Pio La Torre, un politico dalla ”schiena dritta” contro mafia e potere

Cosa resta della sua memoria trentacinque anni dopo il delitto
di Aaron Pettinari


Trentacinque anni. Tanto è passato da quando il 30 aprile 1982 è stato ucciso mentre stava raggiungendo la sede del suo partito.
Da non molto erano passate le nove del mattino. Assieme a lui, a bordo della Fiat 132, c’era anche Rosario Di Salvo. Le cronache raccontano che ad un certo punto la macchina è stata affiancata da una moto e che alcuni uomini dal volto coperto dal casco hanno sparato una lunga raffica di colpi. A completare l’opera ci pensarono altri uomini, scesi da un’auto. Pio La Torre morì all’istante mentre Di Salvo ebbe il tempo per estrarre una pistola e sparare alcuni colpi, prima di soccombere.
Grazie alle rivelazioni di pentiti come Tommaso Buscetta, Francesco Marino Mannoia, Gaspare Mutolo e Pino Marchese quel delitto è stato classificato come omicidio di mafia e così sono stati condannati i boss Giuseppe Lucchese, Nino Madonia, Salvatore Cucuzza e Pino Greco.
Sempre grazie ai pentiti, a cui si è successivamente aggiunto anche Cucuzza, è stato ricostruito il quadro dei mandanti identificati nei boss Totò Riina, Bernardo Provenzano, Pippo Calò, Bernardo Brusca e Antonino Geraci.
Il quadro delle sentenze ha permesso di individuare nell’impegno antimafia di Pio La Torre la causa determinante della condanna a morte inflitta dalla mafia del politico siciliano. E’ stato lui, infatti, a scrivere la legge-svolta sul 416 bis, che ha introdotto il reato di associazione mafiosa punibile con una pena da tre a sei anni per i membri, pena che saliva da quattro a dieci nel caso di gruppo armato. Viene stabilita la decadenza per gli arrestati della possibilità di ricoprire incarichi civili e soprattutto, cosa ancor più temuta, l’obbligatoria confisca dei beni direttamente riconducibili alle attività criminali perpetrate dagli arrestati. Una legge che verrà approvata soltanto dopo la sua morte.
Non solo. Da componente della Commissione Parlamentare Antimafia, nel 1976, fu tra i redattori della relazione di minoranza in cui, accanto alla ricostruzione storica del fenomeno, si poneva l’accento sull’analisi dei traffici internazionali di droga, sulle ramificazioni orizzontali e verticali, nel Palazzo, di Cosa Nostra, sulla capacità di penetrazione nell’economia e nelle banche.
La Torre in quel documento scriveva anche i nomi di importanti uomini politici, in particolare della Democrazia Cristiana in rapporti con la mafia corleonese in un tempo in cui quegli stessi nomi non comparivano in alcuna relazione delle forze dell’ordine o nelle sentenze della magistratura.
Nomi come quello di Vito Ciancimino, assessore ai lavori pubblici del comune di Palermo dal 1959 al 1964 e poi sindaco del capoluogo siciliano fino al 1975, di Salvo Lima e dell’imprenditore Francesco Vassallo.
Nero su bianco si parlava anche della vicenda che aveva portato all’uccisione del sindaco di Camporeale Pasquale Almerico, reo di essersi opposto alla penetrazione della cosca di Vanni Sacco nel partito. La Torre scriveva che, l’allora segretario provinciale della DC, il fanfaniano Giovanni Gioia “non batté ciglio e proseguì imperterrito nell’opera di assorbimento delle cosche mafiose nella DC”. E poi ancora indicazioni sul ruolo dell’imprenditore Cassina, per decenni unico collettore degli appalti pubblici a Palermo e subappaltatore a ditte dichiaratamente mafiose, e di Pino Mandalari, gran maestro massone e ‘commercialista di Totò Riina, oltre che presidente della Ri.Sa. srl, la ditta dello stesso “Totò ‘u Curtu”.
Azioni importanti da parte di un politico con la schiena dritta che non temeva di puntare il dito contro la mafia e contro il potere, riconoscendo una responsabilità che andava oltre a quella penale.
Nel 1981 prese la decisione di tornare in Sicilia. Erano già stati uccisi illustri rappresentanti dello Stato come il giudice Cesare Terranova (25 settembre 1979), il procuratore della repubblica Gaetano Costa (6 agosto 1980) e il presidente della regione Piersanti Mattarella (6 gennaio 1980). Decise così di assumere l’incarico di segretario regionale del PCI, e intraprende la sua ultima battaglia, quella contro l’istallazione dei missili Nato nella base militare di Comiso. Il successo della protesta fu enorme. Lo stesso La Torre spiegò in un articolo postumo (pubblicato su “Rinascita” del 14 maggio 1982) la sua assoluta contrarietà alla “trasformazione della Sicilia in un avamposto di guerra in un mare Mediterraneo già profondamente segnato da pericolose tensioni e conflitti. Noi dobbiamo rifiutare questo destino e contrapporvi l’obiettivo di fare del Mediterraneo un mare di pace”.
Che Cosa Nostra abbia compiuto il delitto non vi sono dubbi ma come spesso è accaduto per tanti altri omicidi eccellenti, si intravede una possibile convergenza di interessi alti ed altri. Trentacinque anni dopo il delitto resta l’esempio di un Politico, con la “P” maiuscola. Peccato che la sua eredità etica, morale e politica, sia colpevolmente tradita da chi ci governa.

fonte: antimafiaduemila.com