Scotti: ”Con la mafia nessuna trattativa o ragione di Stato”
Intervista all’ex ministro defenestrato nel ‘92 mentre pezzi delle istituzioni trattavano con la mafia
di Lorenzo Baldo
E’ stato un testimone, Vincenzo Scotti. Testimone diretto di un annus horribilis, apripista di un biennio tra i peggiori che la nostra storia ricordi. Era il 1992: da lì a poco le stragi di Capaci, via D’Amelio, e poi ancora gli eccidi di Roma, Firenze, Milano, per un totale di 21 morti e 117 feriti. Oggi Scotti è il Presidente dell’Università degli studi Link Campus di Roma; classe 1933, democristiano doc. L’ex ministro dell’Interno, defenestrato da uno Stato che in quel momento – come si legge nella sentenza di primo grado sulla Trattativa – aveva deciso di trattare con la mafia, ripercorre alcuni episodi che lo hanno visto protagonista. “Non esiste spazio di una ragione di Stato per una scelta diversa dalla repressione alla mafia”, afferma con decisione. Per poi rincarare la dose affermando che “non può ritenersi lecita una trattativa da parte di rappresentanti delle istituzioni con soggetti che si pongano in rappresentanza dell’intera associazione mafiosa”.“La verità giudiziaria – ribadisce Scotti – quale che sia e risulterà al termine del processo, non potrà comunque giustificare niente di diverso da quello scritto dai due alti giudici (della corte d’Assise di Palermo al processo Trattativa, ndr)”. La sua attenta analisi si focalizza quindi sulle “reti criminali che ‘riconfigurano’ gli stati”, con “le mafie che corrompono i funzionari pubblici, li ricattano e assumono responsabilità crescenti nella vita amministrativa e politica”. Per Vincenzo Scotti“la fragilità delle istituzioni apre continui spazi alla crescita delle mafie e crea un circolo vizioso per cui uno Stato è debole perché è indebolito dalla corruzione”.“Fronteggiare questo attacco criminale – sottolinea infine – significa riuscire progressivamente a smontare le reti e a impedire che queste siano capaci di tenere sotto scacco gli apparati di governo e di controllo della vita legale e di quella criminale”. Quella che definisce la “zona grigia” di alcuni paesi dell’America Latina è “nata da quell’intreccio con la complicità di funzionari e amministratori, pubblici e privati, ad ogni livello di rappresentanza sociale e politica”. La lotta alla mafia? “Usciamo dall’emergenza continua e cerchiamo invece di combattere una continua e costante guerra”, sottolinea, per poi concludere: “Non possiamo convivere con le mafie, con loro abbiamo solo una strada, quella della “delenda” (la distruzione, ndr).
Presentazione del libro “Economia drogata” a Roma lo scorso novembre
Professor Scotti, alla presentazione del libro “Economia drogata. Il traffico di droga in America Latina”
lei ha proposto la creazione di un “Centro analisi studi e di rete”
perché la guerra alle mafie sia il più possibile a 360°. Ma si tratta di
una “guerra” che, vista l’attuale situazione politico-sociale, appare
quanto meno “utopistica”. Quali sono quindi le prospettive di questo
Centro?
La sua domanda mi sembra particolarmente
opportuna e mi offre l’occasione per aggiungere qualche utile
motivazione alla mia proposta di mettere in collegamento alcuni centri
di ricerca di diverse Università – tra cui quelle del Centro America –
con la finalità di poter svolgere alcune ricerche sul collegamento tra
le reti criminali transnazionali. Come è ormai accertato, queste reti
non si limitano a compiere attività criminali con l’uso sistematico
della violenza disumana per gestire i mercati illeciti, come le droghe,
le migrazioni illegali degli esseri umani, la prostituzione, il gioco
d’azzardo e il riciclaggio del danaro proveniente dal crimine. Per
svolgere le loro attività criminali queste reti necessitano di
“riconfigurare” gli Stati: non per distruggerli ma per rendere gli
stessi Stati e le istituzioni legislative, di investigazione e
giudiziarie sempre più deboli. Le mafie, da una parte, corrompono i
funzionari pubblici e li ricattano e, dall’altra, assumono anche
direttamente responsabilità crescenti nella vita amministrativa e
politica. Non possiamo più nasconderci che siamo in presenza di un
attacco diretto alle istituzioni e agli uomini responsabili della
legalità e quindi della libertà economica, sociale e politica dei
cittadini. Non possiamo non vedere che la fragilità delle istituzioni
apre continui spazi alla crescita delle mafie e crea un circolo vizioso
per cui uno Stato è debole perché è indebolito dalla corruzione. E
quindi, poiché è debole, apre spazi alle mafie che, dilagando, rendono
gli Stati sempre più deboli. Questa analisi è semplice e ci aiuta a
capire, ad esempio, la storia degli Stati del Centro America che è
valida anche per il nostro Paese. Questa analisi va approfondita e, di
qui, la necessità di avere un Centro che indaghi e analizzi il fenomeno.
Penso che nel Centro debbano operare analisti e non solo investigatori
giudiziari, non semplicemente sociologi o politologi ma analisti in
grado di analizzare il processo di riconfigurazione degli Stati
aggrediti dalle mafie. Il risultato del lavoro di ricerca deve offrire
apporti conoscitivi per i legislatori, i responsabili del Governo, della
investigazione, della giustizia, della amministrazione, della economia,
della finanza e della comunicazione. I risultati dell’attività di
ricerca devono arrivare per questi terminali a tutta l’opinione
pubblica. Si tratta di raggiungere una classe dirigente internazionale
chiamata a rispondere a una sfida quanto mai difficile proprio per le
responsabilità che ricoprono. Fronteggiare questo attacco criminale
significa riuscire progressivamente a smontare le reti e a impedire che
queste siano capaci di tenere sotto scacco gli apparati di governo e di
controllo della vita legale e di quella criminale.
Ricostruire le
reti usando tutti gli strumenti informatici e anche tutte le fonti
aperte (ad esempio i risultati del lavoro investigativo e giudiziario
portato a termine) e arricchire le conoscenze intorno ad una rete e
verificare le modificazioni nel funzionamento delle istituzioni.
Oggi
esistono tanti importanti centri di ricerca il cui lavoro con le
moderne tecnologie di analisi va integrato per migliorare un insieme di
conoscenze spesso non utilizzate. Il professor Luis G. Garay-Salamanca,
docente della Università della Ande di Bogotà e Academic Director presso
la “Scientific Vortex Foundation”, è arrivato – in questi anni – a
ottenere risultati positivi attraverso la Teoria delle Reti Sociali
riuscendo a descrivere, in alcuni Paesi dell’America Latina, un quadro
allarmante di interrelazione tra legalità e illegalità e di ampliamento
della cosiddetta “zona grigia” nata da quell’intreccio con la complicità
di funzionari e amministratori, pubblici e privati, ad ogni livello di
rappresentanza sociale e politica.
Recentemente lei
ha detto “il mondo è sconvolto da un tornado che spazza via produzioni
tradizionali, accordi esistenti, strategie imprenditoriali che cambiano
continuamente. Questo tornado crea convenienze e le fa sparire
immediatamente”. Che tipo di “potere” è in grado di produrre un simile
“tornado”?
La battaglia tra legalità e illegalità
mette in competizione due poteri che stanno conducendo una guerra
cibernetica a chi arriva prima e che è in grado di prevenire le mosse
del proprio antagonista. Da una parte, si colloca il potere dello Stato e
delle strutture sopranazionali, che possono avvalersi di quel monopolio
della forza – pur sempre nel rispetto delle norme costituzionali e in
particolare del rispetto delle norme nazionali e internazionali sulla
privacy. Dall’altra, c’è il potere criminale che oggi ha sempre più la
necessità di investire in attività legali i grandi ricavi che provengono
dalla gestione dei traffici criminali.
Entrambi i poteri, legali e
illegali, hanno la possibilità di far ricorso a strumenti di controllo
delle comunicazioni e della mobilità delle persone la cui efficacia
dipende dalla velocità con cui procede la ricerca e la capacità di uno
dei due poteri di arrivare prima nell’utilizzare i risultati delle
innovazioni tecnologiche. E chi arriva prima è quello che ha la
possibilità di utilizzare a suo vantaggio quello che ho chiamato un vero
“tornado”.
Un nostro docente, il prof. Piergiorgio Valente, ha
pubblicato dei preziosi contributi sulla catena della criminalità:
corruzione, riciclaggio, paradisi fiscali e criminalità nel mondo
virtuale. Come vede, la guerra alla criminalità, cioè al regno del
potere illegale, si gioca oggi soprattutto sul terreno del virtuale,
come del resto avviene nella guerra terroristica. Il territorio e le
frontiere non sono il terreno esclusivo della teoria della guerra e
quindi del tornado a cui ha fatto riferimento.
Il giudice Alfredo Montalto mentre pronuncia la sentenza sulla Trattativa Stato-Mafia
Sicuramente
un altro “tornado” può essere definita la motivazione della sentenza
sulla trattativa Stato-mafia. Che sancisce ulteriormente (dopo le
sentenze di Firenze) un dato agghiacciante: durante il biennio stragista
’92/’93 c’erano uomini di Stato che trattavano con la mafia. Da uomo
delle istituzioni, la cui testimonianza è stata molto importante in quel
processo, come ha analizzato questa sentenza? Cosa comporta per lei
avere la conferma che in quegli anni c’era un sistema criminale capace
di sacrificare vittime innocenti nel nome di una pseudo “ragione di
Stato”?
La sentenza di primo grado e la sentenza del
ricorso in appello, che credo potremo leggere tra non molto, tratta una
questione estremamente divisiva e, per le responsabilità che ho
ricoperto, posso parlarne solo rifacendomi ai comportamenti di quegli
anni (come ho raccontato ai giudici) ma non posso entrare nel merito di
valutazioni e decisioni giudiziarie che devono ancora arrivare a
conclusione. Tuttavia, con il limite a cui ho fatto riferimento, penso
che la questione andrebbe laicamente discussa e non riguarda solo il
nostro Paese. Nei fatti e non solo nelle ipotesi teoriche continuano a
esistere due diversi approcci alla lotta al crimine: contenere o
distruggere. Non credo che nella storia umana riusciremo a debellare
totalmente la criminalità, ma la possibilità di portare a fondo una
guerra e riuscire ad alzare sempre più alta la asticella contro cui i
criminali devono fare i conti, questa deve essere possibile. Lei sa bene
quale è la mia opinione sulla opportunità di contenere o di tentare di
distruggere le mafie.
Le memorie che ho scritto sugli anni del mio incarico di Ministro degli
Interni hanno come titolo proprio questo interrogativo: “Pax mafiosa o
Guerra?”. Nel tribunale si è parlato delle conseguenze che
ho dovuto affrontare. Per questo, nel rispondere alla sua domanda, posso
dirle che non esiste spazio di una ragione di Stato per una scelta
diversa dalla repressione.
La strage di via D’Amelio
Nella
sentenza si legge che “l’improvvisa accelerazione che ebbe l’esecuzione
del dottore Borsellino”. Seguendo una ricostruzione oggettiva Vito
Ciancimino entra in contatto con gli ufficiali dei carabinieri Mario
Mori e Giuseppe De Donno all’indomani della strage di Capaci e, secondo
la corte d’Assise, “non v’è dubbio, che quei contatti unitamente al
verificarsi di accadimenti (quali l’avvicendamento di quel ministro
dell’Interno che si era particolarmente speso nell’azione di contrasto
alle mafie, in assenza di plausibili pubbliche spiegazioni) che potevano
ugualmente essere percepiti come ulteriori segnali di cedimento dello
Stato, ben potevano essere percepiti da Salvatore Riina già come forieri
di sviluppi positivi per l’organizzazione mafiosa nella misura in cui
quegli ufficiali lo avevano sollecitato ad avanzare richieste cui
condizionare la cessazione della strategia di attacco frontale allo
Stato”. Il ministro dell’Interno sostituito in quel periodo era lei,
come ha considerato queste parole?
Lei mi ha
classificato come uomo delle istituzioni e la ringrazio perché ho sempre
pensato che fosse il massimo a cui poter aspirare come uomo politico.
E, per questo, fino alla sentenza definitiva non mi esprimerò mai,
scusandomene con lei. Tuttavia vorrei cogliere una riflessione contenuta
nella sua domanda e, come al solito, cercherò di commentarla
raccontandole un fatto a cui ho partecipato al Viminale. Mi riferisco
alla sentenza della Suprema Corte di Cassazione sul calcolo della
decorrenza della carcerazione preventiva che aveva messo in libertà
tutti i condannati in primo grado, con pene varianti da ergastolo a
tantissimi anni, del processo istruito da Falcone. Quel giorno fui
destinatario di un giudizio di Falcone sulle conseguenze della sentenza
che rendeva agli occhi dei mafiosi uno Stato perdente anche dopo una
istruttoria e un processo così rigoroso. La mafia era più forte. Poiché
condividevo il giudizio assicurai Falcone che con il Ministro della
Giustizia, Claudio Martelli, saremmo arrivati ad una soluzione che
avrebbe ripristinato il “potere” dello Stato. E così avvenne… e i
condannati per mafia tornarono in carcere nonostante le difficoltà.
Certo
è che nelle motivazioni della sentenza al processo Borsellino Quater i
giudici nisseni parlano di “Uno dei più gravi depistaggi della storia
giudiziaria italiana” evidenziando che vi sono veri e propri
“collegamenti” tra la scomparsa dell’agenda rossa di Paolo Borsellino e i
depistaggi di Stato nelle indagini sulla strage di via D’Amelio. Nella
motivazione si ipotizza una “eventuale finalità di occultamento della
responsabilità di altri soggetti per la strage, nel quadro di una
convergenza di interessi tra ‘Cosa Nostra’ e altri centri di potere che
percepivano come un pericolo l’opera” di Paolo Borsellino. Cosa
rappresenta per lei l’analisi dei giudici di Caltanissetta alla luce di
tutto ciò che lei stesso ha vissuto in quei mesi terribili del 1992?
Prima
che mi risponda le chiedo però di fare assieme a me un passo indietro:
il 28 maggio del ‘92, durante la presentazione del libro “Gli uomini del
disonore” lei lanciò la candidatura di Paolo Borsellino alla
Superprocura. In molti videro in questa proposta una sorta di
sovraesposizione dello stesso Borsellino. E’ plausibile secondo lei che
quella candidatura (anche solo ipotizzata) abbia comunque influito nei
progetti criminali di quel sistema di potere che non poteva tollerare un
magistrato come Borsellino alla guida della Superprocura?
Le motivazioni della sentenza al processo Borsellino quater sono corrette alla luce dei fatti analizzati dalla Corte: io li condivido per quello che ho letto e riflettuto. Voglio aggiungere una risposta a “una eventuale finalità di occultamento” partendo dalla domanda successiva.
Lei
ricorda la presentazione del libro di Arlacchi alla Mondadori a Roma.
Partecipai insieme a Borsellino, Martelli e Parisi. Intervenendo mi
venne spontaneo dire a Martelli che dopo la strage di Capaci era forse
necessario riaprire i termini del concorso per la procura generale
antimafia a cui alcune personalità come Borsellino avrebbero potuto
partecipare: forse non lo avevano fatto per rispetto a Falcone.
Certamente Borsellino fu turbato, ma mi disse che mi avrebbe mandato per
iscritto una risposta. Cosa che fece in pochissimi giorni e mi spiegò
che non poteva presentare la domanda sia per rispetto al suo amico sia
perché aveva da fare a Palermo. Cosa? Borsellino non me lo spiega nella
lettera, ma dà adito a quanto mi chiede.
Per quello che riguarda la
supposizione che quella sera col mio invito a Borsellino a presentare la
domanda per il concorso alla nomina di procuratore nazionale antimafia
abbia contribuito ad una sopra esposizione pericolosa, non ne sono
convinto anche se bisogna dubitare sempre. Ma dalla lettera di
Borsellino e da tutto quello che è emerso nei processi in Sicilia, le
ragioni mafiose per la strage sono apparse concrete ed evidenti
nonostante tutti i gravi depistaggi.
Di fatto un
altro passaggio della sentenza sulla Trattativa è ulteriormente
esplicito: “E’ ferma convinzione della Corte che senza l’improvvida
iniziativa dei Carabinieri e cioè senza l’apertura al dialogo
sollecitata ai vertici mafiosi che ha dato luogo alla minaccia al
Governo sotto forma di condizioni per cessare la contrapposizione
frontale con lo Stato, la spinta stragista meramente e chiaramente di
carattere vendicativo riconducibile alla volontà prevaricatrice di
Riina, si sarebbe inevitabilmente esaurita con l’arresto di quest’ultimo
nel gennaio 1993”. Quindi in sostanza senza quella trattativa
Stato-mafia non ci sarebbero state le stragi del ‘93. Cosa prova da ex
ministro e da cittadino italiano quando legge queste parole?
A
questa domanda non ho elementi per esprimere un giudizio di
probabilità. Avevo lasciato da un anno il Viminale e non avevo
informazioni utili se non quello che leggevo sui giornali e che non
erano e non sono sufficienti per avventurarmi in un calcolo di
probabilità.
Ma per quanto riguarda il suo impegno
politico-istituzionale dell’epoca, ha mai pensato che se fosse rimasto
al suo posto probabilmente sarebbe cambiato il corso della storia per
quanto riguarda gli attentati del ‘93?
Anche per
questa domanda mi consenta di dirle che mi sembra eccessivo per
determinare addirittura un cambio di corso della storia. So solo che mi
sarei opposto ad ogni attenuazione della guerra alla mafia e questo per
me è sufficiente.
Ad ogni modo va sottolineato che
nelle oltre 5000 pagine i Giudici evidenziano che il suo allarme sul
“tentativo di destabilizzazione delle istituzioni da parte della
criminalità organizzata”, lanciato nel 1992 durante la sua audizione del
20 marzo del ’92 alla Commissione Affari Costituzionali e Interni della
Camera dei Deputati, fu colpevolmente inascoltato da chi aveva
l’obbligo di recepirlo provocandole tra l’altro un grave isolamento
all’interno del suo partito. Quanto era “funzionale” alla trattativa
censurare il suo allarme ed emarginarla all’interno del suo partito?
Questo episodio che lei ricorda mi ha lasciato una profonda amarezza. Avevamo con il Prefetto Parisi una grande quantità di elementi probatori che ci portavano alla necessità di dichiarare lo stato di allerta.
I fatti e le stragi che sono seguite già in quei mesi sono sufficienti a
dire che con Parisi avevamo ragioni per fare quello che facemmo. Quella
audizione fu per me allucinante per i durissimi giudizi di moltissimi
dei membri della commissione, a partire dal suo Presidente Gualtieri che
arrivò a dirmi che avrei dovuto vergognarmi e chiedere scusa agli
italiani per la superficialità di annunciare concrete azioni di uno
inasprimento dello stragismo mafioso. Tutto in quella sede veniva
attribuito a una mia mania di protagonismo politico elettorale. Io avevo
già parlato di stragi in commissione antimafia parlando dell’omicidio
di Salvo Lima. E le domande che rivolsi ai colleghi erano sufficienti a
far capire quale era la natura delle scelte che in quel momento con
Martelli e Falcone insieme a tanti magistrati e forze dell’ordine
stavamo facendo.
Mi sono sempre domandato perché dopo le stragi
nessuno di quei colleghi abbia parlato per ricordare quello che avvenne
quella mattina. Lo so che il giudice di Bologna attribuì a Ciolini una
dichiarazione in cui diceva cose vere e false ma che proprio per Ciolini
con il Prefetto Parisi non avevamo mai attribuito grande rilievo né
fondato le nostre decisioni.
Un dato vorrei ribadire che da quelle
vicende venne avanti una azione per la mia emarginazione insieme alla
delegittimazione di cui parlano i giudici, di cui io non parlo perché ne
hanno già parlato i giudici e non solo a Palermo ma anche a Napoli in
sede di Tribunale dei ministri (alcuni elementi li ho inseriti nel mio libro “Pax mafiosa o guerra”).
Nel
capitolo sui “ricordi tardivi” i giudici affrontano la questione delle
“eclatanti dimenticanze” di Stato: la più stretta collaboratrice (ed
amica) di Giovanni Falcone all’ufficio Affari penali del ministro della
Giustizia, Liliana Ferraro; la dottoressa Fernanda Contri (ex segretario
generale della presidenza del Consiglio), l’ex ministro della Giustizia
Claudio Martelli, l’ex presidente della Commissione antimafia Luciano
Violante, l’ex ministro della Giustizia Giovanni Conso. Chi più, chi
meno, ha mantenuto per 20 anni il silenzio su aspetti importanti di cui
era a conoscenza. Come ha analizzato le metodologie di queste persone?
Ci
sono nomi e fatti presi in considerazione dai giudici di Palermo e il
processo di appello è ancora in corso. Inoltre non ho elementi e lei mi
può capire… mi manca la necessaria presunzione per poter parlare di
metodologie. Devo avere rigore e umiltà.
Giuseppe Gargani e Calogero Mannino © Imagoeconomica
Ad
ogni modo va evidenziata indubbiamente la testimonianza dell’on.
Giuseppe Gargani. Nel ‘92 Gargani era quel presidente della Commissione
Giustizia che, a lei e a Martelli, fece delle vere e proprie “pressioni”
contro il decreto sul 41bis nonostante fossero passati solo pochi
giorni dalla strage di Capaci. Che giudizio ha dato alla notizia dell’on
Gargani “captato” dalla giornalista Sandra Amurri mentre parlava con
Calogero Mannino in merito all’ipotesi di concordare le dichiarazioni di
Ciriaco De Mita in vista del suo interrogatorio con i Pm di Palermo?
Lei
sa bene che il decreto legge 8 giugno 1992 fu voluto da me e da
Martelli per la ragione che le ho già detto rispondendo a una domanda a
proposito della sentenza della Cassazione.
Vorrei ricordarle che la
strage di Capaci è del 23 maggio, e noi eravamo un governo dimissionario
a seguito delle elezioni politiche; quindi con poteri di stretta e
ordinaria amministrazione. Ma nonostante questo grandissimo limite, con
il collega Martelli ritenemmo necessario che il governo dovesse dare una
risposta molto ferma alla iniziativa stragista: di qui la decisione di
ricorrere a un decreto legge che costituisse una svolta ulteriore alla
legislazione antimafia che avevamo già portato in porto. Ci mettemmo al
lavoro insieme ai capi di gabinetto e ai capi del legislativo oltre che
con il Prefetto Parisi. Il testo del decreto fu discusso e scritto
insieme parola per parola. Il Presidente del Consiglio presentò al
Consiglio dei Ministri il decreto con un invito a tutti i colleghi di
approvarlo nella formulazione proposta dai due ministri senza
emendamenti.
La pubblicazione del decreto legge scatenò una reazione
ampia in Parlamento e nei giuristi (avvocati e giudici) e la
Commissione affari costituzionali votò per la sua incostituzionalità.
Non dimentichiamo che il testo che fu confermato dal Parlamento
conteneva altre norme che il Parlamento non si sentì di convertire in
legge.
Ma nonostante questo, il giudizio di Gargani fu in sintonia
con i colleghi del PDS e degli altri gruppi parlamentari. Non ho seguito
più il percorso parlamentare del decreto perché non ero più ministro
dell’Interno. Nonostante i cambiamenti apportati, il testo finale rimase
sufficientemente duro. Basterebbe leggere gli atti parlamentari, i
documenti di magistrati e avvocati e la carta stampata. Le opposizioni
furono rilevanti e Falcone pagò anche quando la commissione del CSM non
votò a favore della sua nomina a Procuratore Nazionale Antimafia.
Molte
norme erano state discusse con Falcone perché comunque pensavamo, anche
prima della strage, alla necessità di un provvedimento abbastanza
simile.
Comunque la intera legislazione antimafia di quei due anni è
stata considerata a livello internazionale un prodotto di grande
efficacia e in un certo senso un modello. Con Martelli partecipammo ad
un ricordo di Falcone alla Suprema Corte degli Stati Uniti con la
partecipazione di tutti i vertici della sicurezza che espressero un tale
giudizio.
Un’altra delle testimonianze risultate
monche è indubbiamente quella di Luciano Violante. Prima però occorre
ricordare le sue parole del mese di agosto del 1993 quando il
settimanale Radio Corriere Tv pubblicò un’intervista all’allora
presidente della Commissione antimafia. “Dobbiamo andare avanti con
forza, perché c’è un obiettivo successivo da raggiungere – aveva
dichiarato Violante -. Cercare di portare fuori dell’associazione
mafiosa i poveri cristi, quelli che, per poche lire passano dal
contrabbando di sigarette all’omicidio, alla strage. Noi dobbiamo
spaccare la mafia, come abbiamo fatto con i terroristi, ma senza
chiedere le accuse ai correi. Dobbiamo poter dire loro: dichiarate i
vostri delitti e uscite dalla mafia, avrete una pena ridotta. Separate
le vostre responsabilità da quelle dei capi”. A distanza di anni come
giudica quella presa di posizione di Violante?
La
dichiarazione pubblica di Violante è interessante. L’obiettivo
successivo di cui parla Violante è stato raggiunto in Sicilia.
Certamente colpi durissimi ci sono stati e hanno prodotto risultati
indiscutibili. Con il Presidente della Commissione Antimafia lo avevamo
ampiamente previsto. L’obiettivo non è stato raggiunto per la
‘Ndrangheta che ha conquistato un ruolo centrale nelle reti mondiali
della droga. E questo dovrebbe farci riflettere come ci ha ricordato il
procuratore di Catanzaro Nicola Gratteri. Credo che bisognerebbe aprire
questo capitolo e riflettere anche alla luce proprio delle recentissime
indagini del procuratore Gratteri.
Come ha valutato i
tanti “non ricordo” nelle testimonianze di uomini di Stato come Gianni
De Gennaro o Giuliano Amato al processo sulla trattativa? Secondo lei
cos’è che impedisce loro di fare piena luce su quel biennio stragista?
Mi
consenta di dire con chiarezza che per quanto riguarda le due
personalità da lei citate devo confermarle che ho nutrito come sempre
grande stima per come hanno svolto le loro alte funzioni pubbliche.
Leggendo
la sentenza emerge come nella vicenda della sostituzione ai vertici del
Dap abbia avuto un ruolo anche l’allora Capo della Polizia Parisi, che
non solo avrebbe suggerito la nomina di Francesco Di Maggio come vice di
Capriotti ma avrebbe anche “catechizzato” l’ex magistrato “sulla
necessità di attenuare in quel momento storico la durezza del regime
carcerario”. A distanza di tanti anni come inquadra il ruolo di Parisi
all’interno della trattativa?
Con Parisi non abbiamo
mai parlato di trattativa e, almeno per come lo ho conosciuto, ha sempre
assecondato la linea della guerra alla mafia così come portata avanti
e, al di là di ogni riflessione personale, ha sempre avuto verso il
Ministro un comportamento da vero servitore dello Stato. Nella
elaborazione del decreto legge 8 giugno è stato sempre sulla linea più
dura. Vorrei cogliere l’occasione per confermare quanto già detto ai
giudici a Palermo che il Presidente del Consiglio Andreotti non ha mai
dissentito o modificato alcun testo legislativo propostogli sia da me
che da Martelli.
L’ex presidente della Repubblica Oscar Luigi Scalfaro © Imagoeconomica
Va
comunque ricordato che in merito alla testimonianza dell’ex presidente
della Repubblica Oscar Luigi Scalfaro, i Giudici la definiscono
“sorprendente” in quanto “in assenza e prima di qualsiasi domanda o
cenno, ha spontaneamente escluso la sussistenza, non soltanto di una
qualsiasi possibile trattativa tra Stato e mafia” ma anche “il possibile
legame tra il regime del 41-bis e le stragi del 1993”. Secondo l’accusa
la prova del “mendacio” nella vicenda 41 bis e nella sostituzione dei
vertici del Dap, era anche documentale (“Le annotazioni nell’agenda di
Ciampi dimostrano che i primi sei mesi del ’93 era necessario cambiare
radicalmente la politica carceraria. Inoltre documentano il mendacio di
Scalfaro e il suo attivismo”).
Che idea si è fatto leggendo le carte del ruolo di Scalfaro?
Io
ho lasciato il Ministero alla fine di giugno del 1992. E non ho nessuna
conoscenza diretta dei fatti dei mesi ed anni successivi che mi
consentano di parlare con conoscenza adeguata. Il Presidente Scalfaro
firmò il decreto legge 8 giugno che gli portai personalmente al
Quirinale. Sulla mia permanenza agli interni ho una lettera manoscritta
del settembre 1992 che rispondeva ad una mia rimostranza; lettera in cui
Scalfaro scriveva – nel concedermi una udienza: “se ci fossimo sentiti
prima forse le cose non sarebbero andate così”.
Per
quanto riguarda invece la figura di Calogero Mannino i Giudici scrivono
che “la valutazione logica dei fatti” porta alla seguente conclusione:
“anche le preoccupazioni dell’On. Mannino (che avrebbe avuto il timore
di essere assassinato da Cosa Nostra per non aver rispettato determinati
patti, ndr) non siano state estranee nella maturazione degli eventi poi
definiti come ‘trattativa Stato-Mafia’”. Come valuta quindi la figura
di Mannino all’interno di questo mosaico così complesso?
Per
Mannino, se ricordo bene, siamo a un procedimento che è giunto alla
conclusione e in qualche modo la mia visione coincide con quella del
giudizio finale. Io ho testimoniato nel primo grado di giudizio. In
questo mosaico complesso ritengo Mannino non partecipe di una
qualsivoglia trattativa. Il Prefetto Parisi mi aveva parlato più volte
della esigenza di proteggere Mannino. Il periodo in cui fu segretario
della Democrazia Cristiana in Sicilia, Mannino aveva infatti assunto una
posizione di ostilità alla mafia e da più parti avevo trovato
concordanze.
In merito al mistero delle strane
rivendicazioni di attentati a nome della “Falange Armata”, la Corte dice
chiaramente che “appare veramente improbabile che un mafioso ‘rozzo’
come Riina abbia potuto autonomamente pensare di utilizzare la sigla
della ‘Falange Armata’ per rivendicare gli attentati di Cosa nostra
(…) Ma v’erano sicuramente altri soggetti meno ‘rozzi’ e adusi anche a
rapporti con esponenti degli apparati di sicurezza che avrebbero potuto
instillare o, quanto meno, in qualche modo provocare, quell’idea di
rivendicare gli attentati con la sigla della ‘Falange Armata’”.
Scorrendo le pagine della sentenza vengono riportate le dichiarazioni
durante il dibattimento dell’ex Ambasciatore Francesco Paolo Fulci:
“Chiesi a Davide De Luca (analista del Censis, ndr) di verificare da
dove partivano questi messaggi della Falange Armata – aveva detto
rispondendo alle domande dei pm di Palermo – lui venne da me con l’aria
preoccupata portando due mappe: da dove partivano le telefonate e dove
erano le sedi periferiche del Sismi. Le due mappe erano sovrapponibili”.
Cosa rappresentano per lei queste dichiarazioni?
Fulci
è stato sempre una persona rigorosa e le sue affermazioni sulla
sovrapponibilità delle mappe è attendibile e avrebbero forse richiesto
una ulteriore e rigorosa investigazione. Sono diverse le situazioni in
cui la sigla torna in vicende mafiose.
Il giudice Alfredo Montalto assieme al giudice a latere Stefania Brambille
Di
fatto il presidente della corte d’Assise Alfredo Montalto assieme al
giudice a latere Stefania Brambille scrivono “che non può ritenersi
lecita una trattativa da parte di rappresentanti delle istituzioni con
soggetti che si pongano in rappresentanza dell’intera associazione
mafiosa”. Alla luce di ciò cosa ritiene si possa rispondere a chi
giustifica la trattativa dicendo che in quel momento storico era
necessaria?
Non ho mai creduto che fosse possibile
giustificare iniziative discutibili in nome di una necessità storica,
come affermava anche il Presidente della Antimafia Francesco Cattaneo
nella sua Relazione del 1972. Questo è un documento che andrebbe riletto
oggi. La verità giudiziaria, quale che sia e risulterà al termine del
processo, non potrà comunque giustificare niente di diverso da quello
scritto dai due alti giudici.
Al Salone del libro di
Napoli del 2018, alla domanda se di fronte ad una instabilità
politico-istituzionale vi fosse il rischio di nuove bombe nel nostro
Paese, la sua risposta è stata molto diretta: “Il rischio è sempre
presente”. Perchè?
Non possiamo assolutamente pensare che abbiamo debellato la mafia in Sicilia. Si può in qualche misura pensare di aver fatto buona strada se riusciremo a contenere criticità e instabilità.
Il che significa che siamo un Paese che ha organizzazioni democratiche
stabili e capaci di confrontarsi duramente con le mafie. Questa
sicurezza dobbiamo confermare in nome di quanti sono morti per
assicurare a noi che avremmo seguito la lezione.
Il
pm Nino Di Matteo, subito dopo la sentenza, ha dichiarato: “adesso ci
vorrebbe un pentito di Stato, qualcuno che faccia chiarezza rispetto a
quanto avvenuto”. Perché così difficile avere un “pentito di Stato”?
Siamo di fronte ad uno Stato in cui persiste una componente il cui
potere violento e ricattatorio impedisce il raggiungimento della verità
attraverso un pentito dal suo interno?
Spero tanto che
non ci sia bisogno di un pentito di Stato anche perché la trasparenza
dovrebbe essere una caratteristica dei servitori dello stato. Certamente
è necessario arrivare ad una conoscenza condivisa sapendo bene che il
cammino della liberazione dalle mafie è un percorso ancora lungo e che
richiede pazienza.
Il consigliere togato del Csm Nino Di Matteo © Imagoeconomica
A
distanza di anni ha mai riflettuto sul fatto che quegli stessi sistemi
criminali che hanno portato ad una trattativa Stato-mafia le abbiano
risparmiato la vita con la sua rimozione dal ministero dell’Interno? Si
sente una sorta di sopravvissuto, o piuttosto un uomo tradito dallo
Stato?
Quando ci si imbarca per una strada bisogna
sapere che si paga un prezzo. Ti possono uccidere fisicamente ma anche
buttandoti del fango e, come diceva Falcone “prima ti isolano e poi ti
uccidono”. In un certo senso sono stato fortunato anche perché alla
morte sono scampato una volta a Napoli per un caso del tutto fortuito.
Da allora ho sempre pensato che ogni giorno è un dono.
Secondo
lei per arrivare all’arresto del super latitante Matteo Messina Denaro
bisogna attendere che una nuova trattativa Stato-mafia sia giunta alla
giusta maturazione?
Spero tanto che la sua profezia sia falsa e che presto Messina Denaro possa essere catturato.
Vorrei
concludere ritornando alle sue dichiarazioni al dibattito di Napoli,
lei disse: “Non ci sono più alibi per chiunque dica che non abbiamo gli
strumenti per combattere la mafia. Gli strumenti ci sono, così come le
leggi, per seguire il flusso del denaro mafioso. Non possiamo scoprire
con ritardo che siamo di fronte ad una guerra. Quello che serve è una
volontà e una capacità per vincerla”. La sensazione che manchi la
volontà politico-istituzionale per vincere questa guerra è suffragata da
tanti anni di azioni meramente emergenziali sul piano della lotta alla
mafia, o di un vero e proprio colpevole immobilismo in tal senso. Perché
secondo lei non si vuole vincere questa guerra? O ci sono invece
speranze?
Ripeterei le stesse parole. Usciamo
dall’emergenza continua e cerchiamo invece di combattere una continua e
costante guerra. Dobbiamo essere consapevoli che il tempo futuro ci
possa riservare nuove e sgradite sorprese. Sappiamo che ci vuole grande
costanza. Diamo ai giovani non parole ma azioni determinate che aiutino
ciascuno di loro a rinsaldare la determinazione che non possiamo
convivere con le mafie, con loro abbiamo solo una strada quella della
“delenda” (distruzione, ndr), come dicevano i nostri padri romani.
Foto di copertina © Imagoeconomica
fonte: antimafiaduemila.com