Stato-mafia, la difesa Dell’Utri vuole sentire Berlusconi in appello

Nell’atto di impugnazione presentata dai legali viene chiesta la situazione
di Aaron Pettinari

Silvio Berlusconi sarà testimone al processo d’appello sulla trattativa Stato-mafia? Per avere una risposta a questo quesito si dovrà attendere quantomeno il 29 aprile quando la Corte d’Assise d’appello, presieduta da Angelo Pellino, terrà la sua prima udienza e deciderà se accogliere o meno le richieste delle parti. A voler citare l’ex premier, chiedendo la riapertura del dibattimento, è la difesa di Marcello Dell’Utri, condannato a 12 anni in primo grado che già sta scontando la pena in via definitiva a 7 anni per concorso esterno in associazione mafiosa.
Oltre all’ex senatore, lo scorso 20 aprile sono stati condannati con l’accusa di attentato a corpo politico dello Stato i boss Leoluca Bagarella e Antonino Cinà (per i due mafiosi sono state disposte rispettivamente pene a 28 e 12 anni), gli ufficiali del Ros Antonio Subranni e Mario Mori (condannati a 12 anni) e l’ex uomo del Raggruppamento operativo speciale Giuseppe De Donno (8 anni).
Nell’atto di impugnazione, depositato dal legale di Dell’Utri, Francesco Centonze, si dà atto che nelle motivazioni della sentenza si dice che Berlusconi pagò Cosa nostra fino al 1994, “vittima” della minaccia stragista rivolta da Cosa nostra allo Stato per il tramite di Dell’Utri ma si ravvisa il dato che lo stesso ex premier non è stato sentito al processo né durante le indagini.
Questa circostanza, per la difesa Dell’Utri, va sanata essendo l’esame di Berlusconi “una logica conseguenza dalla qualifica di persona offesa attribuita al medesimo nella sentenza impugnata in quanto destinatario finale della ‘pressione o dei tentativi di pressione’ di Cosa nostra”. Il legale dell’ex senatore effettua una critica alla Corte di primo grado in quanto “con doti divinatorie, prima profetizza che Silvio Berlusconi, se chiamato a deporre si sarebbe certamente avvalso della facoltà di non rispondere e, poi, deduce da questo dato futuribile e privo di qualsiasi aggancio nell’istruttoria la superfluità e comunque la non assoluta necessità della sua testimonianza“. “Si tratta evidentemente di argomentazioni prive di qualsiasi rilevanza rispetto ai presupposti di attivazione del potere-dovere del giudice di disporre un’integrazione probatoria – ha aggiunto – che, giova ribadirlo, ha lo scopo fondamentale di assicurare la ‘completezza dell’accertamento probatorio’e ‘evitare che si pervenga a condanne ingiuste’”.

La sentenza trattativa
Nelle motivazioni della sentenza, depositate il 19 luglio 2018, viene messo nero su bianco che “se pure non vi è prova diretta dell’inoltro della minaccia mafiosa da Dell’Utri a Berlusconi, perché solo loro sanno i contenuti dei loro colloqui, ci sono ragioni logico-fattuali che inducono a non dubitare che Dell’Utri abbia riferito a Berlusconi quanto di volta in volta emergeva dai suoi rapporti con l’associazione mafiosa Cosa nostra mediati da Vittorio Mangano.
Proprio rispetto a Mangano (mafioso che lavorò come stalliere per Berlusconi ndr) la Corte evidenziava che “sia Dell’Utri, sia Berlusconi cui erano rivolte le richieste, ben conoscevano lo spessore mafioso di Vittorio Mangano e ciò “induce a non dubitare” che “l’approccio del Mangano (…) non possa che essere stato percepito dal proprio interlocutore come una forma di pressione inevitabilmente esercitata sotto la minaccia di possibili ritorsioni”. “Della conseguente implicita minaccia, dunque – scrivevano ancora i giudici – devono ritenersi responsabili, tanto gli autori in senso stretto individuabili nei mafiosi dai quali promanava la ‘pressione’, quanto, a titolo di concorso, colui, Dell’Utri, che anche in questo caso come nel caso delle richieste dei pagamenti di denaro e dei relativi versamenti, ha svolto la funzione di intermediario verso il Capo del Governo Silvio Berlusconi”. E questo a fronte del “ruolo di intermediario tra gli interessi di cosa nostra e gli interessi di Berlusconi svolto con continuità da Dell’Utri incontestabilmente” che del resto è già stato dimostrato nel processo per concorso esterno dell’ex senatore. E sui pagamenti di Berlusconi a Cosa nostra si scrive che “sono proseguiti almeno fino al dicembre 1994” per cui si ha “la prova che Dell’Utri interloquiva con Berlusconi anche al riguardo al denaro da versare ai mafiosi ancora nello stesso periodo temporale nel quale incontrava Mangano per le problematiche relative alle iniziative legislative che i mafiosi si attendevano dal governo”. “Ciò dimostra – concludeva la corte – che Dell’Utri informava Berlusconi dei suoi rapporti con i clan anche dopo l’insediamento del governo da lui presieduto, perché solo Berlusconi, da premier, avrebbe potuto autorizzare un intervento legislativo come quello tentato e riferirne a Dell’Utri per tranquillizzare i suoi interlocutori”.

Quel perdurante silenzio di B.
Al di là delle parole usate dai legali per spiegare i motivi per cui Berlusconi andrebbe sentito, adducendo eventuali responsabilità alla Corte presieduta da Montalto o ai magistrati che hanno condotto l’inchiesta, va ricordato che solo in un’occasione, nel 2012, si fece interrogare dal pm Antonio Ingroia, sulla questione dei soldi elargiti a Dell’Utri.
Quando ha avuto l’occasione di offrire le proprie spiegazioni in dibattimento ma quando il 26 novembre 2002, fu chiamato a deporre al processo Dell’Utri, si avvalse della facoltà di non rispondere poiché in quel momento era indagato in un’inchiesta per riciclaggio, poi archiviata. Anche allora i giudici analizzarono quel silenzio: “Berlusconi ha esercitato legittimamente un diritto riconosciuto dal codice, ma, ad avviso del tribunale, si è lasciato sfuggire l’imperdibile occasione di fare personalmente, pubblicamente e definitivamente chiarezza sulla delicata tematica in esame, che incide sulla correttezza e trasparenza del suo operato di imprenditore, che solo lui, meglio di qualunque consulente o testimone e con ben altra autorevolezza e capacità di convincimento, avrebbe potuto illustrare. Invece, ha scelto il silenzio”.
Oggi il leader di Forza Italia si trova sotto inchiesta, assieme a Dell’Utri, a Firenze, nell’inchiesta sui mandanti occulti delle stragi mafiose del 1993, che colpirono Firenze (in via dei Georgofili), Roma (chiese di San Giovanni in Laterano e San Giorgio al Velabro) e Milano (via Palestro). Accetterà dunque di fornire la propria versione nell’ambito del processo Stato-mafia? Sceglierà nuovamente il silenzio oppure parlerà, tra una moltitudine di “non ricordo”, come ha fatto durante il processo Breakfast (che vede tra gli imputati l’ex ministro Claudio Scajola)? Magari accadrà il “miracolo” e finalmente troveremo quelle risposte (di Stato) cercate in tanti anni. Non resta che attendere. La speranza, come si dice, è sempre l’ultima a morire.

In foto: Marcello Dell’Utri e Silvio Berlusconi in uno scatto del 2003 © Imagoeconomica

fonte: antimafiaduemila.com