Anniversario strage di Capaci

Chi sono gli assassini del giudice Falcone?
di Giorgio Bongiovanni

Resta l’amaro in bocca nell’apprendere la scelta di non partecipare di Saverio Lodato, scrittore ma anche amico personale di Giovanni Falcone, alle cerimonie del 25° anno della strage di Capaci, in cui furono uccisi insieme al magistrato Francesca Morvillo e gli agenti di scorta Antonio Montinaro, Rocco Dicillo e Vito Schifani.
Quella di Lodato è una protesta e una denuncia, rivolta a Maria Falcone in qualità di presidente della fondazione dedicata al ricordo del fratello, nata dallo sconcerto e dall’amarezza di chi ha vissuto gli anni in cui Falcone era a Palermo (e poi a Roma). Un messaggio rivolto anche alle istituzioni, a questo governo e a quelli che verranno, affinché al posto di calcare le passerelle ogni 23 maggio si faccia il possibile per la ricerca dei mandanti esterni (ancora senza volto, ma la cui presenza è acclarata dalle sentenze) che si celano dietro la strage di Capaci.
ANTIMAFIADuemila, come ogni anno, darà il proprio personale contributo per ricordare Giovanni Falcone, con l’annuale conferenza alla Facoltà di Giurisprudenza. Comprendiamo profondamente da cosa ha origine l’assenza di Lodato, che da giornalista fu attento osservatore degli anni della mattanza perpetrata a Palermo da Cosa nostra, e dell’eroico impegno di quel pugno di magistrati e agenti delle forze dell’ordine che la mafia la volevano sconfiggere davvero, al prezzo di vivere uno schiacciante clima di isolamento. D’altronde, afferma la sentenza di Cassazione (riportata ne “L’assedio” di Giovanni Bianconi), “non vi è dubbio che Giovanni Falcone fu sottoposto a un infame linciaggio – prolungato nel tempo, proveniente da più parti, gravemente oltraggioso nei termini, nei modi e nelle forme – diretto a stroncare per sempre, con vili e spregevoli accuse, la reputazione e il decoro professionale del valoroso magistrato. Non vi è alcun dubbio che Giovanni Falcone – certamente il più capace magistrato italiano – fu oggetto di torbidi giochi di potere, di strumentalizzazioni a opera della partitocrazia, di meschini sentimenti di invidia e gelosia (anche all’interno delle stesse istituzioni), tendenti a impedirgli che assumesse quei prestigiosi incarichi i quali dovevano, invece, a lui essere conferiti sia per essere egli il più meritevole, sia perché il superiore interesse generale imponeva che il crimine organizzato fosse contrastato da chi era indiscutibilmente il più bravo e il più preparato, e offriva le maggiori garanzie – anche di assoluta indipendenza e di coraggio – nel contrastare, con efficienza e in profondità, l’associazione criminale”.
Ma altri magistrati, oggi, stanno vivendo lo stesso clima di isolamento subito all’epoca da Giovanni Falcone e Paolo Borsellino. Uno su tutti è Nino Di Matteo, pm di Palermo sul quale – lo ribadiamo ancora una volta – pendono le condanne a morte di Totò Riina e un progetto di attentato mai finora revocato. Sui pericoli corsi dal magistrato più scortato d’Italia vige il silenzio più assoluto, eccezion fatta per A very sicilian justice, documentario prodotto da Al-Jazeera in collaborazione con la Bbc, narrato dalla voce di Helen Mirren, prestigioso Premio Oscar. Se quest’anno quel documentario comparisse sugli schermi delle televisioni italiane – o addirittura se la Fondazione Falcone, in diretta televisiva, lo proiettasse il 23 maggio all’aula bunker di Palermo – sarebbe il segnale che i nostri rappresentanti istituzionali, finalmente, riconoscerebbero che il muro del silenzio orchestrato per Falcone e Borsellino, dentro e fuori le Istituzioni, esiste ancora oggi. E che è necessario abbatterlo una volta per tutte.

In foto: Giovanni Falcone insieme alla moglie Francesca Morvillo (© Umberto Pizzi/Giacomino Foto)

Fonte:Antimafiaduemila