Per salvare il clima non dobbiamo più mangiare carne? La risposta di Slow Food

«Abbiamo ecceduto nei consumi di carne, in particolare nei paesi occidentali, ma la soluzione oggi non è eliminarli del tutto». Ecco i dati relativi all’Italia

di
Luca Aterini

Secondo i più recenti dati forniti dal’Ipcc i settori che hanno a che fare con il territorio (agricoltura, foreste e altri usi del suolo) sono responsabili del 23% delle emissioni totali, arrivando al 37% con i processi di trattamento dei prodotti alimentari. La nostra dieta può essere un’arma contro i cambiamenti climatici?

«Anche se la svolta decisiva nella lotta all’emergenza climatica avverrà quando e se i decisori politici sapranno fare scelte radicali (la produzione di energia, l’industria e i trasporti costituiscono, sempre secondo l’Ipcc, più del 70% delle emissioni globali), i cambiamenti nei consumi, frutto di scelte individuali, possono orientare in modo potente il mercato e anche le decisioni delle istituzioni.

Se i consumatori inizieranno a preferire cibi e prodotti in genere più sostenibili i produttori si adegueranno e diminuiranno l’impatto ambientale delle loro produzioni. Non possiamo più ignorare o continuare a delegare ad altri la soluzione del problema. La necessità di cambiare i nostri consumi è un tema ineludibile non solo per noi, oggi, ma per tutte le generazioni che verranno e che dovranno trovare un rapporto diverso e meno distruttivo con il pianeta».

In un mondo con oltre 7 miliardi di abitanti, il consumo di carne ha un impatto particolarmente importante sull’ambiente: dal settore zootecnico dipendono il 14,5% delle emissioni di gas serra, l’impiego di 1/3 delle terre coltivate e il consumo del 23% di acqua dolce disponibile sulla Terra. Per salvare il clima non dobbiamo più mangiare carne?

«Noi riteniamo che sia indispensabile ridurre il consumo e in particolare scegliere una carne di qualità, frutto di un allevamento sostenibile. È possibile infatti allevare bene ed è necessario premiare chi pratica forme di allevamento estensive e in equilibrio con il contesto ambientale.

L’allevamento sostenibile è indissolubilmente legato all’agricoltura. Farne a meno significa rafforzare il legame tra agricoltura e chimica, senza risolvere il problema che creano le monocolture. Abbiamo ecceduto nei consumi di carne, in particolare nei paesi occidentali, ma la soluzione oggi non è eliminarli del tutto.

L’industrializzazione del settore dell’allevamento e l’intensificazione dell’agricoltura hanno portato il sistema di produzione alimentare a un punto di rottura. Abbiamo forzato troppo la natura rincorrendo una sempre maggiore produttività e oggi iniziamo a farne le spese. Riduzione della fertilità dei suoli dovuta all’eccessivo sfruttamento dei terreni a causa delle monocolture – soia e mais per la produzione di mangimi – deforestazione, per fare posto a pascoli e colture; riduzione della biodiversità animale e corsa a selezionare razze  sempre più produttive ma destinate a essere sfruttate pochi anni e poi sostituite non appena il bilancio costi/produttività si riduce anche di poco; nuove patologie veterinarie che, a causa del sovraffollamento nelle stalle, diventano sempre più ingestibili, uso eccessivo di antibiotici negli allevamenti anche a fini preventivi (una delle maggiori cause dello sviluppo dell’antibiotico-resistenza); utilizzo di grandi quantità di acqua per l’irrigazione delle monocolture di cui sopra, e via dicendo.

Per combattere questo sistema non è necessario però eliminare del tutto l’allevamento. Perché una buona agricoltura – sostenibile e differenziata – ha bisogno degli animali. Ma gli allevamenti devono prevedere meno animali, rispettare i loro bisogni naturali, non devono considerarli macchine da carne, da uova e da latte. Li devono nutrire con erba e fieno, innanzi tutto, perché questa è la loro alimentazione naturale da decine di migliaia di anni. E l’integrazione di cereali e leguminose deve essere di qualità e non a base di mangimi prodotti con scarti industriali. In cambio si potranno usare concimi ricchi e naturali per le colture».

La prestigiosa rivista medica Lancet suggerisce di ridurre il consumo di carne rossa di oltre il 50%, ma non viene chiesta la totale eliminazione del consumo di carne. Pensa sia una prospettiva equilibrata anche dal punto di vista della salute del pianeta, oltre che di quella umana?

«È necessario ridurre la carne nella nostra dieta quotidiana perché – nei paesi occidentali – non si è mai mangiata così tanta carne, che non è necessaria in questi quantitativi per la nostra salute. Secondo i nutrizionisti a un adulto sano è sufficiente mangiarne poco più di 500 grammi la settimana per stare bene. Oggi in Italia mediamente ne consumiamo circa il triplo. Ovviamente quando si parla di carne si intendono anche salumi e affettati in genere, di ogni specie animale. E qui dovremmo aprire un capitolo dedicato agli additivi e conservanti usati a profusione nei trasformati, in particolare in quelli industriali (ma non solo). Non a caso fa parte della nostra campagna l’invito a ricercare salumi naturali cioè privi di conservanti potenzialmente dannosi per la salute come i nitriti e nitrati».

Il consumo medio annuo in Italia di carne (pollo, suino, bovino, ovino) è pari a 79 chilogrammi pro-capite, e per quanto riguarda una delle tipologie più impattanti – quella bovina – nel 2018 abbiamo importato il 52,7% del nostro fabbisogno. Quali sono gli strumenti a disposizione del consumatore per acquistare carne da chi pratica un allevamento sostenibile, possibilmente a filiera corta?

«Innanzi tutto una buona dose di disponibilità ad informarsi, a sviluppare relazioni con i produttori, a guardarsi intorno, ad aderire a gruppi di acquisto, a visitare le aziende e capire chi alleva bene. Da parte nostra abbiamo messo a disposizione online alcune informazioni sulle caratteristiche che dovrebbe avere un allevamento virtuoso. Non sempre tutti gli elementi che indichiamo sono presenti in un’azienda, ma queste indicazioni possono essere di riferimento per riconoscere gli aspetti qualificanti di un allevamento. Per capire se l’allevatore è sensibile al tema della sostenibilità.

Orientarsi tra i banconi del supermercato è invece più complesso: la normativa sull’etichettatura delle carni non aiuta a capire come è allevato realmente un animale. Ci consente di individuare ad esempio le carni italiane, che è già qualcosa, vista la grande quantità di carne importata da Paesi in cui le normative di legge sono molto meno rigorose su antibiotici, ormoni, alimentazione.. ma non è sufficiente. Dove non si può contare sull’approvvigionamento tramite filiera corta tutto è più incerto. In questi casi non resta che il biologico, che dà alcune garanzie in più, perlomeno sui trattamenti antibiotici, sull’alimentazione e che prevede standard migliori di benessere animale, ma non esclude del tutto i problemi legati all’industrializzazione e intensificazione dell’allevamento».

Slow Food, con il contributo del ministero dell’Ambiente, ha lanciato la campagna Meat the Change per incoraggiare una riduzione nel consumo di carne, e valorizzare al contempo gli allevatori che producono in armonia con la natura. Pensa che sia necessario migliorare la comunicazione sul tema per raggiungere l’obiettivo?

«Sì, da parte nostra è quello che facciamo già da alcuni anni e anche altre associazioni ambientaliste oggi hanno compreso il legame molto forte che esiste tra agricoltura, allevamento e ambiente. Ma occorre essere attenti alla promozione del consumo di carne a prescindere, che si inizia a vedere sui media. Alla pubblicità che propone immagini bucoliche che nascondono allevamenti del tutto convenzionali.

La produzione di carne è un settore economicamente importante e molto sovvenzionato. Negli ultimi decenni ha vissuto una forte concentrazione delle aziende, una riduzione degli addetti, a fronte di un incremento del numero di capi allevati per azienda. Oggi questo settore inizia ad essere messo in discussione e quindi cerca di promuoversi, ma occorre distinguere tra chi alleva bene e chi pratica un allevamento dannoso per l’ambiente, la terra e anche la salute.

E gli allevatori interessati a lavorare bene devono sapere che possono trovare alleati nei consumatori più consapevoli.  Questa è la carne che dovremmo pagare di più, perché per allevare bene occorre sostenere costi di produzione maggiori, ma per benefici su sapore e salute che non hanno eguali».

fonte: greenreport.it