Procura di Roma. Sarà ancora il ”porto delle nebbie”?

Sul tavolo i casi Alpi-Hrovatin, Moro e Attilio Manca
di Giorgio Bongiovanni

Michele Prestipino Giarritta, romano di origine messinese, seppur non all’unanimità (14 voti in suo favore, 8 quelli per l’avversario Lo Voi e tre gli astenuti tra cui i togati Sebastiano Ardita, Nino Di Matteo e il laico della Lega Emanuele Basile) è stato eletto dal Csm come Procuratore capo della Procura di Roma. Quasi tutti i quotidiani nazionali hanno accolto con favore la scelta evidenziando l’opportunità della “logica della continuità“, visto che succede al vertice della Procura capitolina che fu diretta dal suo “mentore”, Giuseppe Pignatone. Pagine e pagine in cui si è ricordata l’intera carriera di Prestipino, da Palermo a Roma, passando per Reggio Calabria.
Ha condotto inchieste importanti in questi anni e la più nota, nel recente passato, è stata sicuramente quella condotta assieme agli altri membri del pool Paolo Ielo, Giuseppe Cascini e Luca Tescaroli: “Mafia Capitale”. E’ vero, in Cassazione è caduta l’aggravante del 416 bis nei confronti di imputati di peso come l’ex Nar Carminati e per Buzzi, presidente della cooperativa 29 giugno, ma i giudici della VI sezione penale hanno riconosciuto comunque la presenza di due associazioni distinte a carattere delinquenziale, capaci di infiltrare in profondità la macchina amministrativa e politica di Roma.
Adesso che da “reggente facente funzioni” è divenuto Procuratore capo Prestipino potrà cogliere l’opportunità di dimostrare che quello di Roma non è “un porto delle nebbie”, dove le inchieste più scomode finiscono spesso nei dimenticati.
L’occasione di ripartire dopo lo scandalo della scorsa estate che vedeva proprio il Palazzo di Giustizia di Roma come un centro di interessi politico-giudiziari, svelati nell’inchiesta di Perugia anche nota come “caso Palamara”. Perché sullo sfondo non c’era solo il discorso delle nomine del Csm.
Questa opportunità di rinnovamento e cambiamento passa attraverso inchieste scomode del presente (caso Consip, e le vicende legate al padre di Matteo Renzi) e del passato.
Ne vogliamo ricordare tre su tutti: l’omicidio di Ilaria Alpi e Miran Hrovatin, l’uccisione di Aldo Moro e la morte misteriosa di Attilio Manca.

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La giornalista, Ilaria Alpi

Il caso Alpi-Hrovatin
Partiamo dal primo. Il prossimo 20 marzo saranno trascorsi 26 anni dall’assassinio della giornalista Rai e del suo operatore.
Per dirla con le parole del giudice Carlo Palermo, legale della famiglia Alpi, ad oggi “l’unica verità che risulta accertata – come in altri processi di terrorismo, di eversione, di mafia – è che l’unico responsabile che venne indagato, accusato e condannato su iniziativa e propulsione della Procura della Repubblica di Roma, era innocente e che ciò fu il risultato di un grosso e quasi assurdo depistaggio funzionale ad addossare su un innocente responsabilità di altri ancora non accertate“.
Il Gip di Roma lo scorso ottobre ha respinto la terza richiesta di archiviazione presentata dalla Procura di Roma disponendo ulteriori accertamenti investigativi da effettuarsi nell’arco di 180 giorni.
In particolare il Gip ha ordinato di ascoltare il direttore dell’Aisi al fine di verificare la “persistenza del segreto” sull’identità dell’informatore di cui si fa riferimento in una nota del Sisde del 1997. Inoltre ha chiesto alla procura accertamenti in relazione al ritardo con cui è stata trasmessa, nell’aprile del 2018, da Firenze la trascrizione di una intercettazione tra due cittadini somali in cui i due parlando di quanto avvenuto a Mogadiscio affermano che Ilaria “è stata uccisa dagli italiani“. Infine, ha disposto di acquisire atti relativi al fascicolo di indagine sulla morte del giornalista Mauro Rostagno, ucciso dalla mafia nel 1988.
Cosa è stato fatto fino ad oggi? Si continuerà a chiedere un’archiviazione o finalmente si riuscirà ad arrivare ad un processo che faccia chiarezza sui depistaggi e porti all’individuazione dei mandanti e degli esecutori, a tutt’oggi impuniti?

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Aldo Moro © Imagoeconomica

Sequestro e delitto Moro
Sul sequestro ed il delitto dell’onorevole Aldo Moro, nel 1970, è noto che la Procura generale di Roma, attualmente vacante, si sta occupando di un ramo di indagini.
Negli anni passati l’ex Pg Luigi Ciampoli avocò un’indagine della Procura, al tempo guidata da Giuseppe Pignatone, menzionando anche una “‘protratta inerzia’ del pubblico ministero romano” che lo aveva indotto a esercitare il potere di avocazione, sul ruolo dell’americano Steve Pieczenik. Quest’ultimo, nel 1978, era un funzionario del Dipartimento di Stato inviato a Roma per ‘gestire’ la crisi aperta dal sequestro del presidente della Dc da parte delle Brigate rosse.
Secondo Ciampoli venne mandato nella Capitale per quella che era una vera e propria operazione di “guerra psicologica” con tre obiettivi: garantire l’uccisione dell’ostaggio; recuperare le registrazioni degli interrogatori e degli scritti di Moro; ottenere il silenzio dei terroristi.
Le presunte responsabilità di Pieczenik erano state messe in luce dal procuratore generale Ciampoli nella richiesta di archiviazione, inoltrata al gip del tribunale di Roma, dell’inchiesta sulle rivelazioni dell’ex ispettore di polizia Enrico Rossi che aveva ipotizzato la presenza di agenti dei Servizi, a bordo di una moto Honda, in via Fani, a Roma, quando Moro fu rapito dalle Brigate Rosse.
Il pg dispose la trasmissione della richiesta di archiviazione – un documento di cento pagine – al procuratore della Repubblica di Roma “perché proceda nei confronti di Steve Pieczenik in ordine al reato di concorso nell’omicidio di Aldo Moro, commesso in Roma il 9 maggio 1978”.

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Francesco Cossiga © Imagoeconomica

A che punto si è arrivati in questa inchiesta?
Non solo. Nel marzo 2018 la Procura di piazzale Clodio ha anche acquisito le carte raccolte dalla Commissione bicamerale sul rapimento e omicidio del presidente della Democrazia Cristiana.
Commissione che, dopo un lungo lavoro, aveva ribadito chiaramente che “la verità di Stato sul delitto Moro – confezionata dalla Dc di Francesco Cossiga insieme agli ex Br Valerio Morucci e Mario Moretti e avallata dalla magistratura romana – è una colossale menzogna”.
Tra gli spunti messi a disposizione dei magistrati anche quello relativo alla presunta esistenza di un altro presunto luogo di prigionia per Moro, oltre a quello di via Montalcini, nella zona della Balduina.
La Commissione si concentrò in particolare sull’area di via Licinio Calvo dove i brigatisti, dopo il blitz di via Fani, lasciarono le auto utilizzate per sterminare gli agenti di scorta e prelevare l’allora presidente della Dc.

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Attilio Manca insieme ai genitori, Angelina e Gino

Il caso Manca
Ancora più in salita è l’inchiesta, scandalosamente archiviata, sulla morte dell’urologo Attilio Manca. Un macigno pesantissimo di 75 pagine con cui, nel luglio 2018, il Gip Elvira Tamburelli ha accolto la richiesta che fu firmata proprio dai magistrati Michele Prestipino e Cristina Palaia, con il visto dell’allora procuratore capo Giuseppe Pignatone. Pagine in cui il giudice apostrofa le dichiarazioni dei collaboratori di giustizia come “tardive”, mere “propalazioni de relato” e “indimostrate”. E così via, una lunga seri di considerazioni che non fugano affatto i dubbi sul caso. Lo stesso giudice ammette che ci sono “alcuni particolari specifici della vicenda” che “non sono stati chiariti o non del tutto chiariti”, ma “ciò non consente di andare oltre lo spettro di sospetti o ipotesi”.
Da sempre dietro al delitto si scorge l’ombra della convergenza di interessi tra mafia e Servizi per eliminare un testimone scomodo della rete di protezione istituzionale eretta attorno all’ex boss di Cosa Nostra Bernardo Provenzano, che nell’autunno del 2003, si sottopose a Marsiglia ad un’operazione di cancro alla prostata. Ma nel documento dl Gip anche questa possibilità viene valutata come una “ipotesi fondata su elementi che non sono supportati da alcun principio di prova certa”.
La parola fine? Non ancora. Perché le indagini degli avvocati Fabio Repici e Antonio Ingroia vanno avanti, così come quelle della Procura nazionale antimafia. Accanto alla famiglia c’è il sostegno di 30.000 persone che chiedevano la non archiviazione del caso. E’ da qui che si riparte e anche noi non siamo e non saremo soddisfatti finché Gino, Angelina e Gianluca Manca non avranno giustizia.
Caro dottore Prestipino, una lotta alla mafia senza se e senza ma è fatta di scelte coraggiose e senza quei cedimenti che generalmente contraddistinguono la “casta” dei “giudici delle carte a posto”. Saprà essere coraggioso? Se si troveranno nuovi elementi, saprà andare oltre se stesso, senza pregiudizio? Staremo a vedere, la speranza non è mai vana.

Foto di copertina © Imagoeconomica

fonte: antimafiaduemila.com