Panama Papers: ecco come la finanza offshore saccheggia l’Africa

Petrolio, oro, diamanti… gli affari offshore depredano gli africani. Il caso Saipem-Sonatrach

di
Umberto Mazzantini

Panama Papers Africa

Oggi l’Espresso pubblica in Italia un altro impressionante capitolo dell’inchiesta dell’International consortium of investigative journalists (Icij) che ha scoperchiato la maleodorante pentola di «37 società dello studio Mossack Fonseca citate in giudizio o sottoposte a indagini per corruzione e distruzione ambientale. Contratti spesso garantiti da tangenti e altre pratiche corruttive: a vantaggio di pochi e a danno dei cittadini comuni. Nei file anche tre ministri e due ex governatori».

La rapina delle risorse, con il suo sanguinoso corollario di guerre, genocidi etnici, strage di biodiversità, ha i suoi terminali nei dorati paradisi fiscali o nei salotti buoni dell’economia mondiale, o addirittura nei governi occidentali, gli stessi che ci danno lezioni su come uscire da una crisi economica creata dalla loro ingordigia e gli stessi che si chiedono come affrontare la crisi dei profughi creata dalle loro guerre per le risorse e dalle loro alleanze con governi cleptomani che, in cambio di tangenti e armi, svendono i loro popoli e le loro ricchezze a un potere opaco, criminale, che nasconde le ricchezze per non pagare le tasse nemmeno in patria. Come spiega l’ex premier svedese Fredrik Rheinfeldt, responsabile dell’Extractive industries transparency initiative, al consorzio Icij: «Si tratta di compagnie che si aggiudicano progetti estrattivi molto redditizi perché i loro titolari vantano buone connessioni politiche, oppure perché preferiscono puntare su intese discutibili pur di produrre veloci profitti per pochi, invece di benefici per una comunità più vasta. Le società anonime rendono più difficile frenare fenomeni di riciclaggio di denaro o di corruzione, poiché permettono ai malfattori di nascondersi dietro una serie di entità costituite in più giurisdizioni diverse».

Dietro la rapina e la disperata miseria dell’Africa ci sono più di 1.400 compagnie offshore legate all’industria degli idrocarburi, attive in 44 dei 54 Paesi africani. L’inchiesta pubblicata nel nostro Paese da L’Espresso conferma che molte di queste multinazionali di rapinatori ed evasori «sono controllate da politici, membri delle loro famiglie, soci in affari. Spesso petrolio, gas e diamanti che giacciono sotto la superficie terrestre da milioni – forse miliardi – di anni, vengono commercialmente trattati da società-ombra spuntate soltanto da pochi mesi».

Secondo quanto emerso dall’inchiesta almeno 27 compagnie offshore create o assistite da Mossack Fonseca fanno capo al gigante aurifero AngloGold Ashanti, ma un portavoce della compagnia ha dichiarato all’Icij che la AngloGold Ashanti «osserva le leggi fiscali, e che le società offshore avevano fatto degli investimenti che consentivano di “alleggerire” il regime della “doppia tassazione”». Da quanto risulta è la stessa multinazionale che, con la complicità del governo sudafricano, manda polizia e crumiri ad attaccare i minatori sudafricani che chiedono un aumento dei loro stipendi da fame.

Heather Lowe, avvocato del Global financial integrity, dice che gli intermediari delle offshore ricevono incentivi economici «non per sapere per quale ragione le società da loro fondate possono essere impiegate. Se sanno troppo, potrebbero rinunciare ai propri affari… di conseguenza spesso non esiste un ‘guardiano’ che impedisca al denaro illecito di entrare nel circuito finanziario». L’inchiesta Icij sottolinea un altro elemento di opacità: «Regole standard internazionali e leggi di molti paesi esigono in genere che intermediari finanziari come Mossack Fonseca setaccino i loro clienti per essere sicuri che non siano coinvolti in operazioni illecite. Inoltre richiedono misure stringenti per quei clienti che sono “Politically exposed persons” (Pep, cioè persone politicamente esposte): uomini di governo, loro familiari e soci. Nel suo manuale interno, Mossack Fonseca riconosce che gli accordi riguardanti industrie estrattive, petrolio e gas sono considerati, quanto a riciclaggio di denaro e altri crimini, ad alto rischio. Lo studio legale, in particolare, classifica l’industria estrattiva come un “settore ad alto rischio” e richiede ai suoi impiegati di impegnarsi in ricerche speciali su ogni persona coinvolta nell’attività di trivellazione, scavo, commercio ed esportazione di risorse naturali. I documenti di Panama Papers provano però che i dipendenti di Mossack Fonseca spesso non svolgono analisi adeguate sui clienti che operano nel settore delle industrie estrattive e, in alcuni casi, offrono addirittura servizi che rendono difficile alle autorità governative identificare i protagonisti che stanno dietro le offshore e i contratti sulle risorse naturali».

E’ la finanza internazionale che impoverisce il mondo e riempie le tasche di pochi – magari con la complicità di multinazionali a partecipazione statale. Secondo l’Icij, solo riguardo alle società fondate o amministrate da Mossack Fonseca, queste  sono presenti in una dozzina di casi in Africa, casi che riguardano contratti minerari, di petrolio e gas, «provocando accuse di elusione fiscale, corruzione, distruzione ambientale o altri mali». Nei Panama Papers sono venute fuori «37 società, citate in giudizio o sottoposte a indagini che coinvolgono risorse naturali in Africa».

Un verminaio brulicante di corruzione e interessi che coinvolge anche il nostro Paese, come per la storia del franco-canadese algerino Farid Bedjaoui, che – riporta l’Icij – si incontrava nelle lussuose suite dell’hotel Bulgari di Milano, con rappresentanti del governo algerino e manager della Saipem, il colosso italiano degli impianti energetici, «per gestire 198 milioni di euro di tangenti. E consentire così alla società italiana di strappare contratti del valore di oltre dieci miliardi di dollari per la costruzione di pipeline di petrolio e gas dal deserto del Nord Africa alle spiagge del Mediterraneo. Secondo i Pm italiani che indagano sulla vicenda, Bedjaoui ha allestito un pacchetto di società offshore che potessero nascondere ai controlli il traffico delle mazzette spostate tra vari paesi. Dodici di quelle 17 società-schermo sono state costituite presso Mossack Fonseca, lo studio legale al centro dello scandalo Panama Papers».

Uno scandalo che mostra quanto l’Italia “dell’aiutiamoli in casa loro” sia in realtà coinvolta nel neocolonialismo bulimico che svuota di risorse, arricchisce tiranni e faccendieri senza scrupoli e crea le ondate di profughi che fuggono dalla persecuzione e dalla miseria di Paesi depredati.

Saipem ha dichiarato all’Icij che «sta collaborando pienamente» e di aver «attivato provvedimenti di ristrutturazione significativi in campo manageriale e amministrativo». Consulenti esterni hanno analizzato i bilanci della società e «non hanno trovato prove di pagamenti a pubblici ufficiali algerini tramite contratti d’intermediazione o subappalti». Ma l’Icij ricorda che «nel febbraio 2016 un tribunale algerino ha però ritenuto una consociata Saipem colpevole di frode, riciclaggio di denaro e corruzione nell’ottenere contratti dalla compagnia nazionale algerina Sonatrach. Le autorità italiane hanno incriminato Bedjaoui. I pm ritengono che abbia gonfiato contratti a vantaggio di dirigenti algerini, ritagliando una quota per se stesso, il che gli ha valso il soprannome di mister 3 per cento. Ovvero la percentuale trovata dalla Guardia di Finanza su un foglio di carta intestata dell’hotel Bulgari. Bedjaoui, nipote dell’ex ministro degli Esteri algerino, vive attualmente in un quartiere residenziale privato in stile Beverly Hills a Dubai. I suoi avvocati dicono che con il suo diploma in Management non avrebbe mai potuto esercitare sufficiente influenza sulle élite politiche, militari e affaristiche in Algeria e quindi predisporre uno schema di tangenti da 198 milioni di euro».

I giornalisti dell’Icij dicono che il caso Saipem-Sonatrach rappresenta un modello emblematico per tutta l’Africa e per altri Paesi in via di sviluppo che vengono spogliati delle loro grandi ricchezze per lo più per colpa del sistema offshore. Secondo uno studio del gruppo di ricerca Global financial integrity, «tra il 2004 e il 2013 lAlgeria, il secondo Paese con le più grosse riserve di petrolio in Africa, ha perso in media un miliardo e mezzo di dollari ogni anno a causa di evasione fiscale, corruzione e criminalità finanziaria», e da parte sua l’Onu conferma che in Africa almeno 50 miliardi di dollari all’anno vengono fatti sparire «da flussi finanziari illeciti».

Il tutto in un rapporto incestuoso fra finanza internazionale e politica corrotta. La Nigeria risulta alla guida nella lista di questo saccheggio di risorse, sviluppo e speranze: dai file di Mossack Fonseca emerge che tra gli ex clienti dei servizi offshore ci sono 3 ministri del Petrolio nigeriani,  funzionari della compagnia petrolifera di Stato e due ex governatori condannati per riciclaggio di petrodollari. Il sangue e il petrolio versati nel Delta del Niger, il disastro ecologico e umanitario, vengono da questo saccheggio di risorse e democrazia.

Ma l’inchiesta Icij si sposta nuovamente in Algeria, dove nel 2005 viene aperto lo sfruttamento di un nuovo gigantesco giacimento di gas nel cuore del deserto, e ritrova Saipem che batte l’agguerrita concorrenza internazionale e, tra il 2006 e il 2009, si descrive come uno dei leader mondiali in trivellazioni e pipeline, aggiudicandosi «7 contratti per la posa di centinaia di chilometri di tubi e canali e per realizzare impianti capaci di lavorare centomila barili di petrolio al giorno». E rispunta anche Bedjaoui, che nel 2002 si rivolge a Mossack Fonseca per aprire un conto in una banca svizzera a nome della sua società Rayan asset management e mette in piedi una serie di società-schermo, già esistenti a Panama e alle Isole vergini britanniche: «I controlli di Mossack Fonseca su Bedjaoui nel 2008 e 2009 non hanno mai rivelato niente di sospetto, come si ricava dai file panamensi. Non che Bedajoui rendesse facile questa verifica, poiché una volta esibiva il suo passaporto canadese per aprire alcuni conti bancari, un’altra quello algerino, per aprirne altri – si legge nell’inchiesta – Per 11 anni Mossack Fonseca ha lavorato per Bedjaoui e una mezza dozzina di suoi familiari, amici e soci. In questo mondo Bedjaoui ha introdotto la moglie e il cognato, parenti di ministri algerini dell’energia e dell’acqua, l’amministratore delegato della società algerina del petrolio e del gas, di proprietà del governo, e il rappresentante di Saipem in Algeria. I magistrati italiani scrivono che questa rete di strette parentele li ha indotti a credere che molte delle compagnie targate Mossack Fonseca siano state utilizzate “per pagamenti corruttivi e per arricchimento personale”.Il giro di mazzette e fondi neri è stato organizzato, stando agli investigatori, nelle lobby di hotel e bar di Parigi e Milano e a bordo di yacht del Mediterraneo. Fuori dall’hotel Bulgari i visitatori si scambiavano numeri riservati di cellulari per tenersi in contatto. E non era certo per «scambiarsi gli auguri di Natale”, annoterà con ironia qualche anno dopo un magistrato italiano».

Per le sue operazioni Bedjaoui sceglie Paesi che assicurano l’anonimato degli azionisti e fa perdere le sue tracce delle in 16 conti bancari a Dubai, Algeria, Singapore, Londra, Hong Kong, Svizzera e Libano. Tra il 1999 e il  2010 una sua società offshore legata avrebbe dirottato fino a 15 milioni di dollari alla famiglia di Chekib Khelil, all’epoca ministro dell’Energia algerino. Nel 2013 Khelil era ricercato dall’Interpol, per questo ha abbandonato gli Usa dove viveva e è tornato in Algeria dopo che il governo di Algeri ha provveduto a far rimuovere le accuse di corruzione contro di lui.

Nella prima fase dei procedimenti sullo scandalo Saipem-Sonatrach, a febbraio un tribunale algerino ha condannato, con pene detentive e multe, 19 persone e società. Un giudice di Milano ha emesso una sentenza nei confronti dell’ex dirigente della Saipem, Tullio Orsi, che ha accettato di patteggiare una pena di due anni e 10 mesi e uscire così dal processo, e che ha raccontato ai Pm di «aver avuto almeno tre incontri all’hotel Bulgari di Milano, una volta con Bedjaoui. Specificando che in un’altra occasione, mentre si rilassava su una barca ormeggiata sulla costa spagnola, Bedjaoui gli aveva offerto 10 milioni di dollari. Lo stesso Bedjaoui gli aveva anche detto “che c’erano altri come me che lui aveva aiutato finanziariamente e che aveva piacere di farlo”»

fonte: greenreport.it