Giovanni Falcone: ”Sono venuti a Palermo per fottermi”

di Saverio Lodato

lodato bn c giorgio barbagallo
A volere essere un po’ rudi, potremmo definirla “La Catena di Sant’Antonio delle minchiate”. Si tratta di un ben individuato network di giornalisti, storici, maître à penser, opinionisti, che trattano vicende di mafia, ispirati non tanto dai valori proverbiali del mitico giornalismo anglosassone, ma dalla difesa di quelle certezze che vedono costantemente minacciate da indagini giudiziarie delle quali non riescono a prevedere l’esito finale. Perché tengano tanto alle loro certezze, anche quando appaiono sempre di più solenni “minchiate”, non lo sappiamo, non ci interessa, forse non lo sapremo mai. A cosa ci riferiamo?
La Grande Madre di tutte le “minchiate” consiste nel negare qualsiasi coinvolgimento dello Stato negli anni del bagno di sangue a Palermo metà e fine anni ’80 e delle stragi del 1992-93, da Capaci e via D’Amelio a Milano, Roma e Firenze.
Ci vuole molto pelo sullo stomaco per non accorgersi di quanto è ormai sotto gli occhi di tutti. I processi per la strage Borsellino hanno definitivamente chiarito un aspetto non secondario: che il collaboratore di giustizia Vincenzo Scarantino fu adeguatamente “trattato” dalla squadra speciale degli investigatori che facevano capo al signor Arnaldo La Barbera, questore, nonché affiliato al Sisde con il seduttivo nomignolo di copertura: “Rutilius”.
Ricordo benissimo quando, insieme ai colleghi Franco Viviano, che allora lavorava per l’Ansa, Sandro Tito, che scriveva per “L’Ora di Palermo” (purtroppo poi prematuramente scomparso) lo incontrammo a Punta Raisi, appena sbarcato dal volo Alitalia, fresco di nomina, allora, a capo della Squadra Mobile di Palermo. Quando gli chiedemmo quale fosse il suo programma in terra di Sicilia, mentre Palermo era a ferro e fuoco, lui rispose con tono un po’ marziale: “Sono venuto qui per combattere gli “intoccabili” della mafia, ma anche quelli dell’”antimafia”. Più chiaro di così non poteva essere. E profetico, anche.
Così disse, e così scrissi sull’”Unità” dell’epoca. Era l’agosto 1988. In quegli stessi giorni si insediava a Palermo anche Domenico Sica, quale Alto Commissario per la lotta alla mafia. Sica disse ai giornalisti, il 13 agosto, nella sua prima conferenza stampa: “La Mafia? Sono venuto a Palermo per capire cos’è”.
E ricordo benissimo, anche, quando Giovanni Falcone, al quale chiesi un parere sull’arrivo di quei nuovi “fantaccini” spediti dai poteri istituzionali a Palermo, mi rispose lapidario: “Sono stati mandati qui per fare la guerra a me”. In quegli anni, giusto per ricordare, il ministro degli Interni rispondeva al nome di Antonio Gava. Per capire meglio l’ambientino.
Un fatto è certo. L’insediamento dei due coincise con pagine di misteri e fatti inspiegabili, calunnie e veleni, lettere anonime, “corvi”, delitti: dalla cattura di Totuccio Contorno all’invenzione costruita a tavolino che Falcone avesse fatto rientrare Tommaso Buscetta dall’America commissionandogli il repulisti dentro le fila dei “corleonesi”; dal mancato attentato dell’Addaura alla scomparsa degli agenti di polizia Emanuele Piazza e Antonino Agostino.
Vale la pena di ricordare, solo per i più giovani (gli appartenenti più anziani alla “Catena di Sant’Antonio delle minchiate” lo ricordano benissimo) quanto certi giornali dell’epoca favoleggiarono sui meriti “poliziesco-investigativi” delle new entry arrivate dalla capitale: Sica era stato ribattezzato, tanto per tenersi sobri, “Nembo Sic”, per le sue inchieste sul terrorismo; dell’altro se ne diceva un gran bene essendosi travestito da zingaro, a bordo di una gondola, per sgominare una banda di zingari a Venezia, quando aveva rivestito l’incarico di capo della Squadra Mobile in quella città.
Né fu un caso che a bruciare sul filo di lana Giovanni Falcone nella sua corsa ad Alto Commissario (quando era già stato scartato dal CSM per la guida dell’ufficio istruzione di Palermo) era stato proprio Sica. Quanto alla fine che fece La Barbera, abbiamo già detto.
Attualmente, se i nostri conti sono esatti, dovrebbero essere una mezza dozzina i poliziotti della squadra speciale capitanata da La Barbera per Capaci e Via D’Amelio che sono stati indagati, per essere coinvolti in “depistaggi” di varia natura, ma, soprattutto, per essersi lavorati a dovere lo Scarantino di cui sopra.
Ce ne sarebbe in abbondanza per porsi – giornalisticamente, s’intende – la seguente domanda: che interesse potevano mai avere 6 appartenenti alla Polizia di Stato e la loro “mamma-chioccia” (per giunta affiliato al servizio segreto civile) per intorbidire le acque dell’inchiesta, portandola deliberatamente da un’altra parte?
Ma la “Catena di Sant’Antonio delle minchiate” non ammette simili rovelli esistenziali.
Che l’intera famiglia Borsellino abbia testimoniato in tutte le salse che il loro congiunto non si separava mai dall’”agenda rossa” e che l’”agenda rossa” si sia volatilizzata nel luogo della strage, è un’altra di quelle vicende che non possono essere digerite dagli appartenenti alla “catena”.
E potremmo continuare. Ricordando, a esempio, questa strana “Faccia da mostro” ormai riconosciuta in processo da Vincenzo Agostino, padre dell’agente scomparso, in Giovanni Aiello, ex poliziotto, ormai indagato da quattro Procure.
Ma gli adepti della “Catena di Sant’Antonio delle minchiate” non demordono: “No Stato”; “Non è Stato lo Stato”; “Ma quale Stato e Stato?” …
Semmai, sembrano poggiare i piedi su un antico adagio napoletano, da noi così rivisitato: “Chi è Stato è Stato… scurdammoce u passato”.
Allora si capisce benissimo perché sparano a zero su questo maledetto processo sulla Trattativa Stato-Mafia e sul pubblico ministero Antonino Di Matteo che a scordarsi il passato non ci pensa proprio.
Allora si capisce benissimo perché la “Catena di Sant’Antonio delle minchiate” getta quotidianamente palate di fango sul giovanotto Massimo Ciancimino, che avrà tanti difetti, qualcuna se l’è inventata, ma qualcuna – vivaddio – l’ha detta giusta. Quale?
Ma, per esempio, quando ha parlato delle richieste dei vertici di Cosa Nostra allo Stato, esibendo copia del “papello” ritenuto attendibile da tutti. E con il risultato, non insignificante, che finisse l’”amnesia” durata sedici anni di quei grandi Papaveroni dell’Antimafia che finalmente ammisero che sì, qualcosa, in proposito, l’avevano sentita anche loro.
E a suo tempo sarebbe stato bello – sia detto per inciso – se gli odierni fondatori della “Catena di Sant’Antonio delle minchiate” avessero avuto il coraggio civile e giornalistico di gettare in faccia al papà di Massimo Ciancimino, vale a dire a Vito Ciancimino, il boss poi arrestato da Falcone, un quarto della quantità del fango che oggi gettano in faccia al giovanotto, “reo” ai loro occhi, anche lui, di tirare in ballo lo Stato.
Così va il mondo. Le “stagioni” cambiano.
E – come recentemente ha sentenziato qualcuno – mafia nuova vita nuova.

saverio.lodato@virgilio.it