Caso Parmaliana: la condanna di un ”corvo”

La Cassazione pone il sigillo dell’ignominia sull’ex magistrato Franco Cassata
di Lorenzo Baldo
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Condannato. Con il disonore che spetta agli individui mossi da motivi abbietti. E’ notizia di poco fa che la Cassazione ha confermato la condanna in appello per diffamazione nei confronti dell’ex Procuratore Generale di Messina, Franco Cassata.
E’ lui il “corvo” che nel settembre 2009 ha inviato un bieco dossier anonimo allo scrittore Alfio Caruso (all’epoca impegnato nella stesura del libro “Io che da morto vi parlo”, una meticolosissima analisi sulla vita del professor Adolfo Parmaliana, 50 anni, ordinario di chimica a Messina, e delle avversità da lui patite fino al suo suicidio del 2 ottobre 2008) e al senatore Beppe Lumia.

L’atto di accusa
In quel dossier il “corvo” denigrava pesantemente il prof. Parmaliana con toni e contenuti che qualificavano – e qualificano – la miseria umana dell’autore: 30 pagine finalizzate a demolire la credibilità di un uomo scomodo che aveva osato denunciare le infiltrazioni mafiose nei palazzi di giustizia messinesi e che, evidentemente, faceva paura anche da morto. A seguito di quell’anonimo la moglie di Parmaliana, Cettina Merlino (difesa dagli avvocati Fabio Repici e Mariella Cicero), aveva presentato una denuncia contro ignoti indirizzando le indagini degli investigatori verso la Procura Generale di Messina allora diretta dallo stesso Cassata. Che, nel redigere il suo scritto, aveva commesso un errore fatale: al dossier aveva allegato un documento inviato da un fax di una cartoleria di Barcellona Pozzo di Gotto e indirizzato alla Procura generale di Messina.

Colto in flagrante
Paradossalmente era stato lo stesso Franco Cassata a spianare la strada per la sua incriminazione mettendo a disposizione il suo ufficio al magistrato che indagava sulle calunnie nei confronti del defunto docente. Il pm aveva notato che all’interno di una vetrinetta nella stanza del Procuratore Generale c’era proprio quel dossier anonimo sul quale stava indagando (per l’esattezza altre tre copie dell’esposto anonimo originale, privo dei timbri del protocollo che invece campeggiavano nella copia ufficialmente ricevuta dal Procuratore generale). Tra gli appunti c’era addirittura un foglietto con la scritta “da spedire”.

Il personaggio
Nominato magistrato nel 1971, nel 1980 Franco Cassata era divenuto consigliere d’appello, e poi nel 1986 consigliere di Cassazione. Nel corso della sua carriera Cassata aveva retto la Procura generale di Messina in qualità di membro anziano nel 1999, tra il 2004 e 2005 e anche nel 2008.
In questi anni moltissime sono state le battaglie condotte da Sonia Alfano, ex Presidente della Commissione antimafia europea, ma soprattutto figlia del giornalista assassinato da Cosa nostra nel 1993, Beppe Alfano, e dall’avvocato Fabio Repici, per chiedere al Csm la rimozione dello stesso Cassata dal suo incarico. Appelli e interpellanze che si sono sempre scontrati contro un vero e proprio muro di gomma eretto da una potentissima casta restia a fare pulizia al proprio interno. Per comprendere meglio la figura ibrida di Franco Cassata basta riprendere l’interrogazione parlamentare del 4 giugno 2008 del senatore Giuseppe Lumia indirizzata al ministro della giustizia. Nel documento riaffiorano uno dopo l’altro i “dettagli” inquietanti del potere incontrastato di questo ex magistrato, già presidente della “Corda Fratres” tra i cui soci spiccavano boss del calibro di Pippo Gullotti e Saro Cattafi.

Il testamento di Parmaliana
Leggendo l’incipit del libro di Alfio Caruso “Io che da morto vi parlo” emerge un ritratto autentico del prof. Parmaliana “considerato uno dei massimi esperti mondiali nella ricerca delle nuove fonti di energia rinnovabile”. “All’impegno accademico Parmaliana ha unito per trent’anni un accanito impegno civile. Iscritto giovanissimo al Pci, ha difeso le ragioni della legalità, della correttezza, del buongoverno nella sua piccola patria, Terme Vigliatore. Un paesino che si trova a pochissimi chilometri da Barcellona Pozzo di Gotto, zona franca dei grandi boss di Cosa Nostra, da Santapaola a Provenzano, fondamentale snodo del Gioco Grande, lì dove confluiscono e s’intrecciano mafia-massoneria, alta finanza, pezzi rilevanti delle Istituzioni. Così il piccolo professore amante dei libri, dei vestiti eleganti, della Juve e idolatrato dai suoi allievi diventa, quasi a sua insaputa, un testimone scomodo da zittire, soprattutto dopo che le sue denunce hanno portato allo scioglimento del comune di Terme per infiltrazioni mafiose”. Ed è rileggendo uno stralcio della lettera che ha lasciato prima di lanciarsi dal viadotto di Patti Marina che si comprende ciò che ha vissuto in quel periodo. “La Magistratura barcellonese/messinese vorrebbe mettermi alla gogna, vorrebbe umiliarmi, delegittimarmi, mi sta dando la caccia perché ho osato fare il mio dovere di cittadino denunciando il malaffare, la mafia, le connivenze, le coperture e le complicità di rappresentanti dello Stato corrotti e deviati … Hanno deciso di schiacciarmi, di annientarmi. Non glielo consentirò… Chiedete all’Avv.to Mariella Cicero le ragioni del mio gesto, il dramma che ho vissuto nelle ultime settimane, chiedetelo al Sen. Beppe Lumia, chiedetelo al Maggiore Cristaldi, chiedetelo all’Avv.to Fabio Repici, chiedetelo a mio fratello Biagio. Loro hanno tutti gli elementi e tutti i documenti necessari per farvi conoscere questa storia: la genesi, le cause, gli accadimenti e le ritorsioni che sto subendo”.

La prima sentenza
“Per la prima volta nella storia dell’Italia repubblicana un Procuratore generale è stato condannato”. Era il 25 gennaio 2013 quando l’avvocato Fabio Repici si esprimeva così in un lungo articolo a sua firma a seguito della sentenza di condanna di primo grado comminata dal giudice di Pace di Reggio Calabria. In quel caso il giudice, che pure aveva concesso all’imputato le attenuanti generiche, aveva condannato per diffamazione Cassata ad una multa di 800 euro (!) ritenendo sussistenti a suo carico anche le circostanze aggravanti dei motivi abietti di vendetta in merito all’ultima lettera lasciata da Parmaliana e “dell’attribuzione di fatti determinati”. “Su un piano sostanziale – scriveva Repici – per la provincia di Messina è una delle sentenze più rilevanti degli ultimi decenni. Da domani la storia giudiziaria messinese sarà scissa in due fasi: prima della condanna di Cassata e dopo di essa. E, allora, quando l’avvenimento è ancora nella dimensione della cronaca e prima che si incardini nella storia, qualche ulteriore considerazione di dettaglio si impone. La prima riguarda la giudice, la dr.ssa Lucia Spinella, umile giudice onoraria: con quella sentenza, pronunciata nelle condizioni note a chi per tutto l’ultimo anno ha letto queste impressioni d’udienza, ha dimostrato schiena dritta come decine e decine di giudici togati tutti insieme sarebbero stati incapaci di fare”. “La seconda – sottolineava il legale – riguarda la moglie, i figli, i genitori e i fratelli di Adolfo. Non hanno riottenuto indietro la preziosa persona del loro congiunto ma hanno visto lo Stato restituire una volta per tutte l’onore al loro caro Adolfo, quell’onore che chi aveva avuto la fortuna di incrociarlo aveva colto all’istante ma che l’intera nazione aveva avuto la possibilità di conoscere solo un anno dopo il suo suicidio, grazie al libro ‘Io che da morto vi parlo’, scritto da un giornalista e scrittore a sua volta con la schiena dritta come Alfio Caruso”. “La terza – aggiungeva ancora – riguarda chi scrive e la propria collega Mariella Cicero, che per tutto quest’anno hanno avuto la ventura di tutelare processualmente la memoria di Adolfo Parmaliana. Hanno avuto una di quelle fortune che capitano raramente, servire una causa giusta, e vincerla, e sapere dunque che la loro professione ha avuto un senso nobile e che potrebbero smettere anche domani di esercitarla avendo comunque concorso a realizzare vera giustizia, quella sensazione che certi presunti principi del foro non raggiungeranno mai, nemmeno dopo centinaia e migliaia di cause vinte e proporzionati guadagni”. “La quarta riflessione, poi – concludeva Repici – riguarda Adolfo Parmaliana, figlio mirabile di questa Sicilia disgraziata, inseguito dalla persecuzione di iene e sciacalli perfino dopo la sua morte. Da ieri sera le infamie contro di lui svaniranno in fretta. Pazienza se la sua terra non è stata capace di riconoscerlo in tempo, lui scienziato indiscusso e cittadino integerrimo e coraggioso, prima che si trovasse costretto a togliersi la vita

La seconda condanna
Il 23 giugno 2015 il Tribunale di Reggio Calabria, nella persona del giudice Alberto Romeo, aveva confermato la sentenza di condanna. “Ho pensato a quanto sarebbe bello (anzi, quanto sarebbe normale per un paese civile) – aveva scritto Fabio Repici in un suo accorato commento a caldo – se il Presidente della Repubblica si rendesse conto che la vita e la morte e tutta la storia di Adolfo Parmaliana sono una ricchezza formidabile per questo paese sbandato e che sarebbe proprio un bel gesto invitare al Quirinale la moglie e i figli di Adolfo, per rappresentar loro simbolicamente che l’Italia non dimenticherà il prof. Parmaliana.
Adolfo non tornerebbe in vita. Ma la sua memoria riposerebbe finalmente in pace e nel giusto prestigio che merita. E, chissà, forse a quel punto riuscirei a elaborare il lutto”.

Una borsa di cuoio
“Vivere intensamente, nella Sicilia malata di questo tempo – aveva scritto l’on. Claudio Fava a ridosso della morte di Adolfo Parmaliana –, vuol dire assumersi il peso d’una terra che ha smarrito se stessa, la propria corda civile, il senso elementare delle regole. Quel peso, Parmaliana se l’era preso facendo politica nel suo paese, nel suo vecchio partito, tra la sua gente. E provando con disperata perseveranza a indicare i luoghi e i momenti in cui la politica si faceva affare, miseria, clientela: anche nel suo partito. Per questo non stava simpatico”. “Anzi – aveva sottolineato il figlio di Pippo Fava –, diciamolo pure: un uomo come Adolfo era destinato alla solitudine e al fastidio di tanti. Me lo ricordo, in certe feste dell’Unità, con la sua cartellina di cuoio sotto il braccio e un repertorio lucidissimo di cose non digerite, non accettate, che aveva bisogno di raccontare, di condividere, di spiegare agli altri. Mi ricordo le sue telefonate, le sue lettere dentro le quali leggevi anche la fatica di chi temeva di parlare solo per sé. Adolfo aveva onestamente paura di questo: che nella sua terra, nel suo partito non ci fosse più spazio per le cose che custodiva dentro la quella vecchia borsa di cuoio”. Parole vere quanto amare.
Oggi, però, qualcosa è cambiato: la condanna di quel “corvo” è il primo passo per restituire giustizia e verità ad un uomo giusto e segna inevitabilmente l’inizio della fine di un potere tra i più striscianti che la storia abbia mai conosciuto.

Fonte:Antimafiaduemila