Sentenza Mannino, quando la storia si ripete
Nelle motivazioni della Corte d’Appello l’immagine (ambigua) di un’assoluzione
di Lorenzo Baldo
E’ il “libero convincimento del giudice”, si dirà. La giurisprudenza prevalente parla chiaro: “Il giudice non è affatto obbligato a dar conto in sentenza di ogni singolo elemento di prova acquisito, ma può mettere in rilievo solo quelle prove che ritiene più significative, e quindi prevalenti, trascurando quelle che non ritiene utili o attendibili, purché si inseriscano in un ragionamento logico e immune da vizi”. Fine del film. Mannino libera tutti. Al via quindi i festeggiamenti per la motivazione della sentenza di appello che assolve l’ex ministro democristiano Calogero Mannino dall’accusa di attentato a corpo politico dello Stato.
Quel “furore demolitorio” contro la tesi sulla Trattativa
“Illogica e incongruente” viene definita dalla Corte presieduta da Adriana Piras
la tesi della Procura di Palermo sulla trattativa Stato-mafia. Una
sorta di replica al veleno nei confronti della precedente definizione di
“illogica e confusa” – relativa alla sentenza di assoluzione al processo Mannino di primo grado – contenuta nel ricorso in appello della Procura.
Quello
che appare come un rinnovato “furore demolitorio” sul tema della
Trattativa sortisce l’effetto desiderato: rimescolare le carte,
reinterpretarle, accantonando la logica e il senso della ragione. Un
vero e proprio “furore demolitorio” capace di creare i presupposti per
la realizzazione di una ulteriore e pericolosa delegittimazione dei
magistrati che hanno “osato” processare e condannare una parte del
nostro Stato. E’ la storia che si ripete. Cambiano i volti, i contesti,
ma la metodologia resta identica. Così come l’obiettivo – più o meno
consapevole – di eliminare ogni “corpo estraneo” dalla nostra fragile
democrazia, magistratura compresa. Ed è esattamente l’attuale periodo
storico a rendere tutto ciò ulteriormente pericoloso.
Le molteplici “incongruenze” su Mannino
Vale la pena ricordare quelle che sì, sono le effettive “incongruenze” (per usare un eufemismo) che ruotano attorno alla figura di Calogero Mannino.
Si potrebbe cominciare partendo dall’anno 2014, quando la Cassazione ha
respinto la sua richiesta di risarcimento per ingiusta detenzione. I
supremi giudici hanno ribadito che Mannino aveva “accettato consapevolmente l’appoggio elettorale di un esponente di vertice dell’associazione mafiosa (il boss Antonio Vella, ndr) e, a tale fine, gli aveva dato tutti i punti di riferimento per rintracciarlo in qualsiasi momento”.
E
la precedente assoluzione di Mannino dall’accusa infamante di concorso
esterno in associazione mafiosa? A spiegare la peculiarità del contesto
nel quale è stata partorita quella sentenza era stato nel 2015 l’ex procuratore di Torino, Gian Carlo Caselli. “È un dato di fatto – aveva sottolineato Caselli – che all’assoluzione di Mannino (per concorso esterno in associazione mafiosa) si arriva perché la Cassazione – a processo in corso – modifica
il proprio orientamento rispetto a quello vigente all’inizio del
processo sul concorso esterno in associazione mafiosa. Mentre prima per
il delitto di concorso esterno era sufficiente provare l’esistenza di un
patto tra mafia e accusato, col nuovo orientamento la Cassazione
richiede anche la prova di un ‘ritorno’ del patto in termini di effetti
favorevoli all’imputato”.
Paolo Borsellino
Parole rubate
“I
carabinieri vogliono che non mi espongo. Sono troppo nel mirino. Ma io
ho una gran voglia di raccontare molte cose. E penso che lo farò”. Ma di quelle “molte cose” a cui avrebbe fatto riferimento Mannino secondo quanto riportato dall’ex direttore de Il Fatto Quotidiano, Antonio Padellaro, che lo aveva incontrato l’8 luglio del ’92, nulla sarebbe giunto all’autorità giudiziaria.
Mannino
non avrebbe quindi denunciato quanto di sua conoscenza in merito alle
minacce di morte che lo riguardavano, né tanto meno avrebbe raccontato
chi fossero quei carabinieri che gli avrebbero consigliato di non
esporsi.
La “demolizione” e la “rivisitazione” dei fatti della Corte d’Appello non risparmia nessuno, Paolo Borsellino in primis. Ma anche per l’ex colonnello dei Carabinieri Michele Riccio
reo di “non aver verbalizzato alcuna delle dichiarazioni versategli nel
corso degli anni dal confidente Ilardo” nei confronti dei quali non
avrebbe dovuto porre la sua fiducia in quanto non sarebbe risultato
attendibile. Un obbrobrio vero e proprio. Che di fatto è smentito in
toto dalla Corte
d’Assise di Palermo che aveva intitolato il capitolo 35 della
motivazione della sentenza sulla Trattativa con una dicitura
chiarissima: “L’attendibilità intrinseca delle dichiarazioni di Michele
Riccio”.
Il libero coraggio del giudice
In una frenetica escalation
di rilettura e stravolgimento dei fatti le 1149 pagine della
motivazione della sentenza di Appello al processo Mannino si
contrappongono alla motivazione della sentenza di primo grado sulla
Trattativa nella quale invece la figura di Mannino veniva debitamente
inquadrata, pur non essendo stato imputato nel procedimento madre, ma
bensì nello stralcio in abbreviato. Per la Corte d’Assise presieduta da Alfredo
Montalto (a latere Stefania Brambille) “la valutazione logica dei
fatti” portava ad una conclusione a dir poco eloquente e cioè che:
“Le preoccupazioni dell’On. Mannino non siano state estranee nella
maturazione degli eventi poi definiti come ‘trattativa Stato-Mafia’”. Si
trattava quindi di “un quadro probatorio già formato” in merito alla
“esistenza dei fatti nei loro aspetti essenziali”, con tanto di prove
“dirette”, o “indirette”, così come di “deduzioni di tipo logico”. “Può
ragionevolmente ritenersi – avevano sottolineato i Giudici – che anche tale omicidio (del M.llo Giuliano Guazzelli, ndr) si pone come antecedente logico-fattuale dell’iniziativa che di lì a poco Antonio Subranni, unitamente a Mario Mori,
avrebbe deciso di intraprendere per tentare un contatto diretto con i
vertici dell’associazione mafiosa nelle persone dei suoi capi assoluti Salvatore Riina e Bernardo Provenzano”.
Ed è proprio seguendo quel filo logico, illustrato sapientemente e
coraggiosamente dalla Corte d’Assise di Palermo, che ogni componente di
questo puzzle intricato trovava – e trova – la sua giusta collocazione,
così da rendere giustizia ai martiri della violenza politico-mafiosa che
nel biennio ’92/’93 – e anche prima – ha insanguinato il nostro paese.
Una giustizia che, però, non potrà mai trovare spazio in uno Stato che
non accetta di processare se stesso.
E’ il “libero convincimento del
giudice”, abbiamo detto. Ma in questo caso si potrebbe parlare invece
del “libero coraggio del giudice” a rendere onore – oppure no – alla
nostra Costituzione.
Foto originale di copertina © Imagoeconomica
fonte : antimafiaduemila.com