Strage Borsellino, Di Matteo al Csm va oltre il depistaggio Scarantino

“Il furto dell’agenda rossa è il primo atto. A prenderla non fu Cosa nostra”
di Aaron Pettinari – Video/Audio integrale dell’intervento!

di matteo flag ita c imagoeconomica
“La prima azione del depistaggio sulla strage è rappresentata dal furto dell’agenda rossa. E a rubarla non possono essere stati i boss di Cosa nostra”. Ha scandito con forza queste parole il sostituto Procuratore nazionale antimafia Nino Di Matteo, chiamato a testimoniare dal Consiglio superiore della magistratura nell’ambito dell’inchiesta sulle eventuali responsabilità in merito al depistaggio sulle indagini della strage di via d’Amelio. Con grande puntualità e precisione per un’ora e mezza ha risposto a tutte le domande che i Consiglieri, togati e non, gli hanno posto. In questi anni non si è mai tirato indietro e già davanti alla Commissione parlamentare antimafia e durante l’audizione, come teste, al processo Borsellino quater, aveva spiegato quanto avvenne in quegli anni di indagini e processi. Dal primo momento ha chiarito di non volersi sottrarre ai quesiti, offrendo un contributo affinché sia fatta chiarezza su quello che la Corte d’Assise di Caltanissetta, nelle motivazioni del processo Borsellino quater, ha definito come il “più grave depistaggio della storia”. Un’occasione per ristabilire alcuni “dati di fatto oggettivi che sono stati oggetto di falsità ed inesattezze” in particolare rispetto al suo operato.

Non blocchiamo la ricerca della verità
“Il timore che ho – ha detto proprio ad inizio audizione – è che proprio nel momento in cui il percorso di accertamento della verità completa sulla strage di via d’Amelio potrebbe essere più vicino, con riferimento alle sentenze come quella di primo grado di Palermo sul movente e sui possibili coinvolgimenti esterni a Cosa nostra per l’esecuzione della strage, ho il timore che il centrare tutto su Scarantino possa distogliere ed impedire la ricerca della verità. C’è chi soffia sul fuoco per strumentalizzare anche l’ansia di giustizia, sacrosanta, dei familiari e dei cittadini facendo pensare che la vicenda Scarantino sia l’unico oggetto dell’accertamento. Ma non è così”. Di Matteo ha voluto subito sgomberare il campo da equivoci sottolineando come “non è vero che quelli passati sono stati 25 anni persi. Ci sono 26 condanne. Mai messe in discussione e non interessate dal processo di revisione. Il pericolo che io intravedo oggi è che tutto il dibattito si concentri solo sulla gestione del falso pentito Scarantino. Gli elementi che abbiamo oggi portano a circostanze che potrebbero essere chiarite in via definitiva”.
Quindi ha ricordato quelle che sono state le sue attività negli anni in cui si era giunti prima all’arresto di Scarantino (26 settembre 1992) e poi alla sua collaborazione (24 giugno 1994). “E’ falso e strumentale accostare il mio nome a questa vicenda. Io sono entrato con un primo incarico a Caltanissetta nel 1992, occupandomi di procedimenti ordinari, fino al dicembre 1993. Successivamente sono entrato in Dda ma mi sono occupato esclusivamente di procedimenti riguardanti la guerra di mafia di Gela. Arrivo dunque ad occuparmi di processi di stragi nel novembre 1994, due anni e quattro mesi dopo la strage”.
“Il primo processo Borsellino – ha proseguito il pm – non l’ho seguito io e del bis mi sono occupato solo della fase dibattimentale, non c’ero nemmeno all’udienza preliminare. E non è vero che quel processo é basato solo sulle dichiarazioni di Scarantino. Io mi sono occupato interamente, di indagini e del dibattimento, del Borsellino ter”.
Rispondendo alle domande dei Consiglieri del Csm Di Matteo ha via via sviscerato tutti gli argomenti riguardanti le dichiarazioni del falso pentito della Guadagna: “Partiamo dal dato che Scarantino venne arrestato su base di prove che la sentenza via d’Amelio reputa false e che riguardano le dichiarazioni di Candura, di Luciano Valenti, di alcune intercettazioni e di Andriotta. E’ già lì che inizia questa azione. Che si inizia a ‘vestire il pupo’. Perché poi ci sono anche alcuni fatti, che i giudici ritengono veri, che sono stati messi in bocca a qualcuno che non sapeva. Questo significa che il depistaggio parte già prima della collaborazione di Vincenzo Scarantino.

Le indagini fatte da altri
Nel corso dell’audizione Di Matteo ha anche ribadito di non aver mai parlato con nessuno dei magistrati che ha seguito le prime indagini dal 1992 al 1994. “Personalmente non ho mai interrogato Candura, né Valenti, né ho mai sentito le intercettazioni semplicemente perché io non c’ero“.
E poi ancora ha dichiarato di non “aver mai parlato con chi in precedenza aveva fatto le indagini. Non ho mai parlato di indagini con Cardella, con Giordano, Tinebra o la Boccassini. Né ho mai parlato di indagini con il dottor La Barbera, allora a capo del pool investigativo”. Di Matteo non ha potuto non notare che questi magistrati, che con lui, giovane pm, allora neanche interloquivano, non sono stati chiamati dal Csm, anche se il presidente della Prima Commissione ha voluto rassicurare che da parte del Csm non c’è stata la volontà di “scegliere qualcuno ed escludere qualcun’altro”, spiegando che si è solo in una fase pre-istruttoria. Resta il dato di fatto che i primi ad essere sentiti sono stati i pm Annamaria Palma e Carmelo Petralia e che oggi è toccato al magistrato che ha indagato sulla trattativa Stato-mafia, quando logica avrebbe voluto che si iniziasse dal principio, ovvero la prima fase delle indagini. A dimostrarlo sono state proprio alcune domande rivolte al magistrato su fasi d’indagine che neanche lo hanno riguardato come la concessione dei colloqui investigativi, dal 4 al 16 luglio 1994, mentre Scarantino si trovava detenuto nel carcere di Pianosa. “Concordo. Quei colloqui non sono prettamente usuali – ha detto Di Matteo – anzi, oggi sarebbero addirittura vietati. Io dell’esistenza di quei colloqui investigativi ho appreso per la prima volta il 16 novembre 2015 quando mi è stato domandato in merito al processo Borsellino quater. Non lo sapevo. Poi ho preso il fascicolo e tendo ad escludere di aver mai trovato traccia processuale o procedimentale di quei colloqui investigativi. Se li avessero chiesti a me mentre ero titolare delle indagini non sarebbero stati concessi. Non ho mai perorato o autorizzato colloqui investigativi quando è iniziata la collaborazione con la giustizia di un soggetto. Gli interrogatori avvengono davanti al pm e con l’assistenza di un legale”. Di Matteo il nome non lo fa ma ad autorizzare quei colloqui investigativi “irrituali”, come emerso durante il Borsellino quater, è stata proprio la pm Ilda Boccassini. La stessa che prima di andarsene dalla Procura di Caltanissetta, ha firmato una lettera assieme al pm Roberto Sajeva in cui si metteva in dubbio l’attendibilità di Scarantino. “Mentre ero a Caltanissetta – ha detto ancora Di Matteo – non ho mai saputo dell’esistenza di quell’appunto redatto nell’ottobre 1994. Dell’esistenza ne appresi tempo dopo in uno scambio di atti tra Palermo e Caltanissetta mentre indagavo sulla trattativa. Non la lessi allora e non ho neanche mai partecipato ad una riunione della Dda in presenza di quei colleghi che avevano istruito le indagini fino all’inizio del procedimento sulla strage di via d’Amelio. Mai stato ad una riunione con Cardella o la Boccassini”. Ma in questo Csm in via di scadenza, dove la logica gira al contrario, si è voluto prendere una direzione diversa, convocando altri protagonisti del tempo.

L’attendibilità di Scarantino
Così come aveva già fatto in altre occasioni Di Matteo ha spiegato quelle che furono le considerazioni su Scarantino durante il processo Borsellino bis: “Noi ci siamo resi conto che l’attendibilità di Scarantino era limitata, tant’è che nei confronti di 3 dei 7 soggetti chiamati in causa dal solo Scarantino abbiamo chiesto l’assoluzione e lo abbiamo definito come scarsamente e limitatamente attendibile. Questo è dimostrato dal fatto che, mentre finiva il bis, lui non lo abbiamo inserito tra i testi del Borsellino ter. Ad esempio abbiamo chiesto ed ottenuto l’assoluzione di Giuseppe Calascibetta ma anche di altri soggetti. Poi in appello ci sono state delle condanne ma non so se ci sono stati altri elementi di prova. Il dato di fatto è che noi abbiamo chiesto l’assoluzione. Di Scarantino abbiamo detto già nella requisitoria finale che erano utilizzabili solo i primi tre verbali del 1994, perché poi era intervenuto un inquinamento dello stesso Scarantino. Quindi le sue dichiarazioni, laddove non erano coincidenti o corroborate da altre prove, non erano utilizzabili”.
Ancora una volta Di Matteo ha evidenziato come non corrisponde a verità sostenere che il picciotto della Guadagna, con le sue dichiarazioni, non avesse tirato in ballo il mandamento di Brancaccio o che lui ha voluto tener fuori soggetti che in qualche modo erano ritenuti vicini ai servizi deviati. In particolare, infatti, Scarantino aveva chiamato in correità un soggetto come Gaetano Scotto che, così come evidenziato dal magistrato “in sentenze e procedimenti palermitani era sospettato di essere un importante anello di collegamento tra famiglie importanti di Cosa nostra ed i servizi segreti deviati”. E sempre parlando del coinvolgimento degli uomini di Brancaccio Di Matteo ha ricordato Scarantino avesse parlato di Giuseppe e Filippo Graviano, i capimandamento, ma anche Tinnirello, Tagliavia e Cannella. “E’ chiaro che Spatuzza dà loro un ruolo più preciso – ha detto Di Matteo – ma io devo riferire i fatti e non è corretto dire che Brancaccio viene esclusa di responsabilità da Scarantino. Inoltre avevamo anche elementi che portavano a Brancaccio e che venivano dalle dichiarazioni del pentito Ferrante, che doveva avvisare del passaggio della macchina di Borsellino in via Belgio. Dal suo telefono partirono le chiamate a Fifetto Cannella in un’utenza che faceva riferimento a Giuseppe Graviano.

Il punto critico, i confronti con i pentiti. Ecco la verità di Di Matteo
“Il problema dell’attendibilità di Scarantino c’è stato nel momento in cui ha collocato in una riunione presso la casa di Giuseppe Calascibetta, tre collaboratori di giustizia che non avevano parlato della strage: Mario Santo di Matteo, Gioacchino La Barbera e Totò Cancemi. In quel momento a noi venne il dubbio che Scarantino mentisse ma sul piano investigativo avevamo ragioni concrete per ritenere che anche gli altri tre collaboratori mentissero”. Il sostituto procuratore nazionale antimafia, che come da lui richiesto è stato sentito in un’udienza pubblica e non segreta, ha nuovamente spiegato i motivi che portarono i pm a non depositare nell’immediatezza quei confronti.
Come è noto il deposito posticipato di quegli atti al processo “Borsellino bis” era costata una denuncia da parte degli avvocati Di Gregorio, Marasà e Scozzola nei confronti dei pm Annamaria Palma, Carmelo Petralia e Nino Di Matteo per “comportamento omissivo”. A loro volta i magistrati avevano denunciato per calunnia i tre avvocati. Il 25 febbraio 1998 il Gip di Catania aveva definitivamente archiviato l’inchiesta sui sostituti procuratori di Caltanissetta in quanto priva di alcun “comportamento omissivo”. “Quei confronti furono comunque depositati prima della fine del dibattimento del bis – ha detto oggi Di Matteo – ma in quel momento c’erano da chiudere le inchieste. Cancemi e Mario Santo Di Matteo erano anche indagati nel Borsellino ter ed avevamo delle perplessità. Cancemi fino a quel momento era un mentitore perché negava di aver preso parte alla strage di via d’Amelio. Solo nel 1996, in un interrogatorio, mi confessa che anche lui aveva partecipato. Mario Santo Di Matteo, invece, presentava un altro motivo di perplessità. Lui stava vivendo la triste sventura del sequestro del figlio ed intercettando il primo colloquio con la moglie, Franca Castellese. Un dialogo in cui implorava al marito di non parlare della strage di via d’Amelio perché in quella vicenda ci sono in mezzo anche gli uomini della polizia”. “Su La Barbera abbiamo saputo che questi era rientrato in armi a Palermo, commettendo dei delitti. Siccome c’erano delle indagini in corso noi abbiamo prima voluto fare le indagini per capire chi stesse mentendo e poi abbiamo depositato i confronti”.

La ritrattazione di Como
Nel corso dell’audizione il pm Di Matteo ha anche ricordato la vicenda della ritrattazione in aula di Scarantino a Como: “Noi pm fummo accusati ma sapevamo che avrebbe ritrattato. Avevamo precisi elementi che ci consentivano di apprendere per tempo quella decisione. Ad esempio c’erano le dichiarazioni di un sacerdote, Don Neri, che assisteva Scarantino nel nord Italia il quale aveva dichiarato che questi si era riunito con alcuni familiari e soggetti per farlo ritrattare e concordando anche le modalità con cui questa sarebbe dovuta avvenire. Poi c’erano anche le intercettazioni ambientali a casa del latitante Gaetano Scotto, la moglie Cosima D’Amore disse che un avvocato aveva chiesto ai familiari del latitante una raccolta di fondi da dare a Scarantino per farlo ritrattare. Per questo, sia da noi, che dalla Corte, quella ritrattazione fu ritenuta indotta”.

La verità vicina e l’agenda rossa
“Sulla strage di via d’Amelio siamo a un passo dalla verità. Mai come ora siamo vicini alla verità. E questo grazie a me e ad altri magistrati – ha aggiunto il pm – Non è giusto che questi magistrati siano oggi accostati a depistaggi e questa accusa è strumentale a chi non vuole che si vada avanti”. Di Matteo ha anche parlato dei “prezzi altissimi” pagati da lui stesso e dai suoi familiari proprio per l’accertamento della verità. Quindi ha offerto una chiave di lettura sulla scomparsa dell’agenda rossa di Borsellino: “Non c’è alcun dubbio che Paolo Borsellino tenesse un’agenda rossa che gli era stata regalata dai carabinieri e che quel giorno l’avesse con sé. Non c’è alcun dubbio che avesse annotato con particolare ansia circostanze che aveva scoperto, cose molto gravi. E non c’è alcun dubbio che in quel momento c’era una trattativa tra il Ros e Riina con l’intermediazione e Ciancimino. Oggi si sa anche che Borsellino il 15 luglio aveva parlato alla moglie di un alto ufficiale del Ros che prima gli era amico. I mafiosi hanno fatto la strage ma il furto dell’agenda rossa non può essere stato fatto da chi ha premuto il pulsante”. Per questo motivo, ha concluso il magistrato “per arrivare alla verità sulla strage di Via D’Amelio la prima cosa da approfondire e il furto dell’agenda rossa sulla quale lui scriveva cose molto gravi, parole sue”.

La vicenda Contrada
Rispondendo ad una domanda sulla richiesta di aiuto per le indagini che il Procuratore Capo di Caltanissetta fece all’ex numero tre del Sisde Bruno Contrada Di Matteo ha ricordato alcune indagini da lui stesso compiute: “Io ho scoperto questa cosa nel 1995-1996, quando Contrada era già stato arrestato. Era accaduta una cosa molto particolare. Uno o due giorni dopo la strage un ufficiale dei Carabinieri del Ros, il capitano Sinico, era andato in Procura dicendo ad alcuni magistrati, tra cui Ingroia e Teresi, che aveva saputo che immediatamente dopo lo scoppio della bomba in via d’Amelio la prima pattuglia accorsa sul luogo della strage aveva visto allontanarsi Bruno Contrada. Questi magistrati riferirono tutto ai pm nisseni. Mi pare che Sinico fu anche interrogato dalla Boccassini e lui però rispose di averlo saputo da un suo intimo amico ma di non voler rivelare la sua fonte. Quando nel ’95 presi in mano il procedimento che vedeva iscritto per concorso in strage Contrada e mi accorsi che quell’aspetto non era stato totalmente sviluppato. Sinico parlava di un amico, non di un confidente. Così iniziammo l’indagine ed emerse che l’altra persona era il funzionario di polizia Di Legami il quale però negava la circostanza. Indagammo su Di Legami per false dichiarazioni ai pm ma poi questo fu assolto. Da parte mia posso dire che si è cercato di approfondire al massimo ed incriminare i funzionari di polizia, e questo non è certo un’azione di chi vuole coprire la polizia”.

Foto © Imagoeconomica

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Audizione del pm Di Matteo davanti alla I commissione del CSM nell’ambito del fascicolo sulle indagini sulla strage di via D’Amelio

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FONTE: antimafiaduemila.com