Ecco come proteggere un terzo degli oceani entro il 2030

Uno studio di Grenpeace e delle università di Oxford e York

Mentre i governi di tutto il mondo sono riuniti all’Onu per negoziare un accordo storico per la tutela degli oceani che potrebbe aprire la strada per la protezione di 230 milioni di Km2 di mare, al di fuori della giurisdizione degli Stati costieri, Greenpeace e le università di Oxford e di York pubblicano lo studio “30X30. A Blueprint for Ocean Protection” che dimostra come sia possibile tutelare con una rete di aree protette oltre un terzo degli oceani del Pianeta entro il 2030. Un obiettivo che gli scienziati definiscono «Cruciale per proteggere l’ecosistema marino e contribuire a mitigare gli impatti dei cambiamenti climatici.

Greenpeace spiega che il rapporto «E’ il risultato di una collaborazione durata un anno tra i ricercatori dell’università di York, di Oxford e Greenpeace. In uno dei più grandi studi di questo genere, i ricercatori hanno scomposto gli oceani in 25 mila quadrati di 100 chilometri di lato e poi hanno mappato la distribuzione di 458 diversi indicatori, tra cui fauna selvatica, habitat e principali caratteristiche oceanografiche, generando centinaia di scenari di quella che potrebbe essere una rete di Santuari marini d’Alto mare su scala planetaria, libera da attività umane dannose, con il minimo impatto socio-economico».

Le acque d’Alto mare,  definite anche come “acque internazionali”, rappresentano circa il 61% della superficie degli oceani, il 73% per cento del loro volume e ricoprono il 43% della superficie del Pianeta. Lo studio evidenzia che «L’Alto mare, per quanto possa apparire come una monotona e immensa distesa blu, è in realtà estremamente ricco di vita marina e di ecosistemi, e in virtù della sua enorme estensione, è essenziale per un sano funzionamento del nostro Pianeta. Queste aree sono protagoniste della migrazione di molti animali marini, tra cui balene, tartarughe, tonni, squali e pinguini. Ma forse ancora più incredibili e sconosciuti sono i continui movimenti di alcune creature marine, come i pesci lanterna o le meduse bioluminescenti, dalle profondità abissali verso la superfice in cerca di prede, movimenti che sono alla base del fenomeno conosciuto come “pompa biologica”, fondamentale per trasferire l’anidride carbonica assorbita dalla superficie alle profondità marine. Si stima che circa un quarto di tutta la CO2 prodotta da .attività umane emessa negli ultimi 20 anni sia stata catturata dagli oceani del Pianeta. Questo fragile mondo è rimasto per molto tempo sconosciuto e lontano da ogni possibile impatto umano. Ma lo sviluppo di nuove tecnologie ha fatto sì che oggi anche le aree più remote siano a rischio: molteplici fattori di stress causati dall’uomo – dai cambiamenti climatici all’inquinamento, dalla pesca a strascico di profondità alle estrazioni minerarie dai fondali marini – rendono urgente un intervento per la loro tutela».

Callum Roberts, biologo marino dell’università di York, sottolinea che «E’ drammatica la velocità con cui le zone d’Alto mare stanno perdendo le loro specie più iconiche. Perdite eccezionali di uccelli marini, tartarughe, squali e mammiferi sono la conseguenza di un sistema di governance sbagliato, a cui i governi riuniti alle Nazioni Unite devono porre rimedio subito. Questo rapporto mostra come sia possibile progettare una rete di aree protette distribuite nelle acque internazionali di tutto il mondo».

La comunità scientifica ritiene che almeno il 30% degli oceani dovrebbe essere totalmente protetto entro il 20303. Purtroppo, ad oggi le leggi che regolano le attività nelle zone d’alto mare sono deboli e/o mancanti, e le zone oceaniche che non sono sotto giurisdizione degli stati costieri sono lasciate in balia dell’interesse di pochi Stati ricchi e potenti. Per Greenpeace, «Oggi ci troviamo di fronte ad una opportunità unica per tutelare i nostri oceani: nel 2018 sono iniziati i negoziati per un Accordo Globale che dovrebbe stabilire precisi strumenti per la tutela della vita marina e habitat al di fuori delle giurisdizioni nazionali5 . I negoziati si concluderanno nel 2020. Tale Accordo Globale è fondamentale per stabilire un sistema che permetta di sviluppare una rete di santuari oceanici in zone d’Alto mare, riformandone le regole di gestione per tutelare un patrimonio comune dell’umanità».

Sandra Schoettner della campagna Oceani internazionale di Greenpeace, ricorda che «Dai cambiamenti climatici, alla pesca eccessiva e all’inquinamento, i nostri oceani sono in pericolo. Abbiamo urgentemente bisogno di proteggerne almeno un terzo entro il 2030. Non si tratta di linee tracciate su una mappa, ma di una catena di protezione coerente e interconnessa che comprende punti chiave per la fauna selvatica, corridoi migratori ed ecosistemi critici. Si tratta di un piano per la protezione degli oceani che salvaguarderebbe l’intero spettro della vita marina».

Il Mediterraneo rappresenta meno dell’1% dei mari del Pianeta, ma ospita circa l’8% elle specie marine note, presentandosi come un’are ad alta biodiversità, con oltre mille specie presenti tra cui la balenottera comune e la foca monaca. Dallo studio emerge che «Il Mediterraneo è – per ragioni bio-geografiche e di estensione – molto diverso dalle altre zone d’alto mare presenti nei grandi oceani. Per questo non è stato possibile applicare la stessa metodologia utilizzata per definire una rete di Santuari oceanici globale. Il fatto che per tale ragione il Mediterraneo non sia stato incluso nella mappa presentata in questo rapporto non implica, purtroppo, che esso non necessiti di protezione. Al contrario, si tratta di un’area marina»

Greenpeace dice che «La crisi del Mediterraneo è evidente, e la comunità scientifica teme che sotto la pressione di molteplici fattori, dalla pesca eccessiva all’inquinamento, si possano innescare fenomeni degenerativi irreversibili (estinzione di specie, perdita di funzioni eco-sistemiche). Recenti studi scientifici hanno evidenziato che oltre il 93% degli stock ittici analizzati sono sovrasfruttati e che negli ultimi 50 anni il Mediterraneo ha perso circa il 41% dei mammiferi marini. Greenpeace da anni chiede la tutela di aree chiave del Mediterraneo: è del 2006 la proposta di realizzare un network di santuari marini totalmente protetti che includa aree particolarmente sensibili, come il Canale di Sicilia. Da allora diverse iniziative internazionali tra cui la Convenzione di Barcellona, ma anche la Convenzione sulla Biodiversità, attraverso il processo per la descrizione delle EBSA (Aree marine ecologicamente o biologicamente significative) hanno identificato aree chiave del Mediterraneo che andrebbero sottoposte a tutela (vedi mappa)«.

Attualmente l’unico santuario d’Alto mare del Mediterraneo è il Santuario dei cetacei Pelagos, istituito da Francia, Italia e Monaco quasi 20 anni fa e denuncia Greenpeace «tristemente famoso per essere “un parco di carta”. Dalla sua istituzione gli stati firmatari dell’accordo non hanno sviluppato nessuna misura di tutela condivisa per proteggere veramente i cetacei dell’area. La complessa situazione di governance del nostro mare, che vede sovrapporsi diversi organismi responsabili di diversi ambiti, dal GFCM14 all’ICCAT15 per la pesca alla Convenzione di Barcellona (BARCON) per la tutela della biodiversità, non ha ancora permesso di sviluppare con un meccanismo chiaro e condiviso una rete di santuari d’Alto mare che garantiscano un’efficace protezione della biodiversità del Mediterraneo. Pelagos oggi rappresenta l’esempio di quanto sia necessario sviluppare meccanismi che permettano non solo la definizione di una rete di aree protette, ma spingano gli Stati a definire regole di gestione e controllo condivise».

Giorgia Monti, responsabile Campagna Mare Greenpeace Italia. Conclude: «Purtroppo, gli oceani oltre i confini nazionali sono lasciati in balia dell’interesse di pochi Stati ricchi e potenti. Chiediamo ai Governi di tutto il mondo un Accordo Globale per garantire una adeguata protezione delle aree d’alto mare, riformandone le regole di gestione per tutelare un patrimonio comune dell’umanità. Questo rapporto dimostra che abbiamo già tutte le conoscenze scientifiche per farlo».

fonte: greenreport.it