Lettera aperta ad Angelo Provenzano

Non offenda i parenti delle vittime annientate da suo padre assassino e criminale
di Giorgio Bongiovanni

provenzano angelo bernardo

Signor Angelo Provenzano,
mi permetto di scriverle questa lettera aperta, dopo aver letto le sue dichiarazioni rilasciate all’Adnkronos. Lei sostiene di essere stato “discriminato”, “di non aver mai pensato a un risarcimento di denaro”, ed ha paragonato il caso di suo padre a quello del criminale di guerra nazista Erich Priebke chiedendosi perché a quest’ultimo, “condannato all’ergastolo per l’uccisione di 350 persone, è stato concesso di morire agli arresti domiciliari, mentre a mio padre è stato applicato il 41 bis fino alla morte”.
Lei è assolutamente libero di esprimere le proprie opinioni. Siamo in un Paese dove la libertà di espressione è riconosciuta come un diritto Costituzionale, tuttavia ritengo che certe sue espressioni siano un’offesa all’intelligenza di ogni cittadino onesto e, soprattutto, di tutte le vittime della mafia che suo padre, quello che in passato ha anche definito come un “buon padre”, ha ucciso o ha fatto uccidere.
Suo padre è stato un boss sanguinario di Cosa nostra e sposò la terribile strategia stragista del compaesano corleonese, Totò Riina.
Tra i delitti per i quali suo padre è stato condannato a svariati ergastoli ed anni di carcere ci sono la strage di Capaci, la strage di via d’Amelio, le stragi di Firenze, Milano e Roma del 1993 e altri delitti eccellenti come quello del generale Carlo Alberto dalla Chiesa, di Rocco Chinnici, Piersanti Mattarella, Pio La Torre, Cesare Terranova. Nel 2009 suo padre è stato condannato all’ergastolo anche per la strage di viale Lazio, datata 1969, uno dei più cruenti regolamenti di conti della storia di Cosa nostra. E se non avesse avuto la malattia sarebbe stato anche condannato, assieme a Riina, per la trattativa Stato-mafia, così come è stato condannato Leoluca Bagarella e gli altri boss imputati in quel processo assieme ai rappresentanti delle istituzioni ed i politici.
E’ vero, anche che il nazista Priebke ha compiuto delitti efferati. C’è un dato però che nella sua considerazione lei non tiene conto. Mentre il nazifascismo dell’epoca è stato totalmente sconfitto e azzerato (anche se oggi assistiamo a pericolosi ritorni ideologici in tutta Europa) la mafia, il sistema criminale di cui suo padre è stato uno dei capi supremi, non è affatto stata distrutta. Boss stragisti sono ancora in carcere, altri sono ancora latitanti (come Matteo Messina Denaro), altri mafiosi eccellenti sono stati scarcerati di recente e liberi sono ancora quei potenti personaggi di Stato che insieme a suo padre e a Riina, hanno ispirato se non addirittura ordinato le stragi.
E c’è anche da considerare che il potere politico-economico delle criminalità organizzate è ancora oggi forte ed evidente come dimostrato da svariate inchieste.
Si chiede perché a suo padre non sono stati concessi i domiciliari sbandierando la sentenza della Cedu che ha condannato l’Italia perché decise di continuare ad applicare il regime duro carcerario del 41bis a suo padre, dal 23 marzo 2016 fino alla morte del boss mafioso.
Sappiamo perfettamente quelle che erano le condizioni di salute di Bernardo Provenzano, in stato di grave decadimento cognitivo, ma lei sa bene che in quella stessa sentenza si dice che la permanenza del boss in prigione non ha “di per sé” violato il suo diritto a non essere sottoposto a trattamenti inumani e degradanti e quei giudici aggiungono che non può neanche essere sostenuto che “la sua salute e il suo benessere non siano stati protetti, nonostante le restrizioni imposti dalla detenzione”. Uno dei medici che ha curato suo padre presso l’Unità di medicina protetta dell’Ospedale San Paolo di Milano, che oggi dirige quel reparto, Claudio Rognoni, ha dichiarato che “se Provenzano fosse passato dalle cure del San Paolo all’assistenza domiciliare, non avrebbe vissuto più di due settimane”, aggiungendo che durante il suo ricovero “è stato trattato come un principe, anche con un notevole dispendio di risorse”.
E ancora è alquanto anomalo sentirle dire che dalla sentenza Cedu di “non aver mai pensato a un risarcimento di denaro” quando la stessa Corte europea ha rifiutato le richieste di risarcimento per danni morali di 150 mila euro e di pagamento di 20 mila euro per coprire le spese legali.
Ritengo inoltre che qualora suo padre fosse “tornato a casa” in stato di detenzione domiciliare sarebbe stato comunque un messaggio verso un mondo, quello mafioso, da cui lei, ad oggi, non ha mai preso le distanze. Perché dunque parla oggi? A chi si sta rivolgendo? Dobbiamo pensare che quando esprime certe considerazioni lancia dei messaggi?
Lei ha più volte ricordato di essere “incensurato” e di non aver mai avuto problemi con la giustizia, ed è oggettivamente così, ma ci sono alcuni aspetti che non posso fare a meno di ricordarle. Lei ci dice di aver vissuto sedici anni in latitanza, con la sua famiglia, prima di tornare a Corleone. Dice anche di voler vivere una “vita normale”. E’ assolutamente un suo diritto ma a questo punto mi sorgono alcune considerazioni.
Nell’ambito delle indagini che hanno portato all’arresto di suo padre, nel 2006, nel casolare di Montagna dei Cavalli, vi sono video riprese che partono proprio dall’abitazione di Corleone in cui vivevate lei, suo fratello e vostra madre. Le immagini della telecamera posta dinanzi la villa restituivano la costante presenza, ogni settimana circa, di suo cugino, Giuseppe Lo Bue, che andava via da lì sempre con un sacchetto di plastica per poi recarsi a casa di suo padre, Calogero. Allo stesso modo anche Carmelo Gariffo entrava ed usciva di casa molto spesso. Anche lei viene ritratto in un’immagine mentre porta fuori un sacco della spesa e lo consegna proprio a suo cugino.
E’ seguendo quei passaggi di sacchetti, di mano in mano, che gli investigatori hanno ricostruito il sistema di consegna dei pizzini a suo padre, arrivando fino a Montagna dei Cavalli.
Allora, signor Provenzano, lei, che certe cose le ha viste e le ha vissute, magari anche solo indirettamente, avrebbe dovuto prendere le distanze da suo padre e da quell’organizzazione criminale in cui egli era inserito. Avrebbe dovuto suggerire all’autorità giudiziaria ogni informazione possibile. E ancora oggi potrebbe fare molto, offrendo indicazioni, se ne è a conoscenza, per individuare l’immenso patrimonio nascosto di suo padre, valutato in svariati milioni di euro, affinché sia restituito allo Stato per alleviare anche la richiesta di verità e giustizia dei tanti familiari vittime di mafia che hanno visto distrutte le proprie vite.
E’ per questo che le sue dichiarazioni e le sue lamentele, arroganti ed irrispettose, sono un insulto verso chi ha subito un vero accanimento, come i familiari delle vittime di mafia che hanno dovuto fare i conti con gravissime perdite per colpa di suo padre e della mafia più potente del mondo. Uno schiaffo che si ripete giornalmente da quando ha iniziato la collaborazione con un tuor operator americano. Lei ha precisato che non “fa alcun tour della mafia”. Eppure non ha mai smentito la notizia che i turisti si recano da lei per farle domande sulla storia di Cosa nostra e del padre. Ed è emerso che spesso le sue risposte gravitano proprio sulla “difficile condizione” vissuta dai figli dei boss di Cosa Nostra.
Noi non dimentichiamo. Così come non dimentichiamo la sua intervista rilasciata a Servizio Pubblico nel marzo 2012 quando disse già allora parlava del “decadimento neurologico” di suo padre. Alla giornalista, Dina Lauricella, che spiegava come, laddove fosse stata accertata la capacità di intendere e di volere, si sarebbero messi a rischio “il proseguimento di processi fondamentali” lei rispose: “Che qualcuno allora si prenda la responsabilità di istituire la pena di morte anche ad personam. Violenza genera violenza quindi cosa dobbiamo fare? Ci accaniamo?”. Parole che scatenarono le reazioni dell’ex pm Antonio Ingroia ma in particolare dei familiari delle vittime di mafia come Salvatore Borsellino e Sonia Alfano. “Violenza genera violenza” è una frase che ha un significato letterale chiaro. Alla violenza rispondo con la violenza è una tipica frase dal tono mafioso, signor Angelo Provenzano.
Allora, se proprio non vuole diventare collaboratore di giustizia e se davvero vuole vivere tranquillamente la propria vita, sarebbe meglio che stia zitto, senza rilasciare provocatorie interviste in cui rivendica “diritti e doveri” dello Stato nei confronti della sua famiglia all’interno della quale ha vissuto uno dei capi più sanguinari della mafia siciliana, suo padre Bernardo.
Saluti.

Giorgio Bongiovanni

fonte: antimafiaduemila