La morte ”dignitosa” di uno stragista e quel (gravissimo) segnale dello Stato

di Lorenzo Baldo

Rabbia. E anche tanta amarezza. Il segnale inquietante lanciato dallo Stato nei confronti di Totò Riina è fin troppo eloquente. Così come il silenzio dei massimi vertici delle istituzioni. Che si sono ben guardati dal ricordare che Totò Riina, a cui si auspica “una morte dignitosa”, è lo stesso boss stragista che recentemente ha emesso la condanna a morte nei confronti del pm Nino Di Matteo, con tanto di tritolo nascosto a Palermo. A ricordare questo “dettaglio” è stato il Procuratore nazionale antimafia Franco Roberti. Certo è che da un presidente della Repubblica a cui Cosa Nostra ha ammazzato un fratello ci si aspettava una forte presa di posizione. Che non c’è stata nemmeno da parte di un presidente del Senato impegnato per anni sul fronte della lotta alla mafia. Nessuna sorpresa per le bocche cucite della presidente della Camera o dell’attuale Premier. Niente di nuovo sotto il sole. Solo rabbia e amarezza.
A gridare tutto il loro sdegno sono rimasti soprattutto i familiari delle vittime di mafia, accanto a loro alcuni esponenti dell’associazionismo antimafia, qualche giornalista e qualche intellettuale, ed alcuni politici, in buona o cattiva fede.
“Pagano le cambiali che hanno firmato 25 anni fa” grida Salvatore Borsellino, osservando lo stato in cui versa la giustizia nel nostro Paese non si può che dargli ragione. “Penso che mio padre una morte dignitosa non l’ha avuta – è stato il commento di Rita dalla Chiesa, figlia del generale Carlo Alberto -, l’hanno ammazzato lasciando lui, la moglie e Domenico Russo in macchina senza neanche un lenzuolo per coprirli”.
Lo Stato ha paura che Riina possa parlare? La risposta non può essere che affermativa per una democrazia come la nostra fondata sui ricatti politico-mafiosi intrisi del sangue di tanti martiri. Tornano in mente alcuni episodi che riguardano gli stragisti Filippo e Giuseppe Graviano, o il boss barcellonese Rosario Pio Cattafi: esponenti di Cosa Nostra che, di fronte ad una paventata possibilità di parlare con i magistrati, si ritrovano magicamente “graziati” da quello stesso Stato che non può tollerare una loro eventuale collaborazione. E dal passato riaffiorano ugualmente le parole di Totò Riina pronunciate nel 2009 durante un colloquio in carcere con il suo avvocato Luca Cianferoni. Quel giorno di metà luglio Riina, alludendo alla strage di via d’Amelio, era stato alquanto circostanziato: “L’ammazzarono loro!”. Il boss corleonese ci aveva tenuto a smarcarsi dall’avere avuto lui la colpa della strage di via d’Amelio. E aveva puntato il dito su “loro”. Gli “esterni” a Cosa Nostra. Una volta uscito dal penitenziario l’avv. Cianferoni aveva spiegato ai giornalisti di aver ricevuto l’incarico dallo stesso Salvatore Riina di far sapere ciò che lui pensava. Il legale aveva riportato fedelmente che il suo cliente era consapevole che la sua situazione processuale nell’inchiesta Borsellino non sarebbe cambiata, ma ciò nonostante voleva far sapere quello che pensava. Cianferoni aveva quindi rivelato poi di aver parlato con Riina della trattativa Stato-mafia e che il boss aveva sostenuto di essere stato oggetto e non soggetto di quel patto e che la trattativa era passata sopra la sua testa. Poi, riferendosi agli uomini delle istituzioni, il boss gli aveva aggiunto: “Non guardate sempre e solo me, guardatevi dentro anche voi”. Parole quanto meno allarmanti per uno Stato-mafia che non può permettersi il rischio di tirare fuori gli scheletri dai propri armadi. Basta vedere gli ostacoli posti in essere nei confronti dei magistrati che in un regolare processo – per lo più ignorato dai grandi media e osteggiato da più parti – cercano la verità sul patto tra Stato e mafia. Una verità che è fin troppo pesante e che nessuno vuole. A meno che uno scatto di orgoglio e un sussulto di dignità della parte sana di questo Paese contribuisca finalmente a riportarla alla luce. Una volta per tutte.
L’auspicio che Totò Riina finisca la sua vita terrena in carcere – con tutte le cure necessarie, ma in carcere –  diventa un dovere morale di chi amministra la giustizia. Un obbligo morale nei confronti di tutte le vittime di questa guerra in cui, a volte, Cosa Nostra è stata il braccio armato dello Stato.

Fonte:antimafiaduemila