Trattativa: i ”veri masculi” che attaccano il processo

di Lorenzo Baldo
art deco statue rome by vanfoto

Editorialone. Si potrebbe definire così il pezzo di Giuseppe Sottile pubblicato oggi sul Foglio. Pugni e schiaffi al processo sulla Trattativa e ai “masculi” che “non si rassegnano nemmeno davanti all’evidenza” di quello che viene definito un vero e proprio fallimento. I “masculi” sopracitati sono ovviamente i pm del pool che indaga sul patto Stato-mafia. Titolo a effetto: “Povero Ciampi, a novantasei anni chiamato a deporre sulla Trattativa”. E giù botte da orbi. Secondo Sottile il processo è una “carcassa” che “imbarca acqua da tutte le parti”, una sorta di “grande relitto” che “sprofonda giorno dopo giorno”. Per il direttore di livesicilia l’inchiesta “già non aveva un movente” in quanto “la mafia delle stragi è stata sconfitta” e quindi: onore a Calogero Mannino assolto con rito abbreviato, e a Mario Mori assolto (due volte) al processo per la mancata cattura di Provenzano. Per il resto tutti al rogo: da Massimo Ciancimino fino ad Antonio Ingroia. Stesso trattamento nei confronti della scelta del pool di effettuare una trasferta a Roma per sentire l’ex Presidente della Repubblica Carlo Azeglio Ciampi. Sottile si domanda se “avrà la forza e la lucidità di rispondere alle domande dei pm e a quelle dei difensori”. Domanda legittima, visto che finora diversi alti esponenti delle istituzioni hanno reso dichiarazioni quanto meno reticenti, in alcuni casi al limite della falsa testimonianza (proprio stamattina è giunto alla cancelleria del presidente della Corte di Assise di Palermo, Alfredo Montalto, un certificato medico che attesta l’impossibilità di Ciampi a poter rendere testimonianza, ndr). L’affondo di Sottile sui costi del processo Trattativa – in un Paese dove realmente si sperperano miliardi nei meandri politico-istituzionali – si commenta da solo. “Il processone – chiosa il giornalista – si concluderà quasi certamente con una sentenza di assoluzione. Gli imputati tireranno, come è ovvio, un sospiro di sollievo: dopo anni di gogna e tribolazioni, si sentiranno certo risollevati per lo scampato pericolo ma difficilmente troveranno un magistrato disposto a riconoscere che la Trattativa, più che un processo, è stata soprattutto una rappresentazione teatrale. Anzi, per essere più precisi, uno scolastico esempio di drammaturgia giudiziaria”. Chissà se Sottile ribadirà lo stesso concetto a Giovanna Maggiani Chelli, madre di Francesca, rimasta invalida nella strage di via dei Georgofili, che proprio oggi ha diramato un comunicato stampa a seguito del recente deposito delle motivazioni della sentenza del secondo processo di appello (svoltosi a Firenze) che ha condannato all’ergastolo il boss Francesco Tagliavia proprio per la strage del 27 maggio 1993. Nel comunicato dell’associazione tra i familiari delle vittime della strage di via dei Georgofili, la stessa Chelli (presidente dell’associazione) scrive che dopo aver letto i primi stralci della motivazione della sentenza può affermare con forza che “trattativa ci fu” e che “il movente della strategia stragista del ‘92/’93 è strettamente connesso alla trattativa”. “Oggi, 27 Maggio 2016 – prosegue la Chelli -, si chiude definitivamente quella deplorevole  altalena fatta di espressioni come ‘trattativa presunta, trattativa non ci fu’. Oggi sappiamo perché sono morti i nostri figli: in nome e per conto di una trattativa perché la mafia voleva abolito il 41 bis”. Probabilmente Giuseppe Sottile non ricorda la sentenza del 2012 al processo per le stragi del ‘93 le cui motivazioni lasciavano poco spazio all’immaginazione. Secondo la Corte di Assise di Firenze presieduta da Nicola Pisano lo Stato avviò una trattativa con Cosa Nostra, una trattativa che “indubbiamente ci fu e venne quantomeno inizialmente impostata su un do ut des” per interrompere la strategia stragista di Cosa Nostra”. “L’iniziativa – scrivevano i giudici – fu assunta da rappresentanti dello Stato e non dagli uomini di mafia”. Nella sentenza si leggeva infatti che “l’obiettivo che ci si prefiggeva, quantomeno al suo avvio, era di trovare un terreno d’intesa con ‘Cosa Nostra’ per far cessare la sequenza delle stragi”. Secondo i magistrati fiorentini, “è verosimile che tutti gli apparati, ufficiali e segreti, dello Stato temessero sommamente altri devastanti attentati dopo quello di Capaci, nella consapevolezza che in quel momento non si sarebbe saputo come prevenirli… si brancolava abbastanza nel buio, soprattutto sul piano dell’intelligence”. La trattativa, iniziata dopo Capaci, si sarebbe ben presto interrotta con l’attentato di via D’Amelio “forse per una sorta di ritirata di chi la conduceva (certamente il colonnello Mori, forse i livelli superiori degli apparati istituzionali) di fronte al persistere del programma stragista, laddove la trattativa avrebbe richiesto quantomeno un armistizio. Proprio per queste ragioni, l’uccisione di Borsellino resta nelle motivazioni e nella tempistica una variante anomala”. In attesa di leggere approfonditamente le motivazioni integrali della sentenza del secondo processo di appello Tagliavia, restano alcune considerazioni in merito al personaggio che continua ad accanirsi sul processo Trattativa e sul pool che lo ha istruito. Nella conclusione del suo pezzo l’editorialista del Foglio si augura che “prima o poi, qualcunoun giudice della Cassazione, un ministro Guardasigilli, un Consiglio superiore della magistratura, una commissione parlamentare d’inchiestaspieghi ai tanti poveracci che pagano le tasse se i soldi, impiegati dalla procura di Palermo nella costruzione di una così ardita architettura giudiziaria, siano stati spesi bene o male. Perché, tra tante volatili e fumose incertezze, una cosa è certa: che i masculi dell’antimafia, con la Trattativa, hanno fatto finora più piazza che giustizia”. Indubbiamente un gran finale, da “vero masculo”. Ma anche il passaggio dedicato a Giuseppe Sottile, contenuto nel libro di Angiolo Pellegrini “Noi, gli uomini di Falcone”, merita altrettanta attenzione. Pellegrini racconta che il giudice Rocco Chinnici, prima di morire nella strage del 29 luglio ’83, gli aveva confidato di essere intenzionato ad arrestare i potentissimi esattori di Salemi, Nino e Ignazio Salvo. L’ex dirigente della sezione anticrimine di Palermo scrive nel suo libro di un incontro a quattr’occhi con Giovanni Falcone, nel momento in cui gli consegna un documento: “‘Dottore, questa è la trascrizione di una telefonata tra Nino Salvo, l’avvocato Vito Guarrasi e Pippo Cambria (socio dei cugini Salvo, ndr). Commentano la mia testimonianza a Caltanissetta (al processo per la strage Chinnici, ndr), giudicandola di un’infelicità incredibile. Nel corso della telefonata più volte viene citato un giornalista che indicano come loro amico, una specie di fonte confidenziale. Probabilmente si tratta di un elemento che abbiamo già identificato: Giuseppe Sottile del Giornale di Sicilia’. Il giudice non commentò nemmeno stavolta. Disse solo che a breve lo avrebbe convocato per interrogarlo, poi mi ringraziò accennando un sorriso e ci salutammo. Dopo qualche giorno, Sottile era già nel suo ufficio. Il giornalista si mise subito sulla difensiva: Dottor Falcone, non capisco che chiarimento vuole da me. Io sono una persona perbene. Falcone non replicò. Accese il registratore e gli fece ascoltare i passaggi delle telefonate intercettate ai cugini Salvo in cui si parlava di lui, e altre conversazioni telefoniche che lo riguardavano direttamente. Sottile sbiancò, cercò di difendersi ma si perse dentro un garbuglio di improbabili giustificazioni”.
A futura memoria.

Fonte:Antimafiaduemila