Capaci bis: i pentiti parlano dell’esplosivo T4

explosive

di Francesca Mondin
“Alla fine del ’91 arrivarono dall’ex Jugoslavia delle armi e dell’esplosivo a Catania, il carico fu diviso tra il gruppo di Catania e i Malpassotu, i Santapaola lo dovevano mandare ai corleonesi, seppi poi che erano arrivati anche due telecomandi a distanza” il tutto prima della strage di Capaci. A dirlo è il pentito Filippo Malvagna, nipote dell’ex boss Giuseppe Pulvirenti, detto “U Malpassotu” sentito come teste al processo Capaci bis oggi in trasferta a Roma presso il carcere di Rebibbia. Il collaboratore di Giustizia ha raccontato che l’accordo riguardo questo trasporto “venne stipulato in Toscana e vi parteciparono anche persone appartenenti ai servizi segreti della Jugoslavia”. Nel rispondere alle domande della pubblica accusa, Malvagna ha descritto il tipo di esplosivo: “Non avevo mai visto quell’esplosivo, noi usavamo la gelatina o il tritolo, erano 400 chili se non di più…sembrava grano, non avevano tutti la stessa forma i grani, avevano dei colori leggermente diversi… questo esplosivo doveva essere impastato, bagnato e poi diventava tipo la creta, i granelli si compattavano, era cinque sei volte più potente del tritolo o della dinamite.”

Dello stesso esplosivo ha riferito come teste assistito Maurizio Avola, ex killer della mafia catanese: “L’esplosivo destinato ai palermitani serviva per delle stragi, Ercolano mi disse che dovevano uccidere un magistrato… mi parlò di Capaci dopo, i primi di maggio quando mi fa fare ricognizione a Firenze perché si dovevano fare diversi attentati in Italia”. Avola ha specificato che anche se nessuno le disse direttamente che quell’esplosivo era per la strage di Capaci “D’Agata mi aveva fatto capire che era servito a quello”.
Il collaboratore di giustizia ha anche spiegato come fu trasportato l’esplosivo: “fu conservato in un garage appartenente a mio padre, a sua insaputa, e dopo lo trasportai a Termini Imerese tra marzo e aprile ’92, era un esplosivo militare potente, il T4”.
Un esplosivo che, secondo quanto detto sia da Malvagna che da Avola, doveva essere lavorato in modo particolare: “Ercolano mi disse che c’era un forestiero, uno straniero non italiano che sapeva maneggiare bene l’esplosivo, e mi chiese se ero interessato ad andare dai palermitani che quest’uomo mi insegnava questa tecnica”.

Il club
“Non si doveva usare più il vecchio metodo ma ci si doveva sedere attorno ad un tavolo e ognuno aveva il suo pezzo di torta” il pentito Malvagna ha raccontato di aver saputo da Ercolano di un club da cui “dovevano passare i grossi affari della Sicilia, grandi appalti, quote all’interno di lavori grossi, contatti con mondo istituzionale, imprenditoria, magistratura, forze dell’ordine, si parlava anche di un uomo politico vicino a Cattafi e di appartenenti ai servizi segreti”.
Il club “interessava a tutta Cosa nostra ma l’input veniva degli amici di Palermo anche perchè su Messina c’era tipo un doppio controllo e addirittura le storie del messinese le trattava Leoluca Bagarella, cognato di Totò Riina”.

Bellini “infiltrato” in Cosa nostra
Successivamente ai due collaboratori è stato sentito Paolo Bellini, ex estremista nero di Avanguardia Nazionale che dopo aver ricostruito la sua storia criminale ha riferito di aver fatto l’ “infiltrato” per conto del maresciallo Tempesta dentro Cosa nostra.
“Dopo le stragi di Falcone e Borsellino mi fu presentato il maresciallo Tempesa a San Benedetto del Tronto perchè era in atto il recupero di opere d’arte ed io ero un noto trafficante. – ha spiegato Bellini – Io dopo le stragi ero molto scosso e mi sono offerto di infiltrarmi in Cosa nostra, era agosto quando Tempesta mi diede il via per infiltrarmi”. Per il recupero Bellini ha detto di essersi rivolto quindi ad Antonino Gioè: “Lui mi disse che non c’era l’opportunità di recuperarle ma mi diede la foto di altre opere d’arte”.
L’ex estremista nero ha raccontato anche del suo rapporto con il boss Gioè: “Conobbi Gioè in carcere, poi nel dicembre del ’91 lo rividi presso il distributore di benzina che gestiva ad Altofonte perche avevo una ditta di gestione crediti aziendali e dovevo riscuotere in Sicilia”.
Proprio in quel periodo a Enna si tenne una riunione della Commissione regionale con tutti i capimafia per decidere in merito alla strategia stragista che avrebbe dovuto portare all’eliminazione dei politici traditori. La coincidenza vuole che Bellini dormì in un hotel di Enna ma anche oggi in aula l’ex militante di Avanguardia Nazionale ha ribadito che “Ho dormito la notte che sono arrivato in Sicilia, prima stavo andando a Catania per riscuotere dei crediti, poi ho pensato bene di contattare Antonino Gioè… Andai inconsciamente ad Enna.. sono sceso all’hotel Sicilia, volevo dormire un po’”.
Parlando ancora del suo rapporto con Gioè Bellini ha spiegato che dopo le stragi di Capaci e Via D’Amelio “Gioè era profondamente cambiato e disse di essere consumato… per me significa che hai fatto qualcosa che qualcuno ti ha detto di fare e che il male si è contorto solo addosso a te”. In seguito il loro rapportò s’incrinò, ha raccontato il teste, perché “gli dovevo pagare della cocaina, avevo mancato un appuntamento e avevo tergiversato … temevo anche di essere stato scoperto”.
Riguardo la lettera lasciata da Gioè (trovato impiccato la notte tra il 28 e il 29 luglio del 1993, ndr) in cui aveva scritto: “Andate da Bellini che lui sa tutto”, l’ex estremista nero ha detto di non sapere a cosa si riferiva il boss sottolineando che “tutto quello che ho fatto con lui l’ho riferito”.

 Fonte:Antimafiaduemila