La tesi dello Stato criminale che non piace a Fiandaca

Una (ennesima) stoccata del giurista palermitano alla sentenza sulla trattativa
di Lorenzo Baldo

fiandaca brambille montalto


“Se un pubblico ministero dotato di carisma politico-mediatico afferma in televisione che la trattativa è la dimostrazione che la politica e la mafia in Italia sono strettamente compenetrate, non poche persone saranno indotte a credergli proprio perché a dirlo è un magistrato antimafia, in quanto tale accreditato di un superiore potere veritativo. O saranno portate a credergli perché la tesi dello Stato criminale conferma i loro radicali pregiudizi”. Eccolo il nuovo “trattato” di Giovanni Fiandaca contro la sentenza sulla trattativa Stato-mafia. Nessuno ne sentiva il bisogno, ma tant’è. In un lungo editoriale pubblicato dal Foglio il famoso giurista palermitano affronta la motivazione della sentenza della Corte di Assise di Palermo (Presidente Alfredo Montalto, giudice a latere Stefania Brambille). Fiandaca lamenta che “delle oltre 5200 pagine della motivazione della sentenza di condanna quelle dedicate a questioni di stretto diritto ammontano a poche decine”, parla quindi dei “punti deboli dell’impianto giuridico” e accenna che se ne occuperà, più approfonditamente, su una nota rivista di diritto e procedura penale. Per il resto il testo scorre via attraverso quel virtuosismo giudiziario che da sempre fa letteralmente a pezzi la ricerca della verità. Piuttosto che cercarla, anche a costo di fare i conti con gli scheletri negli armadi della nostra Repubblica, meglio contestare ai giudici “un approccio storiografico di tipo criminalizzante”, con tanto di “inclinazione pregiudiziale a rileggere la storia e la politica del biennio 1992-94” figlia di “un’ottica strumentalmente volta ad accreditare l’ipotesi accusatoria di un turpe patto tra vertici politico -istituzionali e vertici mafiosi per restaurare una compromissoria convivenza tra Cosa nostra e lo Stato”. Il florilegio di speculazioni intellettuali – di cui davvero non se ne sentiva la mancanza – contenute nell’articolo pubblicato dal Foglio torna a scontrarsi con quello “Stato criminale” la cui definizione evidentemente provoca a Fiandaca parecchia irritazione; al punto di togliergli il sonno quando si trova costretto a leggere la ricostruzione contenuta nello splendido libro “Il Patto Sporco”. Probabilmente sono quelle parole, che hanno il dono di essere comprese da tutti, a dargli fastidio: “I fatti, i personaggi, le solite manine che hanno accompagnato, e in certi casi diretto dall’esterno sia la mafia sia il terrorismo in questo Paese, erano perfettamente individuabili”. “Nessuno voleva trarne le dovute conseguenze. Non si volevano delineare responsabilità politiche, istituzionali, storiche, che avrebbero potuto precedere e prescindere dalla responsabilità penale di soggetti determinati”. I giudici scrivono che senza la trattativa con Cosa Nostra da parte dei Carabinieri di Mario Mori non ci sarebbero state le stragi del ’93: 10 morti e 95 feriti; Fiandaca dal canto suo parla di “una sorta di pregiudizio ‘mafiocentrico’ o ‘criminocentrico’ nell’interpretare la storia politica, con la conseguente tentazione di appiattirla sulla dimensione criminale”. La sentenza affronta il nodo del patto tra l’ex premier Berlusconi e Cosa Nostra, ma il giurista Fiandaca si domanda se siamo di fronte ad una “sopravvalutazione della mafia da parte dei giudici-storici”. La Corte di Assise evidenzia che “numerose sono le testimonianze, acquisite nel corso dell’istruttoria dibattimentale, per le quali, come si è visto nelle motivazioni di questa sentenza, sono emersi forti dubbi – ed, in alcuni casi, l’assoluta certezza – di reticenze e di falsità rispetto ad altre contrastanti emergenze probatorie”.Ma evidentemente per questi “smemorati di Stato” il prof. Fiandaca chiude un occhio. Probabilmente lo chiude ugualmente per quanto riguarda le dichiarazioni di alcuni collaboratori di giustizia – la cui attendibilità non è stata mai smentita – che hanno parlato di Cosa Nostra che a suon di bombe “si era messa il Paese nelle mani”. I giudici spiegano che la trattativa ha accelerato la strage di via d’Amelio e che proprio la consapevolezza dell’esistenza di questo patto, tra mafia e Stato, da parte di Paolo Borsellino ha accorciato i tempi della sua condanna a morte. Dall’altro lato Fiandaca parla di “politiche complesse e ambigue proprio per la molteplicità dei fattori eterogenei che le condizionano”. Difficile nascondere un senso di nausea di fronte all’inutilità e allo sfregio di simili disquisizioni in punta di diritto mentre la storia del nostro Paese è disseminata di stragi impunite. All’una e zero quattro di ogni 27 maggio, a partire dal 1993, la città di Firenze si ferma per ricordare la strage di via dei Georgofili. A quell’ora tarda di 25 anni fa Francesca Chelli si trovava assieme al suo fidanzato e coetaneo, Dario Capolicchio, nella loro stanza di via dei Georgofili 3. Nell’epicentro dell’inferno. In quel preciso istante un frastuono scuote l’intera città. Duecentocinquanta chili di tritolo piazzati all’interno di un furgone Fiat Fiorino provocano cinque morti e quarantotto feriti. L’intera famiglia dei custodi dell’Accademia dei Georgofili viene sepolta dalle macerie della Torre dei Pulci: Fabrizio Nencioni, 39 anni, sua moglie Angela Fiume, di 36 e le due bambine, Nadia di 8 anni e Caterina di appena 50 giorni. Centoquarantotto opere d’arte vengono danneggiate. L’autobomba provoca un cratere della lunghezza di 4 metri e 20, profondo un metro e 30. Seppur colpita da una miriade di schegge Francesca Chelli riesce a salvarsi. Ma prima i suoi occhi vedono l’orrore. Dario Capolicchio muore bruciato vivo davanti a lei. Da quel momento per Francesca inizia un calvario fatto di visite neurologiche, terapie riabilitative che si limitano a curare in superficie un corpo e un’anima feriti per sempre. Una via Crucis che sua madre, Giovanna Chelli, affronta con incredibile forza e dignità, e soprattutto con una pretesa di giustizia e verità che non intende fermarsi. Nemmeno davanti alle sterili discussioni di giuristi come Fiandaca, i cui colleghi avevano già dato un fulgido esempio della loro grande intelligenza e profonda umanità al convegno organizzato dal Dipartimento di Scienze politiche dell’Università degli Studi di Napoli Federico II, dal titolo “La trattativa Stato-mafia: responsabilità penale o responsabilità politica?”. In quella occasione erano state contestate a Nino Di Matteo diverse questioni, tra queste: se il Governo potesse essere considerato come Corpo politico, se fosse più o meno legittimo trattare e se quell’iniziativa fosse stata comunque giustificata da una qualche “ragion di Stato” o finalizzata comunque a porre fine alle stragi. Parole che si commentano da sole. E che, inevitabilmente, vanno a confermare quanto scritto dallo stesso Di Matteo e Lodato nel loro libro. “Come sempre saranno in tanti a remare contro. E lo faranno, anzi già lo stanno facendo, ricorrendo alla sperimentata strategia di sempre: il silenzio, il nascondimento dei fatti, il tentativo di minimizzare il significato di ciò che è stato accertato. ‘Loro’ continueranno ad agire così”. “Hanno iniziato a farlo ventiquattrore dopo una sentenza che li ha spiazzati e preoccupati – aveva evidenziato con forza Di Matteo -, facendo subito scomparire quel processo dai riflettori dei principali ‘media’. ‘Loro’ sono tanti e sono forti perché ancora in grado di manovrare e condizionare importanti leve del potere; ‘Noi’ abbiamo il dovere di raccontare, discutere, cercare di diffondere la conoscenza e la consapevolezza di ciò che è successo e non deve più accadere”. Un dovere morale che continua ad essere un punto fermo in mezzo ad un Paese allo sbando.

fonte: antimafiaduemila.com

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