Salvatore Borsellino: ”La verità sulle stragi? Non ci sono più magistrati che intendono sacrificarsi come Nino Di Matteo”

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Alla festa del Fatto presentato il libro “La Repubblica delle stragi”

di Giorgio Bongiovanni e Aaron Pettinari
“La verità sulle stragi? Non ci sono più magistrati che intendono sacrificarsi per essa come Nino Di Matteo”. Salvatore Borsellino, fratello del magistrato ucciso in via d’Amelio il 19 luglio di Ventisei anni fa, lo dice chiaramente intervenendo nell’arena della Versiliana, alla Festa del Fatto Quotidiano. L’occasione era data dalla presentazione del libro “La Repubblica delle stragi” (edizioni Paper first) da lui curato e scritto a sette penne da Nunzia e Stefano Mormile, Giovanni Spinosa, Federica Fabbretti, Fabio Repici, Antonella Beccaria, Giuseppe Lo Bianco e con la collaborazione di Marco Bertelli. Accanto a Borsellino, sul palco, vi erano proprio Fabio Repici, avvocato e tra gli autori del libro, il vicedirettore del Fatto Marco Lillo e il coordinatore di Fq Millenium Mario Portanova. Così, di fronte ad una platea di 1500 persone, si è tornati a ragionare su quanto avvenuto in quel lontano (ma non troppo) 1992, non solo per comprendere perché il giudice Borsellino è stato ucciso, ma anche perché successivamente è stato messo in atto quello che la Corte d’assise di Caltanissetta, nelle motivazioni della sentenza Borsellino quater, hanno definito come “il più grave depistaggio della storia”. Proprio questa sentenza, a cui si aggiunge quella sulla trattativa Stato-mafia che ha portato alla condanna in primo grado di mafiosi, rappresentanti delle Istituzioni ed ex politici, rappresenta il punto di partenza da cui si dovrebbe ripartire per quella ricerca della verità che resta necessaria non solo per conoscere il nostro passato ma, ancor di più, per comprendere quel che avviene nel nostro presente. Eppure, come ha sottolineato Salvatore Borsellino, salvo alcune eccezioni, nessuna procura sembra essere attiva sulla ricerca dei colpevoli delle stragi ed in particolare su quei “mandanti esterni”, la cui mano appare più che mai evidente anche dalla lettura delle carte processuali.
Nella sua prefazione Marco Travaglio scrive apertamente che il libro andrebbe regalato “ai procuratori della Repubblica competenti, perché raccolgano e sviluppino i preziosi e documentati spunti che contiene. Ogni capitolo fa i nomi dei possibili mandanti e di altri eventuali complici dei crimini che hanno visto condannare soltanto gli esecutori materiali”. Ed in un altro passaggio della prefazione, così come ha ricordato Portanova, il direttore del Fatto Quotidiano scrive che “sono sempre meno i magistrati disposti a sacrificare la carriera per indagini come queste”. E tra questi vi è anche il Sostituto Procuratore Nazionale Antimafia che con le sue indagini, a cui si aggiungono quelle di magistrati come (Luca Tescaroli, Antonio Ingroia, Roberto Scarpinato, Sebastiano Ardita, Nicola Gratteri, Giuseppe Lombardo, Vittorio Teresi, Francesco Del Bene, Roberto Tartaglia e pochi altri), in questi anni ha cercato di far luce proprio sui volti dei mandanti esterni di quelle stragi.
Anche Fabio Repici, nel suo intervento ha evidenziato le difficoltà di un momento storico paradossalmente difficile per la ricostruzione della verità. “E’ un momento particolare nella nostra magistratura – ha ricordato il legale – perché per puro paradosso, oggi i giudici nella ricostruzione dei fatti sono più avanti dei pubblici ministeri. Successe a piazza Fontana, sulle scalate bancarie a Milano e la cosa è deflagrata con la sentenza del Borsellino quater. Quali sono allora le prospettive? Quando il Csm convoca Nino Di Matteo mica gli vuole far pagare l’operato a Caltanissetta del 1994. Piuttosto deve essere punito per le indagini successive. E’ difficile trovare pm che abbiano il coraggio di andare avanti nella ricerca della verità. Oggi sono pochissime o quasi nessuna le procure antimafia disposte a operare su questi temi”. I nodi rimasti aperti sono diversi. E il quadro investigativo-giudiziario vede quattro fronti aperti. A Reggio Calabria il pm Giuseppe Lombardo sta portando avanti un processo parallelo a quello sulla trattativa Stato-mafia (il processo ‘Ndrangheta stragista) evidenziando il coinvolgimento della criminalità organizzata calabrese proprio in quel progetto di attentato allo Stato che ha visto Cosa nostra (e non solo) in primissima fila. A Firenze è stato riaperto il capitolo sui mandanti esterni delle stragi del 1993 (indagati sono l’ex premier Silvio Berlusconi e l’ex senatore Marcello Dell’Utri) mentre a Caltanissetta si procede con le indagini sull’Agenda Rossa, sulle stragi (è in corso il processo contro Matteo Messina Denaro) ed è stato chiesto il processo per i tre poliziotti Mario Bo, Michele Ribaudo e Fabrizio Mattei, con l’accusa di calunnia in concorso. Proprio nella sentenza del Borsellino quater i giudici scrivono che “È lecito interrogarsi sulle finalità realmente perseguite dai soggetti, inseriti negli apparati dello Stato, che si resero protagonisti di tale disegno criminoso, con specifico riferimento ad alcuni elementi”. E gli uomini dello Stato chiamati in causa sono gli investigatori del gruppo Falcone e Borsellino, guidati dall’allora capo della squadra mobile di Palermo, Arnaldo La Barbera, di cui Bo, Ribaudo e Mattei facevano parte. A Palermo, inoltre, è ancora aperta l’inchiesta bis sulla trattativa Stato-mafia che vede tra gli indagati il boss di Brancaccio Giuseppe Graviano. Nel libro si cercano di riannodare i fili della storia, passando anche tra le varie inchieste condotte e quelle ancora aperte, come quelle sul duplice omicidio del poliziotto Antonino Agostino e della moglie Ida Castelluccio, o il caso della morte dell’urologo Attilio Manca. “Nel corso del nostro lavoro”, ha detto ancora Repici, “ci siamo resi conto che non c’è un grande vecchio che ha regolato tutte le stragi. Ma molti nomi e strutture che si ripetono. Quando abbiamo cominciato a scrivere il libro alcuni di noi avevano la memoria di cosa avevano fatto personaggi come Danilo Dolci, Michele Pantaleone, Pio La Torre. Questo è un libro che ha avuto l’ambizione di dire che in questo Paese non sono capitate vicende criminali come fossero delle monadi, tutte eseguite autonomamente. Uno dei nodi centrali della sentenza Borsellino quater dice proprio che insieme a Cosa nostra hanno operato altri e che c’è stato un depistaggio di Stato. La Corte d’assise chiude con una domanda: ‘Quali motivazioni poteva mai avere’ chi ha ordito quel depistaggi?”. Repici ha anche girato un appello all’attuale Governo, affinché si adoperi in prima persona nella ricerca della verità “che non deve essere accollata solo ai familiari delle vittime”.
Anno dopo anno questa diventa sempre più difficile. Tuttavia Salvatore Borselino si è detto “ottimista”, anche se “la strada è ancora impervia”. “Nel libro – ha aggiunto – c’è tutta la mia vita. Si parla dei cosiddetti ‘mandanti a volto coperto’ o quelle entità che collegano direttamente gli eccidi accreditati a Cosa nostra e al terrorismo nero alle più alte sfere dello Stato”. Parlando del fratello ha ricordato che “non è un eroe, ma era una persona che voleva fare il magistrato e stava combattendo un nemico che era la criminalità organizzata. E’ come un soldato andato in guerra per combattere e poi ucciso da un nemico che gli è arrivato alle spalle. E’ soltanto un uomo che voleva fare il suo dovere”. Nel corso dell’incontro è stata anche ricordata Rita Borsellino. Un momento emozionante, proposto da uno degli spettatori che aveva chiesto un minuto silenzio. “Io non faccio più minuti di silenzio”, ha risposto Salvatore, “a me piace gridare i nomi delle persone che non ci sono più”. E l’emozione si è fatta ancora più forte proprio al grido “Rita Borsellino”, accompagnato dalla folla presente. Poi Salvatore ha proseguito: “Di noi fratelli sono rimasto solo io. Ma i traditori e gli assassini non dormano sonni tranquilli. Finché ci sarà un solo Borsellino su questa terra non dovranno avere pace. Dopo questa parziale verità, c’è una strada altrettanto ardua. Io non potrò percorrerla fino alla fine. Ma ci saranno altri giovani che la faranno per me alzando un’agenda rossa”. Quindi ha concluso con amarezza: “Non credo potrò avere la fortuna di vedere quel processo che io mi aspetterei. La sentenza Borsellino quater ha messo nero su bianco il fatto che c’è stato un depistaggio di Stato, significa che chi lo ha ordito o ha partecipato all’omicidio o era in contatto con una fonte. Io voglio sapere chi ha voluto questo depistaggio. Non io, non i familiari delle vittime, tutti dobbiamo pretendere la verità”. Anche il vicedirettore Marco Lillo ha ripercorso i fatti della storia ed ha evidenziato il peso delle “bombe del dialogo” di quel terribile biennio. Bombe che erano state fatte esplodere contro Maurizio Costanzo, le Chiese e mentre l’Italia piangeva la morte di Falcone e Borsellino. “E’ scorretto leggere la vicenda come se c’è da un lato lo Stato e di là c’è l’anti Stato – ha aggiunto Lillo – In quegli anni ci sono stati due Stati: uno Stato che combatteva la mafia sapendo di andare incontro alla morte, dall’altra uno Stato che capiva il significato di bombe e stragi e poi chiudeva un armistizio che è scritto con il sangue di chi ha lottato contro la mafia”. Quindi ha raccontato un altro episodio, come l’intercettazione di Silvio Berlusconi che ride con Marcello Dell’Utri e Fedele Confalonieri nel 1986 quando esplode la cancellata di casa. “Berlusconi chiama Dell’Utri e la prima cosa che gli dice è: ‘E’ stato Mangano’. – ha ricordato Lillo – Considerato che Berlusconi si fidava così tanto di Mangano da affidargli i figli per portarli a scuola, viene da chiedersi perché dai tuo figlio a uno che mette le bombe nei cancelli? Comunque quando Dell’Utri nega che sia stato Mangano, Berlusconi replica: ‘E’ stato lui, un altro ti manda una raccomandata, lui ti mette una bomba’. E’ la bomba del dialogo”. Ma questi fatti, questi episodi, spesso vengono dimenticati dall’opinione pubblica e taciuti dalla grande stampa. Anche per questo “La Repubblica delle Stragi” diventa importante. Per conoscere, capire e pretendere nuove risposte.

Fonte:Antimafiaduemila