Di Matteo: ”La rivoluzione antimafia parte dai giovani”


Nando dalla Chiesa: “Esistenza di qualche patto indicibile che sta passando nella inconsapevolezza dell’opinione pubblica italiana”
di Giorgio Bongiovanni e Francesca Panfili

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Tutto sold out ieri sera per l’intervento del sostituto procuratore nazionale antimafia Nino Di Matteo che si è svolto a Milano ed è stato organizzato in occasione della “Giornata della Memoria e dell’Impegno in ricordo delle vittime delle mafie” da Wikimafia. La platea che ha partecipato all’evento era composta per la maggior parte da giovani ed a loro Nino Di Matteo ha parlato di mafia, corruzione, informazione e democrazia.
Parlare di mafia a Milano, assume un significato ancora più importante oggi che il paradigma mafioso si è evoluto rispetto agli ultimi vent’anni. “La questione mafiosa non riguarda solo la Sicilia ma è una questione di portata nazionale da sempre” ha detto Nino Di Matteo. Si tratta di una questione nazionale non soltanto perché le organizzazioni criminali operano anche in Lombardia e in altre regioni del nord, ma anche perché il fenomeno corruttivo e criminale coinvolge la politica e le istituzioni in generale, come sanciscono alcune sentenze definitive che pesano come macigni sulla storia del nostro paese. “La sentenza Andreotti – ha ricordato il magistrato – spiega che un politico, sette volte presidente del Consiglio, ha avuto rapporti significativi e diretti con capi mafiosi siciliani almeno fino al 1980, anche per discutere dei danni che Piersanti Mattarella stava portando a Cosa nostra, prima e dopo l’omicidio”. Altro eclatante e più recente esempio di come l’azione mafiosa, infiltrata fin dentro le istituzioni, abbia caratterizzato i tratti più salienti della storia del nostro paese è la condanna per concorso esterno in associazione mafiosa a Marcello Dell’Utri, cofondatore di Forza Italia. Nella sentenza si “sancisce definitivamente che è stato il mediatore di un accordo stipulato qui a Milano tra Berlusconi e famiglie siciliane” ha detto Di Matteo sottolineando che i giudici scrivono che tale “accordo fu rispettato almeno fino al 1992”.
Così come il fatto che “negli ultimi venti anni due dei Presidenti della Regione Sicilia, la regione più grande e popolosa d’Italia, sono stati inquisiti, processati e condannati per reati di mafia”.
Questi e altri esempi fanno ben capire che “la questione mafiosa è l’espressione più grave e angosciante della nostra terra” ha continuato Di Matteo, e che “la lotta alla mafia non è solo una questione di ordinaria repressione criminale ma è una lotta per l’affermazione della libertà e della democrazia”. Mafia e corruzione, ha spiegato il sostituto procuratore, non viaggiano su binari paralleli ma si intersecano e non sono un mito. Entrambi “rappresentano una compressione effettiva alla nostra libertà e alla nostra democrazia e sono anche la più grave forma di disapplicazione continua, quotidiana e costate della Costituzione” ha insistito Di Matteo. Ma la percezione del pericolo mafioso e corruttivo oggi non viene percepita nella sua interezza dai cittadini e la mancanza di un dibattito pubblico su questi temi rispecchia la disattenzione e l’assordante silenzio di una classe politica che si è dimenticata della lotta alla mafia e alla corruzione anche in campagna elettorale. “Ho notato una grave disattenzione in campagna politica e un silenzio assordante rispetto la lotta alla mafia e corruzione – ha detto amareggiato il magistrato – lo considero preoccupante nell’ottica della nostra democrazia”. Dello stesso avviso è Nando dalla Chiesa, che intervenendo a fine incontro ha restituito un’analisi allarmante: “Credo stiamo attraversando una fase in cui il movimento antimafia cresce molto e la politica fa poco e fa il contrario di quello che potrebbe fare, in campagna elettorale nessuno ha posto questa minaccia dentro l’agenda politica” mentre, come ha insegnato l’esperienza in parlamento negli anni successivi alle stragi “ci sono sempre buone motivazioni in cui si fanno favori alla mafia”. “Sotto la veste dei diritti dei detenuti stanno passando dei segnali” ha detto dalla Chiesa riferendosi alla riforma carceraria. “I segnali li da lo Stato quando pensa sia arrivato il momento in cui l’opinione pubblica fa le sue manifestazioni ma non ha attenzione necessaria per capire che cosa sta accadendo sotto la superficie”. Fatti che fanno pensare, come ha detto il sociologo dalla Chiesa, all’“esistenza di qualche patto indicibile che nella inconsapevolezza dell’opinione pubblica italiana sta passando”.
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Invece di ragionare su come modificare la 416bis, andrebbero riviste le norme sul reato di corruzione, come ha suggerito Di Matteo. Sono pochissime le persone che “stanno scontando la pena per i reati di corruzione – ha ricordato il magistrato – da questo possiamo dedurre che il fenomeno corruttivo è tuttora impunito”. Nonostante sia chiaro da tempo che “il metodo mafioso e quello corruttivo sono due facce della stessa medaglia criminale”.
Senza quindi gli strumenti anche legislativi diviene difficile condurre una lotta alla mafia compatta.
“La guerra alla mafia non può essere combattuta esclusivamente da noi magistrati e dall’apparato repressivo delle forze di polizia – ha aggiunto Di Matteo – Noi rappresentiamo un meccanismo importante di una contrapposizione che però deve essere totale e deve vedere un coinvolgimento maggiore della politica. Una politica che deve tornare in prima linea nella lotta alla mafia  come ha fatto in certi momenti della nostra storia. Ci deve essere anche una rivoluzione culturale che deve partire dal basso, dai giovani, dai cittadini, dalle politiche sul lavoro, dal cambiamento di mentalità dei giovani che devono iniziare fin da piccoli a mettere da parte la mentalità della raccomandazione e del favoritismo come modalità per raggiungere i loro obiettivi”.
Parlando del cambiamento del paradigma mafioso, Di Matteo ha posto l’accento sull’importanza di sfatare un pregiudizio culturale comune, basato sulla visione di una mafia costituita da uomini analfabeti pronti a compiere efferati delitti. Questa è solo una componente della mafia stragista. Una componente pronta ad eseguire ordini di mafiosi dai colletti bianchi, uomini laureati e socialmente influenti, che sanciscono patti e trattano con le istituzioni. Per questa ragione il fitto intreccio tra corruzione, a partire dal voto di scambio, politica, mafia e imprenditoria richiede necessariamente dispositivi legislativi adeguati ad una efficace azione repressiva. Un’azione repressiva che passa per la conoscenza del fenomeno da parte del sistema informativo complice, nella maggior parte dei casi, di omettere ai cittadini verità scomode e scottanti. Verità che sono state dimostrate in sentenze definitive come la sentenza Tagliavia che ha sancito l’esistenza di una trattativa tra esponenti dello Stato e pezzi di Cosa Nostra attraverso la mediazione di soggetti appartenenti alle istituzioni che tutt’oggi vivono come cittadini liberi. Queste sentenze sono state una parte fondamentale dell’impianto accusatorio del processo sulla trattativa che a breve si concluderà a Palermo. “Sul nostro processo ci sono molte polemiche perché noi abbiamo avuto il coraggio di muovere delle contestazioni a dei soggetti anche istituzionali in carne ed ossa” ha detto Di Matteo, mantenendo la riservatezza dei dettagli di un processo che per la prima volta mette alla sbarra membri delle istituzioni, mafiosi, generali dei  carabinieri accusati del reato di “concorso alla minaccia a corpo politico dello stato” per essersi fatti mediatori di una vergognosa trattativa tra lo Stato e la mafia.
“Al di là della sentenza nessuno potrà negare il fatto che con questo processo sono venuti alla luce dei fatti che non erano conosciuti e che erano rimasti sconosciuti anche per una omertà istituzionale” ha aggiunto il magistrato riferendosi a diversi smemorati di Stato che hanno recuperato la memoria solo dopo le dichiarazioni del figlio di don Vito Ciancimino.
Un omertà istituzionale che come si augurano Nino Di Matteo e Salvatore Borsellino possa rompersi con il pentimento di “qualcuno che dall’interno delle istituzioni ci dica quello che sa” così da “accertare tutta la verità”. Verità che il fratello di Paolo Borsellino, così come gli altri famigliari, stanno ancora aspettando. Anche se, come ha ricordato Di Matteo a Salvatore un piccolo passo avanti è stato fatto grazie alla grande forza che lo stesso fondatore del movimento Agende rosse diffonde a macchia d’olio con la sua persona. “Tu Salvatore sei stato uno stimolo vivente per molti giovani e per alcuni magistrati e forze ordine – ha ricordato Di Matteo – ed è grave che ancora non hai una verità completa ma, mentre prima chi affermava che ci fossero altri protagonisti dietro i mafiosi veniva considerato un visionario, adesso è la Commissione parlamentare antimafia ad affermarlo, certo non ci si può fermare alla mera affermazione ma bisogna avere il coraggio di proseguire”.
“Io credo, anche alla luce di risultanze investigative, che accora oggi ci sia un zoccolo duro  di uomini d’onore che sono pronti a ritornare alla strategia di attacco frontale allo Stato, forse qualcuno sta cogliendo qualche segnale incoraggiante già – ha concluso Di Matteo -. Però lo Stato deve giocare sempre all’attacco rispetto alla mafia non è possibile che si ricada sempre negli stessi errori, quelli legati ad una apparente tranquillità che ha fatto allentare la guardia. Lo stato deve giocare all’attacco come se avessimo avuto fino a ieri il sangue dei martiri sulle nostre strade. Solo così si può vincere la mafia”.

fonte: antimafiaduemila.com