stesso magistrato potesse essere nominato al Dap.
Quel
legittimo sospetto che trova fondamento in alcuni indizi che non possono
essere trascurati dai cittadini, figurasi per un magistrato che ha
condotto decine e decine di inchieste, come ha ricordato Travaglio,
ottenendo importanti condanne come quella in primo grado sulla
trattativa Stato-mafia, ma anche sentenze definitive nei processi sulle
stragi Chinnici, via d’Amelio e tanti, tanti, delitti di mafia, o contro
il Presidente della Regione Totò Cuffaro, per citarne alcuni.
Farsi
domande, e porle, è un dovere specie laddove, da due anni, non si è
avuta ancora chiarezza su determinate scelte. Perché spesso si dimentica
che la vicenda delle parole dei boss che non volevano Di Matteo, seppur
non palesata come è avvenuto in queste settimane, era già emersa,
riportata da questo giornale, dall’Espresso e dal Fatto Quotidiano, e non fu mai smentita dalle parti di via Arenula.
Nino Di Matteo
Mancate spiegazioni
Noi
non riteniamo, e non abbiamo detto, che il ministro è stato certamente
spinto dalla mafia. Ma evidenziamo una lunga serie di errori
macroscopici che dimostrano come sul fronte della lotta alla mafia, ed
in particolare sulla gestione dell’emergenza sanitaria nelle carceri,
che ha portato alla fuoriuscita di pericolosi boss, vi sia stata
un’incompetenza ed una mediocrità che vanno oltre la semplice
disattenzione. Errori che sono iniziati proprio due anni fa a partire
dalla scelta del capo del Dap, e che sono perdurati nel tempo.
Nonostante
vi siano state informative in Parlamento, question time, interviste,
dichiarazioni a caldo e a freddo, lo affermiamo con forza: non siamo
soddisfatti delle risposte ricevute e il ministro della giustizia, per
noi, deve dimettersi.
Cercheremo di spiegare, ancora una volta e con
dovizia di particolari, il perché siamo giunti ad una conclusione così
estrema e decisa.
Partiamo dalla prima domanda: perché il ministro Bonafede ha scelto Francesco Basentini al posto di Nino Di Matteo, tornando sui suoi passi sulla prima proposta fatta?
Abbiamo
compreso che il ministro Bonafede ne rivendica la scelta e la
legittimità della propria discrezionalità (addirittura affidandosi, per
il curriculum, al dato che “aveva raggiunto considerevoli risultati a
livello di efficienza”, indicato in una relazione annuale della
Direzione nazionale antimafia), ma non ha spiegato su che base ciò è
avvenuto nell’arco di 24 ore.
Non possiamo credere che sia tutto il
frutto di un equivoco (come si continua a far credere). Perché è
un’offesa all’intelligenza dei fatti. In primis perché non si può
equiparare l’Ufficio affari penali di oggi con quello che fu di Giovanni Falcone ai tempi in cui ministro era Claudio Martelli.
In
secondo luogo perché Bonafede, come ha ammesso lui stesso, era al
corrente della rabbia dei boss nelle carceri, e non vi poteva essere un
miglior “segnale chiaro e inequivocabile alla criminalità organizzata” (per
usare le parole del ministro mentre giustificava la sua visione di
inserire Di Matteo agli affari penali) se non quello di puntare proprio
su Di Matteo come al capo del Dap, proprio perché erano loro (i mafiosi)
ad aver detto che non lo volevano. È una questione di logica.
A
coloro che hanno pensato che da parte di Di Matteo vi siano stati
secondi fini nel suo intervento, il presupposto è totalmente campato in
aria nel momento in cui la trasmissione si è tenuta dopo la nomina del
nuovo capo del Dap.
Il fallimento di Basentini nelle carceri
Oggi
è evidente che, sul tema carcerario, si è giocata una partita che il
governo, nella migliore delle ipotesi, non ha saputo comprendere, nella
peggiore non ha voluto. Perché le pezze, che hanno permesso di fermare
quella che il Procuratore nazionale antimafia Federico Cafiero de Raho
ha definito “un’emorragia di scarcerazioni”, sono giunte solo a partire
dal 30 aprile, con Basentini già dimesso (che è stato sostituito la
scorsa settimana con Dino Petralia), con la nomina di un ottimo magistrato come Roberto Tartaglia
come vice-capo del Dap, fino ad arrivare all’ultimissimo decreto legge
che interviene offrendo strumenti migliori che possono permettere ai
Tribunali di sorveglianza, ai magistrati e ai giudici che hanno emesso
le ordinanze di sospensione della pena anche a detenuti di primissimo
piano, di rivalutare le proprie decisioni.
Gli elenchi li
conosciamo. Il numero finale raccolto dal Dap e giunto agli uffici di
via Arenula parla di 498 scarcerazioni (tra 41 bis ed Alta sicurezza).
Il dato che possiamo cogliere è che nell’ultima settimana vi è stata un’unica scarcerazione, grazie anche al lavoro fine di Roberto Tartaglia,
a dimostrazione che l’indirizzo politico è stato recepito. Così come è
importante il passaggio in cui si “modifica il regime relativo al
beneficio della detenzione domiciliare per gli imputati in custodia
cautelare e per i condannati, nonché, per questi ultimi, a quello del
differimento della pena, nei casi di reati associativi a fini
sovversivi, di terrorismo, di tipo mafioso o connessi al traffico di
stupefacenti. Il testo prevede che, nel caso in cui tali benefici siano
concessi per motivi connessi all’emergenza sanitaria da Covid-19, il
magistrato di sorveglianza o il tribunale di sorveglianza che ha
adottato il provvedimento, acquisito il parere del Procuratore
distrettuale antimafia del luogo in cui è stato commesso il reato e, in
specifici casi, del Procuratore nazionale antimafia e antiterrorismo,
valuta la permanenza dei motivi legati all’emergenza sanitaria entro il
termine di quindici giorni dall’adozione del provvedimento e,
successivamente, con cadenza mensile”. Bene, benissimo. Ma tutto questo
avviene dopo un gravissimo ritardo, che c’è oggettivamente stato, e che è
oggetto di valutazione nell’individuazione della responsabilità su
quanto avvenuto, ovvero che in due mesi e mezzo sono uscite dal carcere
ottomila persone, diminuendo il sovraffollamento carcerario, e tra
questi vi sono anche i 500 detenuti tra 41 bis ed alta sicurezza.
Su
questo si deve fare una valutazione che riguarda tutte le componenti:
quella della magistratura, degli uffici delle carceri, del ministro
della Giustizia a cui essi fanno riferimento.
Alfonso Bonafede
La responsabilità dei giudici
Marco Travaglio
ha detto, tra le altre cose, che il governo non ha nulla a che vedere
con le scarcerazioni in virtù del fatto che le decisioni sono dei
giudici che emettono sentenze ed ordinanze nel pieno rispetto della
propria autonomia ed indipendenza. Chi afferma il contrario, è ovvio,
dice una bugia.
Personalmente aggiungiamo anche che, rispetto alle scarcerazioni
di massa che vi sono state, un peso potrebbe averlo avuto anche
l’indicazione trasmessa i primi di aprile dal procuratore generale della
Cassazione Giovanni Salvi a tutte le Procure generali d’Italia con cui si suggeriva
“l’opportunità di valutare le diverse opzioni che la legislazione
vigente mette a disposizione per ridurre la popolazione penitenziaria”.
È esattamente quello che è avvenuto con provvedimenti che, è stato
evidenziato più volte, definire “bislacchi” è un eufemismo. Basti
pensare al boss Francesco Bonura, passato dal 41 bis ai
domiciliari nella propria abitazione a Palermo, con tanto di
autorizzazione ad uscire dal domicilio per accompagnare i propri
familiari dal dentista o in altre visite mediche, e a recarsi fuori
Palermo per partecipare a matrimoni, battesimi, funerali, nonché ai
festeggiamenti del “25 e 26 dicembre, della domenica di Pasqua e lunedì
dell’Angelo”.
Però c’è anche un altro “ma” che va considerato. E lo hanno affermato una lunga serie di addetti ai lavori (lo stesso Di Matteo, Sebastiano Ardita, Nicola Gratteri,
per citarne alcuni) che in questi mesi hanno lanciato più di un allarme
su quanto sarebbe potuto avvenire anche alla luce di alcuni
provvedimenti governativi.
Il Cura Italia
I
giornali più vicini al centrodestra, così come i leader politici, in
maniera falsa e tendenziosa hanno cercato di far credere che con il decreto Cura Italia, del 17 marzo 2020,
il governo avesse aperto le porte delle carceri ai mafiosi. Nel testo
si prevedeva che potesse essere ottenuta la detenzione domiciliare dai
detenuti che devono scontare una pena – o residuo di pena – fino a 18
mesi, ma con una procedura semplificata. E dalla norma si escludevano
quei soggetti che avevano commesso reati particolarmente gravi, come ad
esempio quelli richiamati dall’articolo 4 bis dell’ordinamento
penitenziario, maltrattamenti in famiglia o stalking, e coloro
che abbiano partecipato alle rivolte nelle carceri i primi di marzo.
Tutto vero, ma è nelle pieghe di questo provvedimento che si è insinuato
il presupposto che ha poi permesso anche ai detenuti mafiosi di uscire.
A sostenerlo, come ricordavamo, anche magistrati di altissimo rilievo. Uno su tutti Sebastiano Ardita, che sul tema carcerario non è certo l’ultimo arrivato.
Le scarcerazioni e la responsabilità politica
Ardita,
analizzando i fatti (per chi volesse ricordiamo due
interventi-interviste con le associazioni Agende Rosse e Memoria e
Futuro), ha ricordato un aspetto centrale. Perché è vero che, nel
rispetto dell’autonomia e dell’indipendenza del giudice, a decidere sono
stati i giudici di Sorveglianza, anche con provvedimenti paradossali ed
illogici (vedi quelli riguardanti Francesco Bonura o Pasquale Zagaria,
per citare alcuni dei più clamorosi) laddove, pur basandosi su norme
ordinarie e principi costituzionali sul diritto alla salute, hanno fatto
un chiaro riferimento all’emergenza pandemica, ritenendo che i detenuti
(persino i mafiosi detenuti al 41 bis ed in alta sicurezza, sia
condannati definitivi che in attesa di giudizio) siano più al sicuro
fuori dal carcere che dentro.
Un dato totalmente smentito dai numeri diffusi dal Garante dei detenuti che ha parlato di 159 su 62 mila detenuti.
Il
presupposto del rischio contagio del Covid-19 è quello che ha portato
il governo ad adottare un provvedimento, il Cura Italia appunto, che
riguardava sulla carta una popolazione di circa 6000 detenuti,
considerato come misura idonea a garantire la salute degli stessi.
Il
problema è che ciò si è detto senza nessuna base scientifica, senza
nessuna relazione tecnica o uno studio reale sui rischi effettivi,
diversamente alimentando l’idea che in carcere ci fosse il pericolo di
diffusione del virus in misura maggiore rispetto all’esterno.
E già
qui c’è una prima responsabilità politica. Perché il Dap, il
dipartimento che risponde al ministero della Giustizia, ha compiuto una
lunga serie di errori per quel che concerne proprio la gestione
dell’emergenza pandemica.
Mancata comunicazione e scontri
Nei
giorni scorsi il ministro Bonafede ha fatto il lungo elenco delle cose
fatte durante la gestione Basentini in questi due anni, ma è un dato di
fatto che nei circuiti di Alta sicurezza e 41 bis vi erano dei problemi.
Tanto che, nel dicembre 2019, presso gli uffici della Procura nazionale
antimafia, sul punto vi fu una riunione a cui parteciparono diversi
capi delle Procure italiane ed anche lo stesso Basentini.
Ma torniamo alla pandemia.
Da
gennaio 2020 già si parlava dell’emergenza con una proiezione del
rischio in termini catastrofici sul piano dell’intero territorio
nazionale. Il governo è intervenuto con misure straordinarie, con un
primo Dpcm anti-coronavirus in cui si determinavano le sospensioni dei
colloqui con i familiari (sostituendoli con collegamenti Skype o
telefonici) fino al 31 maggio 2020. È bastata quella notizia per far
scattare in contemporanea, in più istituti italiani, una serie di
rivolte in cui sono morti 14 detenuti (si dirà per overdose) con danni
milionari.
In quei giorni il Procuratore capo di Catanzaro, Nicola Gratteri, in un’intervista a Il Fatto Quotidiano, evidenziava la mancanza di progettualità per affrontare il sovraffollamento e al contempo denunciava: “Uno
Stato moderno ed europeo non può permettersi di dare un messaggio di
cedimento a chi ha organizzato rivolte, ha fatto danni per milioni, ha
usato violenza nei confronti degli agenti della polizia penitenziaria.
Non può mostrare di cedere al ricatto e premiare la violenza. Sarebbe,
in piccolo, ripetere quello che lo Stato ha fatto dopo le stragi di
mafia, quando a molti mafiosi è stato tolto il carcere duro, il 41 bis”.
Eppure la risposta a quelle rivolte fu il Cura Italia.
Al
contempo il Dap di Basentini (l’uomo scelto da Bonafede al posto di Di
Matteo, di cui oggi il ministro ha rivendicato in Parlamento la propria
discrezionalità della scelta) dimostrava una mancanza di programmazione.
“Quello che bisognava garantire – ha ricordato Ardita anche di recente – era
una condizione di sicurezza sotto il profilo sanitario-epidemiologico
che riguardava la generalità di detenuti rispetto al rischio di contagio
e i singoli sottoposti a cure mediche essendo soggetti malati. Quindi
qui il problema sta proprio nel fatto che evidentemente la parte
governativa del Dap non è riuscita a garantire le condizioni di
sicurezza dal punto di vista epidemiologico e sanitario”. Un dato di fatto se si analizza anche la vicenda della famosa circolare del 21 marzo 2020.
La circolare del 21 marzo
Purtroppo non è una fake news o una semplicistica “vulgata” il dato che la stessa abbia avuto un peso. Dice Gian Carlo Caselli, in un’intervista a La Stampa: “Per
difetti di comunicazione sulle sue precise finalità, è stata
interpretata come predisposizione di una specie di ‘lista d’attesa’ di
scarcerandi. Di qui una corsa alle domande e alle scarcerazioni che sono
diventate una slavina”.
Noi quel documento lo abbiamo letto e
ci siamo fatti un’idea. È vero che la parola scarcerazioni non è citata
ma, leggendola, è implicita nel momento in cui si dà indicazione ai
direttori delle carceri di comunicare “con solerzia alla Autorità
giudiziaria, per le eventuali determinazioni di competenza”, il
nominativo di quei detenuti che hanno più di 70 anni e sono affetti da
determinate patologie.
Non era dunque una semplice circolare di
monitoraggio. Non si parla di scarcerazione ma è implicito perché, senza
distinguere la tipologia del detenuto, di fatto si scarica sul
magistrato di sorveglianza la gestione dell’emergenza. Come a dire: “Io
ti ho avvisato che tale detenuto è affetto da questa determinata
patologia che aumenta il rischio contagio per il Covid-19. Ora veditela
tu”. E non è un caso se per ben 60 dei 376 scarcerati della prima
lista inviata al ministero non vi è stata un’istanza di scarcerazione
degli avvocati, ma una segnalazione della direzione. Così è tornata a
casa Rosalia Di Trapani, la moglie di Salvatore Lo Piccolo, e sarebbe potuto tornare a casa Nitto Santapaola,
se non fosse che il Tribunale di Sorveglianza di Milano ha ritenuto che
il capomafia catanese fosse più protetto in carcere, dove è ristretto
al 41 bis, che a casa. Un aspetto curioso, tenuto conto che per
Francesco Bonura la valutazione è stata differente.
Purtroppo la
circolare del 21 marzo viene citata anche in maniera esplicita, nei
provvedimenti. Si può leggere quello adottato nei confronti del boss di
Camorra Michele Zagaria e in quello di Angelo Porcino, importante mafioso di Barcellona Pozzo di Gotto.
Un altro magistrato autorevole come Alessandra Dolci, Procuratore della Repubblica Aggiunto presso il Tribunale ordinario di Milano, in un articolo apparso in “Giurisprudenza penale 5/2020
ha spiegato come “tale nota, inopportunamente, non distingue tra
detenuti comuni, detenuti in alta sorveglianza e detenuti in regime di
cui all’art. 41 bis. Ord. pen.”. Inoltre ha evidenziato come “Neppure il
D.A.P. ha sollecitato i direttori degli istituti a comunicare quali
misure erano state adottate per evitare il pericolo di contagio, ma le
diverse condizioni di detenzione dovrebbero pur sempre essere oggetto di
valutazione da parte del giudice, il quale avrebbe ben potuto
richiedere informazioni ulteriori”.
Le medesime considerazioni le aveva fatte nei giorni scorsi, proprio a Il Fatto Quotidiano.
Critiche a quella medesima nota sono state rivolte dal Procuratore nazionale antimafia, Federico Cafiero de Raho. “L’amministrazione penitenziaria – diceva il magistrato qualche giorno fa – ha lasciato intendere di non essere in grado di escludere il rischio spostando la responsabilità sui tribunali” rilevando che “i detenuti potevano essere assegnati a centri di cura penitenziari”. Inoltre aggiungeva che “di questa nota la Direzione nazionale antimafia ha appreso l’esistenza solo il 21 aprile”,
quando già i primi boss erano tornati a casa.
La “festa” si è
interrotta nel momento in cui gli addetti ai lavori, i familiari vittime
di mafia, la stampa e la società civile si sono sollevate in coro
chiedendo uno stop.
Ed è proprio de Raho ad aver richiamato l’attenzione del ministro della Giustizia, chiedendo di “ricevere le istanze di scarcerazione inoltrate ai Tribunali di sorveglianza per poter esprimere un parere”.
È così che si è arrivato al primo decreto con cui si rendeva
obbligatorio il parere delle Direzioni distrettuali antimafia (per i
detenuti per mafia e terrorismo) e della Direzione nazionale (per i
detenuti al 41-bis).
Dino Petralia e Roberto Tartaglia
Perché le dimissioni
A
nostro parere, alla luce di quanto era avvenuto già ai primi di marzo,
con gli scontri negli istituti penitenziari, un ministro della giustizia
serio, competente e determinato nella lotta alla mafia avrebbe dovuto
monitorare ogni singolo passo del Dipartimento amministrazione
penitenziaria.
Si sarebbe dovuto intervenire immediatamente per
revocare quella circolare, emanandone un’altra di segno opposto che
indicasse alle Autorità Giudiziarie competenti (magistrati di
sorveglianza e tribunali ordinari) di avere un’attenzione maggiore per i
detenuti per mafia e al 41 bis riferendo tutte le misure che sono state
adottate per fronteggiare l’emergenza sanitaria e lo stato della
situazione epidemiologica dei singoli istituti di detenzione. E
riservarsi di segnalare invece solo le esigenze straordinarie di salute
eventualmente valutabili ex art. 275 co. 4 bis cpp per la sostituzione
delle misure della detenzione carceraria.
Tutto questo non è stato fatto.
Se
il ministro era a conoscenza di quella circolare già dal 21 marzo, o ne
aveva appreso l’esistenza solo dopo, il 21 aprile, non è dato saperlo.
Sia nell’uno che nell’altro caso si palesa comunque una responsabilità
politica che viene riconosciuta ulteriormente anche nel momento in cui
si è dimesso l’uomo da lui scelto per dirigere il Dipartimento.
Nell’informativa
in Parlamento, sulla vicenda della nomina del capo del Dap, Bonafede ha
rivendicato le recenti iniziative di governo, come il cambio dei
vertici del Dap (Dino Petralia come capo e Roberto Tartaglia
come vice), l’emissione della circolare del 30 aprile con cui si
specifica che per le eventuali scarcerazioni di boss detenuti al 41 bis e
in Alta sicurezza, è necessario il parere della Procura nazionale
antimafia e della Dda di competenza, o il Decreto legge che di fatto
impone ai Tribunali di Sorveglianza di “rivalutare l’attuale persistenza
dei presupposti per le scarcerazioni dei detenuti di alta sicurezza e
al 41 bis” alla luce della nuova “fase” in cui è entrata l’emergenza
sanitaria.
Un segnale anche politico. Tanto che nelle ultime
settimane il numero delle scarcerazioni si è quasi azzerato (è notizia
di oggi il “no” alla scarcerazione per il boss della Camorra, Raffaele Cutolo).
Meglio
tardi che mai, vien da dire, ma non possono essere la “foglia di fico”
dietro cui nascondere i gravissimi errori che sono stati commessi.
E
lo stesso vale per quel solito elenco di leggi e riforme (voto di
scambio, spazzacorrotti, blocca-prescrizione) che, seppur utili ed
importanti, vengono continuamente ricordate a garanzia della bontà del
proprio operato.
Perché l’emorragia è stata grave ed è noto a tutti
che anche un solo giorno di libertà basta ai boss, bravi a raccogliere
tutti i segnali che arrivano dal mondo legislativo e giudiziario, per
gioire e riaffermare la propria forza.
E l’allerta resta massima
perché dopo i quasi 500 scarcerati vi è un elenco ulteriore di boss che
dovranno essere valutati. È chiaro che a decidere è stato e sarà sempre
il giudice, e non il ministro, ma doveva esserci una presa di posizione
forte, di tipo politico, che c’è stata solo a scoppio ritardato.
L’ex ministro della Giustizia, Claudio Martelli, ha più volte raccontato come il governo di allora, dopo la morte di Giovanni Falcone,
con il decreto legge dell’8 giugno applicò delle norme “al limite della
costituzionalità”. Si dirà che al tempo lo Stato italiano era in piena
emergenza, proprio perché colpito dalle stragi di mafia, e che oggi si
vive in una situazione diversa. Tanto è vero che la lotta alla mafia
viene inserita solo al tredicesimo posto del piano di governo. Forse è
proprio questo il punto su cui si dovrebbe riflettere. A quasi 28 anni
dalle stragi vi è stato un crollo dell’attenzione pubblica e sociale
della lotta alla mafia e si dimentica la forza che hanno Cosa nostra,
‘Ndrangheta e Camorra, capaci di alterare anche una democrazia.
Alla luce di tutti questi fatti, caro Marco Travaglio noi insistiamo a chiedere le dimissioni del ministro della Giustizia Alfonso Bonafede.
Perché di fronte ai gravissimi errori commessi, i ritardi e le inerzie
non ci piacciono i compromessi o i calcoli politici. Neanche quando a
compierli sono determinati schieramenti, movimenti o partiti, che ci
possono essere più o meno simpatici di altri.
Di fronte
all’arroganza del potere non ci possono essere pesi e misure differenti.
Un’arroganza che si è mostrata in tutta la sua essenza proprio nella
vicenda della mancata nomina di Di Matteo al Dap.
Qualcuno dirà che
in questo momento far cadere il ministro della Giustizia significa
automaticamente aprire ad una crisi di governo. Questo tipo di
valutazioni non ci appartengono e paradossalmente era uno spirito che,
fino a ieri, ritrovavamo ed apprezzavamo anche leggendo Il Fatto Quotidiano.
Oggi, di fronte a difese politiche così strenue di un ministro della
Giustizia che si è dimostrato fallimentare e mediocre sulla questione
carceri e scarcerazioni, sembra che non sia più così.
Foto © Imagoeconomica/Paolo Bassani
Fonte:Antimafiaduemila