”Vittorio Arrigoni, mio figlio, un vincitore”

di Karim El Sadi
Intervista* a Egidia Beretta, madre dell’attivista italiano ucciso 9 anni fa nella Striscia di Gaza

Restiamo umani“. Con queste due parole Vittorio Arrigoni, per gli amici “Vik“, terminava i video reportage e gli articoli che scriveva di pugno dalla Striscia di Gaza, quel fazzoletto di terra dimenticata dal mondo per il quale decise di sacrificarsi nei primi anni del 2000. Un motto, il suo, che venne adottato da chi aveva a cuore i diritti umani, la difesa degli ultimi e degli oppressi. Vittorio Arrigoni era un ragazzo forte, umile, coraggioso che aveva fatto dell’amore la sua ragione di vita sin da quando era piccolo. “Noi dobbiamo seguire la via dell’amore, la via più giusta che ci spinge a morire per la salvezza degli altri“, diceva quando ancora frequentava la quinta elementare.
In occasione del 9° anniversario della sua scomparsa abbiamo intervistato la madre Egidia Beretta, donna di grande spirito e forza di volontà, per farci raccontare un po’ quella che è stata la vita di suo figlio, un vincitore “venuto al mondo col pugnetto chiuso alzato“.

“Bianco come il detersivo scaricato nei fiumi. Grigio come l’aria inquinata. Nero come la rabbia degli uomini che fanno la guerra. Verde come gli alberi che stanno scomparendo. Rosso come il sole di una volta. Giallo come le monete che i poveri sognano e che si spendono per le bombe”. Nel 1986, Vittorio aveva solo undici anni quando scrisse questa poesia dal titolo “Con gli occhi di un bambino”: uno scritto che denota la sua lucida visione del mondo già in tenera età, sicuramente dovuta ad un’educazione fatta di sani principi. Chi era Vittorio Arrigoni da bambino e da ragazzo?
Un bambino che ad undici anni scrive queste parole è sicuramente un bambino che già stava intravedendo il giusto e l’ingiusto, che stava già capendo quella che era la rabbia degli uomini nel fare la guerra e che i soldi si spendono non per i poveri, ma per le bombe. Era un bambino riflessivo, ma per il resto era un bambino come tutti gli altri: studiava, gli piaceva andare a scuola, giocava. Aveva una sensibilità particolare, forse dovuta anche al fatto che in casa si parlava di tutto questo e quindi lui, probabilmente, meditava su queste cose e le traduceva in questi versi che lasciano stupiti se riletti in un primo momento. Ma che in fondo non fanno altro che dimostrare che Vittorio sentiva già nel suo cuore quale fosse la strada giusta.

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Nei primi anni Novanta iniziano i suoi viaggi da attivista e pacifista in molti paesi del mondo: Perù, Congo, Croazia, Repubblica Ceca, Polonia, Togo… Cosa gli hanno lasciato queste esperienze?
Vittorio ha compiuto tutti questi viaggi e questi campi di lavoro internazionali inizialmente e soprattutto per andare alla ricerca di se stesso, ossia della vita. Vittorio riteneva che questa vita, che lui non aveva chiesto, ma che gli era stata donata, meritava di essere vissuta in modo degno. In effetti, con questi campi di lavoro lui si portava a casa esperienze e conoscenze nuove, anche di popoli mai visti né conosciuti se non attraverso i libri. L’esperienza di conoscere tantissime persone e tantissimi giovani che incontrava in quegli stessi campi di lavoro, e quindi uno scambio che non si è mai fermato, fatto di conoscenze, amicizie e affetto.

Poi arriva la Palestina. Cosa lo fece innamorare della Terra Santa? Cosa leggeva nei suoi occhi quando parlava di Palestina e di palestinesi?
Qui torno ancora a Vittorio bambino, quando scriveva: “Per volere la pace devo guardare intorno a me. Per vedere se tutti hanno il necessario, la gioia di vivere, la libertà di parlare, di lavorare, di pregare, di amare, proprio come me che ho tutte queste cose e vivo bene, ogni giorno”. Ecco, Vittorio in Palestina ha incrociato proprio questo: la grande voglia di libertà, di vivere la propria vita senza costrizioni, senza ingiustizie… Lui, che riteneva la libertà il sommo bene per ciascun uomo, ha trovato nella Palestina e nei palestinesi quest’ansia di libertà e di vivere nella propria terra senza oppressioni, senza ingiustizie, ed è stato inevitabile che si innamorasse della Palestina e dei palestinesi. Sentiva in loro le stese cose che lui provava.

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L’arrivo di Vittorio nella Striscia di Gaza a bordo di un’imbarcazione della Freedom Flottilla


Durante la sua permanenza a Gaza suo figlio ha dato un forte sostegno, sia fisico che morale, alla popolazione più povera della Striscia colpita dall’embargo israeliano: dai contadini ai pescatori, fino ai parenti delle vittime dei crimini israeliani. Una missione, la sua, di grande coraggio, che più volte lo ha esposto a grandi rischi. Come vivevate dall’Italia tutto questo?
Inizialmente, non c’erano questi grandi pericoli. Vittorio ci raccontava, e lo vedevamo anche dai suoi video, il lavoro che faceva con i pescatori palestinesi e i contadini palestinesi al confine. Per lui, era normalissimo ciò che stava facendo, non avrebbe potuto fare altro. Certo, quando arrivò a Gaza alla fine del 2008 e venne rapito e incarcerato dagli israeliani avevamo paura per lui. Ma Vittorio ci rassicurava, dicendo che stava bene, perché sentiva che quello era il suo posto e si dedicava con tutta la sua forza sia fisica, sia di cuore che di testa, a quello che era diventata la sua missione. E questo in fondo ci rassicurava, perché lo vedevamo e lo sentivamo sinceramente sereno e quindi capivamo che era giusto che fosse lì in quei momenti.

Oltre alle sue azioni di resistenza non violenta, Vittorio era anche uno scrittore, un poeta e un critico. Fece un grande lavoro di reportage. Nel corso della sanguinosa operazione militare israeliana “Piombo Fuso” del 2008, suo figlio fu l’unico giornalista occidentale a raccontare dal posto il massacro di civili palestinesi da parte dell’aviazione israeliana. In un mondo in cui la comunicazione sembra più centralizzata, quanto è importante la sua testimonianza controcorrente?
La sua testimonianza si è rivelata importantissima, perché durante “Piombo Fuso”, quando Vittorio fu chiamato da Il Manifesto per essere disponibile a raccontare dal posto quello che stava accadendo, capì che la sua missione era diventata quella in quei giorni. Quindi, le sue cronache così empatiche e cariche di sofferenza, ma in fondo anche di speranza e anche di critica contro questo nostro mondo occidentale che invece chiudeva gli occhi e le orecchie. Fu veramente un grido che arrivò fino a noi e Vittorio stesso mi scrisse poi che il suo blog “Guerriglia Radio” in quel mese di gennaio durante “Piombo Fuso” fu il più visitato in tutta Italia. Vittorio è quindi stato veramente un campione in questo: non ha avuto scrupoli né dubbi nel tenere in mano la penna nei suoi documentari. Mio figlio non si riteneva un giornalista, ma affermava di esserlo diventato per caso e per dovere. Il suo lavoro ha aperto gli occhi di molti altri sulla situazione della Palestina, in quel periodo a Gaza in particolare, e quindi credo che gli dobbiamo essere riconoscenti anche per questo. Voglio poi riportare ciò che Vittorio, a proposito di giornalismo, disse quando fu intervistato da una ragazza che gli chiese come si deve fare giornalismo. “Niente trucchi da quattro soldi. Dillo chiaro, dillo subito”, fu la sua risposta. Questo era un po’ il suo motto quando scriveva.

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Bombardamenti israeliani con fosforo bianco sui civili durante l’operazione “Piombo Fuso” – da theguardian.com © Mohammed Abed/AFP/Getty Images



In uno dei suoi reportage un chirurgo di Gaza si rivolse a Vittorio dicendogli che la vita degli animali, agli occhi del mondo, valeva di più di quelle dei palestinesi. E’ una visione ancora attuale secondo lei o in questi anni è cambiato qualcosa? Come vede la situazione di Gaza oggi e la marcia del ritorno?
Ti riferisci a quel pezzo terribile che Vittorio scrisse in uno dei suoi reportage dove un medico gli fece quel paragone tra le vite dei gattini e quelle dei palestinesi. Io penso che ancora oggi la vita dei palestinesi sia considerata poco o pochissimo da Israele, anche dopo tutti questi anni. Credo che se ci fosse ancora Vittorio a Gaza durante la marcia del ritorno sarebbe stato con i palestinesi, perché in fondo cosa volevano i palestinesi con questa marcia? Volevano che lo sguardo del mondo non si distogliesse dalla loro sofferenza, da questo embargo crudele che ormai colpisce Gaza da 13 anni. Quindi penso che avrebbe appoggiato la marcia e penso soprattutto che l’avrebbe documentata come sapeva fare lui, con le parole e con i video.

In molti conoscono la frase simbolo di Vittorio “Restiamo Umani”, che è anche il titolo di uno dei sui libri, ma non tutti conoscono quella che è stata la sua vita. Quale volume consiglierebbe a chi volesse conoscere il suo lascito?
Sicuramente “Striscia di Gaza, Restiamo umani” perché c’è tutto se stesso lì. E poi consiglierei il libro che ho scritto “Il viaggio di Vittorio” dove ripercorro la sua vita a cominciare dall’infanzia e le sue esperienze di viaggio dove ci sono le mail che lui mi mandava da Gaza. Questo è anche un modo per conoscere più profondamente la sua anima e capire come lui è diventato quello che tutti noi conosciamo come il Vittorio della Palestina e ancor più il Vittorio di Gaza. Poi c’è anche questo bellissimo libro scritto da Stefano Piccoli, un fumetto “Guerrilla Radio. Vittorio Arrigoni, la possibile utopia” e poi andare anche a visitare il sito Fondazionevikutopia.org che abbiamo creato dopo la sua uccisione dove ci sono altre testimonianze e scritti. Per chi volesse in rete ci sono moltissime informazioni e video su di lui.

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Egidia Beretta, madre di Vittorio


Quale consiglio darebbe ai giovani per mantenere vivi i suoi ideali e continuare, nel loro piccolo, le sue battaglie?
A Vittorio piaceva moltissimo informarsi, approfondire le situazioni, leggere e mettersi in viaggio. Bisogna sapersi indignare di fronte alle ingiustizie, alle sopraffazioni, prendersi a cuore le vite degli uomini e diventare partigiani nel senso più nobile di questa parola. Partigiano significa “prendo parte”. Vittorio ha saputo scegliere e prendere una parte. Ma lo ha fatto dopo una vita che ha voluto guidare in questa direzione, quella di diventare poi un uomo che ha saputo veramente, quando c’è stata l’occasione, scegliere da che parte stare e dedicare la sua vita a questa parte dell’umanità più sofferente.

In una storica intervista ad Al Jazeera suo figlio diceva: “Io che non credo alla guerra, non voglio essere seppellito sotto nessuna bandiera. Semmai voglio essere ricordato per i miei sogni. Dovessi un giorno morire, fra cent’anni, vorrei che sulla mia lapide fosse scritto quello che diceva Nelson Mandela: ‘un vincitore è un sognatore che non hai mai smesso di sognare’. Vittorio Arrigoni, un vincitore.” A 9 anni di distanza dalla sua scomparsa direi che possiamo condividere con forza questa affermazione. Suo figlio è un vincitore…
Si Vittorio è un vincitore. E noi incidemmo sulla sua lapide queste parole. Per chi passa al cimitero a salutarlo le trova proprio lì, scritte sotto la sua fotografia. Spero che il suo messaggio raggiunga tante persone e diventi una traccia per chi vuole vivere una vita degna di solidarietà e di salvezza. Perché salvando gli altri salviamo noi stessi.

* In collaborazione con: facebook.com/giovanipalestinesi.italia

Tratto da: ourvoice.it