Migranti, profughi o rifugiati? E quanti sono? Facciamo chiarezza

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Un sistema di quote votato dal Consiglio europeo prevede la ripartizione di 160 mila rifugiati tra i paesi membri. Una decisione che, benché votata a maggioranza, vede l’opposizione del governo ungherese, guidato da Viktor Orbàn, il quale ha deciso di indire un referendum sulla questione, rifiutandosi di accettare quote di rifugiati. Anche Polonia, Slovacchia, Repubblica Ceca e Romania hanno manifestato il proprio dissenso. Un dissenso che si accompagna spesso a retoriche mistificatorie che accomunano i termini di “rifugiato”, “migrante”, “profugo”, che tuttavia non sono equivalenti.

Il senso comune aiuta a distinguere almeno due categorie, coloro che “fuggono dalla guerra” o dalle persecuzioni e coloro che “sono in cerca di una vita migliore”. A queste due categorie il diritto si riferisce, circostanziandole. La cosa interessante – e che aggiunge confusione al già confuso dibattito politico – è che l’Unione Europea e l’ONU usano terminologie diverse. Cerchiamo di fare rapidamente chiarezza, avvalendoci dell’ottimo lavoro svolto da terminologiaetc.it.

Migrante e rifugiato secondo l’UE

Per l’UE tutti i rifugiati sono migranti, nello specifico migranti forzati. La categoria del “migrante” raccoglie tutti.

Un migrante è – per l’UE – ogni persona che si sposta dal territorio del proprio paese qualunque sia la causa, volontaria o involontaria, e qualsiasi siano i mezzi, regolari o irregolari, usati per migrare. Il concetto di migrante comprende “rifugiati, sfollati, migranti economici e persone che si spostano per altri motivi, compreso il ricongiungimento familiare”.

Il concetto di rifugiato invece ha come caratteristica distintiva lo spostamento “a causa di un giustificato timore di essere perseguitato per razza, religione, cittadinanza, opinioni politiche o appartenenza a un determinato gruppo sociale”.

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L’Unione Europea ha poi pubblicato un Glossario sull’asilo e la migrazione utile ad armonizzare l’uso dei termini legati alla migrazione all’interno dei paesi membri.  Alla voce “migrante” si legge: “persona che lascia il proprio paese o regione per stabilirsi in un altro” e può riguardare “qualsiasi tipo di spostamento qualunque sia la sua durata, composizione e causa”. Sono quindi migranti non solo rifugiati, sfollati e migranti irregolari ma anche manager, dirigenti e professionisti che si spostano per motivi di lavoro (“migranti altamente qualificati”).

Migrante e rifugiato secondo l’Onu

L’UNHCR, agenzia Onu per i rifugiati, usa un sistema di definizioni meno dettagliato rispetto a quello dell’UE in cui migrante e rifugiato sono invece concetti coordinati, quindi mutualmente esclusivi: “i migranti scelgono di spostarsi non a causa di una diretta minaccia di persecuzione o di morte, ma soprattutto per migliorare la propria vita attraverso il lavoro, o in alcuni casi per l’istruzione, per ricongiungersi con la propria famiglia o per altri motivi. A differenza dei rifugiati che non possono tornare a casa senza correre rischi, i migranti non hanno questo tipo di ostacolo al loro ritorno. Se scelgono di tornare a casa, continueranno a ricevere la protezione del loro governo”. 

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E in Italia?

Il diritto di asilo è tra i diritti fondamentali dell’uomo riconosciuti dalla nostra Costituzione. L’articolo 10, terzo comma, della Costituzione prevede, infatti, che lo straniero, al quale sia impedito nel suo paese l’effettivo esercizio delle libertà democratiche garantite dalla Costituzione italiana, ha diritto di asilo nel territorio della Repubblica, secondo le condizioni stabilite dalla legge.

L’istituto del diritto di asilo italiano non coincide con quello del riconoscimento dello status di rifugiato internazionale. L’Italia garantisce asilo in modo più esteso rispetto al quadro internazionale, facendosi garante della democrazia anche per coloro che vivono al di fuori dei suoi confini. La Costituzione italiana è quindi più aperta e accogliente.

Tuttavia il dettato costituzionale sul diritto di asilo non è mai stato realmente attuato, mancando ancora una legge organica che ne stabilisca le condizioni di esercizio. L’Italia si rifà allora alla Convenzione di Ginevra del 28 luglio 1951, che definisce lo status di rifugiato, e alla Convenzione di Dublino del 15 giugno 1990, sulla determinazione dello Stato competente per l’esame di una domanda di asilo presentata in uno degli Stati membri della Comunità europea.

Bisticci terminologici

Il termine “richiedente asilo” va dunque assimilato a quello di “rifugiato”. Il primo si riferisce alla fattispecie italiana, il secondo ha un valore internazionale. Il primo esprime meglio, nella nostra lingua, il fatto che l’azione è in corso: il migrante sta facendo domanda di asilo oppure arriva nel nostro paese per farla, avendone diritto. Il secondo è un calco dall’inglese “refugee” che, allo stesso modo, esprime un’azione in corso.  

In inglese il suffisso –ee deriva da un participio passato francese, quindi formalmente è assimilabile all’italiano –ato, ma appare in parole che identificano chi sta subendo un’azione oppure la sta facendo. Il participio passato di rifugiato in italiano, invece, suggerisce un’azione già completata, già avvenuta. 

Il participio presente dell’italiano “rifugiante” renderebbe forse meglio il concetto espresso originariamente dall’inglese “refugee” anche per un uso non specialistico. Nella Svizzera italiana è in uso il termine “asilante“. Tuttavia i media preferiscono utilizzare il termine profugo, che rende l’azione della fuga da un luogo. Il termine è però privo di valore legale e indica sia “rifugiati” che “migranti economici”.

Dopo le parole, i numeri

Su questa opacità linguistica e sull’incongruenza terminologica tra UE e Onu, insiste l’opera mistificatoria di chi cerca di usare il tema delle migrazioni e dell’accoglienza per trarne un vantaggio politico. Abbiamo aperto l’articolo citando il sistema di quote per la ripartizione dei migranti votato dal Consiglio europeo. Ebbene, quali migranti? Nel caso specifico, il sistema riguarda solo i “refugee“, ovvero i “richiedenti asilo”. E nemmeno tutti ma solo coloro che, nell’indice di pericolosità del paese di origine, superano la misura del 75%, ovvero siriani, eritrei e iracheni. Quindi 160mila persone in tutto.

Attualmente il numero complessivo di rifugiati nell’UE è di circa 4 milioni e trecentomila persone (dati UNHCR). Un dato importante, che segna un aumento del 43% rispetto al 2014. Tuttavia nessuno dei paesi dell’UE rientra nella top-ten dei paesi che ospitano più rifugiati (vedi sotto) e, osservando il dato paese per paese, emerge un quadro tutt’altro che emergenziale.

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Se guardiamo ai singoli paesi europei, la Svezia accoglie da sola 169mila rifugiati (più della quota da redistribuire!) che corrispondono a 17,4 rifugiati ogni 1000 persone, ponendosi in testa alla classifica. Il secondo paese è Malta, terra di primo approdo, che ospita 7.075 rifugiati, ovvero 16,5 rifugiati ogni 1000 persone. La Francia e la Germania ospitano 4 rifugiati ogni 1000 persone. L’Italia ne ospita 118 mila, ovvero 1,9 rifugiati ogni 1000 persone. Cifre ridicole se pensiamo che la sola Turchia ne ospita 2,5 milioni.

Ad essere aumentate molto sono però le richieste d’asilo che i governi devono valutare ed evadere. L’Ungheria è al primo posto, con 117 mila richieste di asilo (17 ogni 1000 abitanti). L’Italia è al 12° posto, con 83 mila richieste d’asilo (1,4 ogni 1000 abitanti). Paesi come Polonia, Repubblica Ceca e Slovacchia occupano le posizioni più basse della classifica, con un numero di richieste di asilo inferiore allo 0,4 ogni 1000 abitanti. Dati sostanzialmente in linea con gli anni precedenti.

Conclusioni

Si comprende dunque quanto l’opposizione alle quote di migranti volute dall’UE, da parte dei paesi dell’Europa centro-orientale, non poggi su ragioni concrete (ad eccezione dell’Ungheria). Lo stesso discorso vale per l’Italia che, a fronte di proclami allarmistici da parte di alcuni partiti politici, si trova ad affrontare un fenomeno migratorio molto contenuto. A creare l’emergenza, assai spesso, non sono i numeri dei migranti ma l’incapacità dei governi di operare politiche efficaci. Altre volte è la politica stessa che si giova a mantenere uno stato di emergenza utile a retoriche populiste o a deviare l’attenzione dell’opinione pubblica dai problemi reali.

 

Fonte:Eastjournal