Processo Mori-Obinu, c’è il ricorso in Cassazione

Per la Procura generale “travisamento della prova su un documento decisivo”
di Aaron Pettinari
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La motivazione della sentenza con cui lo scorso maggio sono stati assolti in appello, con la formula “perché il fatto non costituisce reato”, gli ex ufficiali del Ros Mario Mori e Mauro Obinu appare “viziata da illogicità, contraddittorietà e da travisamento della prova”. E’ quanto scrive la Procura generale che lo scorso dicembre ha presentato ricorso in Cassazione rispetto alla sentenza emessa dalla Corte d’appello presieduta da Salvatore Di Vitale (a latere Raffaele Malizia e Gabriella Di Marco). Nel documento si evidenzia in particolare come non vi sia stata una corretta valutazione su un documento, presente negli atti, che l’accusa ritiene “decisivo per la prova del dolo”, ovvero il rapporto del Ros di Palermo del 3 maggio 1996 in cui al maggiore Obinu venne comunicata l’identificazione di Giovanni Napoli, soggetto che curava la latitanza di Bernardo Provenzano e che il 31 ottobre del ’95 andò a prendere Luigi Ilardo al bivio di Mezzojuso per poi accompagnarlo dal boss corleonese con un’autovettura (una Ford Escort) che venne persino fotografata dai carabinieri.
Nel ricorso presentato alla Suprema corte, a cui si chiede l’annullamento della sentenza d’appello, la Procura generale evidenzia come “nonostante l’Ilardo avesse fornito nell’immediatezza il numero di targa di quell’autovettura ed indicato il nome di battesimo (Giovanni) di quella persona, non era stata attivata per mesi alcuna indagine per individuare il proprietario dell’autovettura”.
Ciò avvenne a cinque mesi di distanza dai fatti, su delega inviata il 12 marzo 1996, firmata proprio da Mori, semplicemente immettendo i dati forniti da Michele Riccio ed Ilardo nel database del Ministero degli Interni.
Durante la propria requisitoria il Procuratore generale Roberto Scarpinato aveva evidenziato l’anomalia, ovvero che “di questo accertamento compiuto non riferiscono nulla a Riccio che venti giorni dopo la morte di Ilardo scrive nell’agenda tutto il suo sbigottimento sul fatto che ‘ancora non era stato fatto nulla’ e al tempo stesso nella relazione Grande Oriente, consegnata alle Procure il 31 luglio 1996, ancora vi è scritto che il Giovanni proprietario della Ford Escort ancora non è stato individuato. Cioé gli accertamenti, se venivano fatti, venivano anche occultati e tenuti nei cassetti”. Con azioni simili, secondo l’accusa, gli imputati “si erano arrogati il potere di conduzione d’indagine che era loro precluso dalle norme, dal codice, in merito all’azione che deve compiere un qualsiasi ufficiale di polizia giudizaria”.

Omissione d’accertamento
Carte alla mano appare evidente che i risultati di quegli accertamenti specifici, inerenti notizie di reato, vennero dunque comunicati ai due ex ufficiali. Nel rapporto del Ros, non solo vi era il nome del soggetto che di fatto curava la latitanza di Provenzano, ma venivano anche fornite l’utenza fissa e quella mobile, oltre alla comunicazione delle varie abitazioni riferibili a lui o alla moglie. La Procura generale evidenzia dunque come “l’avvenuta identificazione veniva occultata dagli imputati Mori ed Obinu nella redazione del Rapporto ‘Grande Oriente‘ depositato nel luglio successivo alla Procura di Palermo e sottoscritto dal medesimo Obinu”. In particolare si sottolinea proprio come in quell’informativa si riferiva ai magistrati che il “Giovanni” di cui parlava Ilardo non era stato identificato. “In tal modo – è scritto nel ricorso – si depistava la Procura di Palermo rendendo impossibile l’attivazione da parte dei magistrati di indagini e di intercettazioni su tale soggetto per pervenire suo tramite alla cattura di Provenzano”.

Spiegazione della Corte
Rispetto a questo dato la Corte d’appello, pur riconoscendo la gravità dell’omissione, scriveva nelle motivazioni che “non risulta tale da costituire sicuro indice di una consapevole volontà degli imputati di occultare gli stessi alla autorità giudiziaria, ancor più ove si consideri che nel rapporto ‘Grande Oriente’ sono stati comunque riportati gli elementi che avevano consentito detta identificazione e che non risulta che questi, una volta giunti alla conoscenza del Pm, siano stati oggetto di una più efficiente e tempestivo sviluppo investigativo”.

Elusioni e mancate spiegazioni
Secondo la Procura generale la Corte avrebbe dunque “eluso l’obbligo motivazionale” e “non è stata in grado di fornire la benché minima spiegazione alternativa di tale omissione, e ciò a differenza di tutte le omissioni precedentemente e ripetutamente poste in essere dagli imputati”. Il Pg ritiene anche illogica la considerazione per cui “nel rapporto Grande Oriente vi erano elementi tali – cioé l’identificazione del nome Giovanni e il numero di una targa – che avrebbero consentito comunque ai magistrati di iniziare ex novo le indagini per identificare il soggetto e pervenire così autonomamente alla sua successiva identificazione…E’ illogica perché è evidente che l’attivazione di indagini ex novo da parte dei magistrati per identificare il ‘Giovanni’ non era assolutamente giustificata, tenuto conto che il ‘Giovanni’ era stato già compiutamente identificato sin dal 3 maggio 1996. E’ illogica perché l’autonoma attivazione di indagini ex novo da parte della magistratura per identificare un soggetto già identificato, determinò un’artificiosa e patologica dilazione temporale nella identificazione del ‘Giovanni’, prolungando così l’elusione delle investigazioni dell’autorità a carico del medesimo e del Provenzano”.
Mancando dunque una spiegazione alternativa alla consapevole volontà dolosa degli imputati di omettere quell’identificazione, secondo la Procura generale, appare evidente il “travisamento della prova” da parte della Corte che erroneamente “tenta di sminuire la rilevanza oggettiva di tale omissione”. Infatti “è proprio l’assenza dolosa della trasmissione della completa identificazione del Napoli (comprensiva di numero cellulare e luoghi di possibile abitazione) a non aver consentito alla autorità giudiziaria di porre in essere quelle immediate attività che avrebbero potuto condurre alla cattura di Provenzano per il tramite di uno dei suoi più prossimi favoreggiatori”.

Comportamenti di favoreggiamento decisivi
Secondo la Procura generale, dunque, tenuto conto che quelle informazioni erano direttamente state trasmesse a Mori ed Obinu si dimostra “la responsabilità penale degli imputati” e dimostra “la volontà favoreggiatrice degli stessi” nei confronti dei favoreggiatori di Provenzano e dello stesso capomafia che ha potuto proseguire indisturbato per ulteriori 10 anni la propria latitanza.
Comportamenti di favoreggiamento – è scritto ancora nel ricorso – ancor più decisivi, ove posti in relazione alle condotte omissive precedenti e successive degli imputati”. Tra questi viene ricordato il dato che non fu il Ros a mettere sotto intercettazione Giovanni Napoli, ma furono i distinti Carabinieri della “territoriale”, nell’ambito di indagini che non riguardavano la ricerca di Provenzano. Secondo la Procura generale certe condotte “testimoniano in maniera inequivoca l’esistenza del dolo del reato in questione, quantomeno sotto la forma del dolo eventuale, essendo assolutamente da escludere un comportamento colposo da parte di soggetti di questo spessore investigativo”.

Fonte:Antimafiaduemila