Agostino: ”Per Arnaldo La Barbera l’omicidio di mio figlio era ‘alta mafia”’

di Lorenzo Baldo e Miriam Cuccu
Al processo Capaci bis il padre dell’agente ucciso riconosce in foto ”faccia da mostro”

Caltanissetta. Vincenzo Agostino (in foto) passeggia nervosamente nell’aula della Corte di Assise. Le due ore di ritardo per “problemi tecnici” infieriscono ulteriormente sul suo fisico segnato da 26 anni di dolore e sete di giustizia. La moglie Augusta e la figlia Nunzia si preoccupano per il suo stato d’animo. La lunga barba bianca di Vincenzo, mai tagliata in questi anni, è sintomo di una verità che ancora non c’è. Quella sul duplice omicidio di suo figlio Nino, agente di Polizia a Palermo, e di sua nuora Ida Castelluccio, incinta di alcuni mesi. Con passo fermo sale sul pretorio e recita la formula del testimone. Agostino inizia così a raccontare il periodo nel quale suo figlio lavorava al Commissariato di San Lorenzo, la narrazione si snoda attraverso il cambio di reggenza da Elio Antinoro a Saverio Montalbano. “In famiglia mio figlio non si è mai confidato di quello che faceva in servizio – spiega –. Io non sapevo quello che faceva. Dopo il suo omicidio i suoi superiori erano ‘abbottonati’ e non mi dicevano nulla. Solo dopo mi dissero che nel portafoglio mio figlio era stato trovato un foglio con scritto ‘se mi succede qualcosa andate a vedere dentro il mio armadio’”. Agostino sottolinea che sua figlia, durante la perquisizione a casa di Nino, aveva visto che alcuni funzionari di polizia avevano prelevato “qualcosa dal camerino dove c’era un armadio”. “Se non ricordo male, tra i funzionari che si recarono a prendere le carte di mio figlio c’erano un tale Guiglia e un certo Di Bella”. Il padre dell’agente assassinato racconta quindi che all’indomani del duplice omicidio arrivarono il capo della Polizia Vincenzo Parisi e l’allora ministro dell’Interno Antonio Gava. “Io chiedevo cosa c’era scritto in questi appunti, loro mi davano una pacca sulla spalla dicendo ‘non si preoccupi signor Agostino’… nessuno mi ha dato mai notizie…”. “Prima di chiudere le bare – afferma con voce rotta dall’emozione – io ho giurato che non mi sarei tagliato barba e capelli se non avessi avuto giustizia. Sono passati ventisei anni e ancora non so il perché…”. Agostino specifica quindi di non aver mai visto alcun verbale sul ritrovamento degli scritti del figlio andando così ad infittire il mistero sulle perquisizioni avvenute a casa di Nino Agostino. Del fallito attentato all’Addaura si torna successivamente a parlare. La presenza dell’agente Agostino su quei luoghi in una sorta di “spy-game” tra agenti dei Servizi “buoni” e “cattivi”, è uno dei misteri sui quali il Gip ha imposto di indagare. Vincenzo Agostino racconta con angoscia di quando il figlio gli confidò di non poter utilizzare la sua macchina per ragioni di sicurezza, avendolo visto impallidire Nino Agostino si era subito adoperato per tranquillizzare il padre, senza però approfondire più la questione. Di seguito si torna a parlare della figura dell’agente del Sisde Emanuele Piazza, ucciso da Cosa Nostra nel 1990 in un mix di complicità tra Stato e mafia. Agostino ricorda quindi il giorno in cui Piazza si era incontrato con suo figlio per una battuta di pesca. “Solo nel ’90 ho saputo che questo giovane aveva fatto un’indagine sulla morte di mio figlio”. Nei giorni successivi all’omicidio, prosegue Agostino, “c’erano tante dicerie su mio figlio”, le prime “mascariate” su Nino Agostino parlavano di un delitto legato a storie di donne. “Arnaldo La Barbera (ex capo della Squadra Mobile, ndr) un giorno disse a me e a mia moglie: ‘lo volete capire sì o no che questo è un delitto di alta mafia?!, qui lo dico e qui lo nego!’, lo disse sbattendo un pugno sul tavolo”. “Dopo altro tempo c’erano dicerie che la bomba all’Addaura l’avesse messa lui (Nino Agostino, ndr)…”. Nella sua deposizione Agostino ricorda amaramente di quando assieme alla moglie andavano alla Squadra Mobile per avere notizie sulle indagini. “Loro non mi facevano leggere quello che aveva scritto mio figlio – ribadisce –. Io non capisco perchè La Barbera mi disse quelle parole…”. Riferendosi alle sue pressanti domande sul contenuto delle carte ritrovate di suo figlio, Agostino aggiunge poi che La Barbera, “mi disse che non c’era nulla, che era insignificante quello che aveva lasciato mio figlio”. Una metodologia alquanto ambigua, già da allora l’ex fondatore del pool Falcone e Borsellino stava operando seguendo una linea dettata dai Servizi ai quali egli stesso aveva fatto parte con il nome in codice di “Rutilius”? “L’agente Maurizio La Monica invece mi disse di non sapere nulla di quegli appunti”, sottolinea quindi Agostino. Che successivamente racconta del famoso incontro con “faccia da mostro” e un suo collega, avvenuto intorno al 10 luglio ’89, quando suo figlio era in viaggio di nozze con la moglie. Come è noto i sospetti di più procure si sono concentrati sull’ex agente di Polizia Giovanni Aiello che ha sempre negato ogni suo accostamento al “mostro”. “Era così brutto, – sottolinea Agostino – aveva una faccia come se avesse il vaiolo… aveva i capelli biondastri, per questo l’ho chiamato ‘faccia da mostro’. Mi sono preoccupato… poi non l’ho più visto circolare a Palermo”. I due uomini si erano presentati alla casa di Villagrazia di Carini su “una grossa motocicletta, la stessa utilizzata per fare l’omicidio di mio figlio”. Al fine di riconoscere quelle due persone Agostino conferma alla Corte che successivamente gli erano state mostrate alcune fotografie. Tra quelle mostrategli da La Barbera – guarda caso – c’era anche l’immagine del falso pentito Vincenzo Scarantino. Agostino conferma a proposito di non aver mai visto prima l’ex picciotto della Guadagna, né tanto meno di aver mai saputo di rapporti tra suo figlio e i Servizi. Sul ruolo ambiguo dell’ex agente di Polizia, Guido Paolilli, intercettato mentre confidava al figlio di aver distrutto le carte del poliziotto assassinato, Agostino ricorda che lo stesso Paolilli era un amico di famiglia. “Lui mi diceva ‘non ti preoccupare che ci stiamo arrivando’ (alla individuazione dei colpevoli, ndr), mi aveva anche promesso che mi avrebbe fatto vedere alcuni biglietti, io gli dissi ‘o me li fai vedere o tagliamo questa relazione’. Da quel momento non si è fatto più vedere”. Agostino ricorda inoltre anche le parole di Elio Antinoro sulla sua totale estraneità all’omicidio di suo figlio pronunciate in occasione di un torneo di calcetto dedicato a suo figlio pochi anni dopo la sua uccisione: “Antinoro mi fece un giuramento, che non era stato lui… Questa affermazione nasceva perchè io volevo sapere anche da lui per capire qualcosa… ma lui mi giurò che non c’entrava nulla con la morte di mio figlio. Io diffidavo di tutti…”. Dal canto suo l’ex questore di Palermo Fernando Masone, di fronte ai veleni che venivano gettati attorno alla figura di Nino Agostino, aveva rassicurato il padre che se avessero avuto anche un solo dubbio su di lui “non gli avrebbero fatto mettere piede” in Questura. Mentre lo racconta Vincenzo si commuove. Ma è il senso di rabbia e sete di giustizia a prevalere subito dopo quando, alle domande insistenti di alcuni avvocati, replica con fermezza che è lui a volere sapere come stanno le cose. A quel punto il Presidente della Corte di Assise, Antonio Balsamo, gli mostra un album fotografico per verificare la presenza o meno di “faccia da mostro” tra i soggetti ritratti. Agostino osserva in silenzio le foto e poi si ferma su quella che riaccende la sua memoria: “è lui, sono sicuro al mille per mille”. Ecco che ritorna il riferimento a Giovanni Aiello.

Foto © Giorgio Barbagallo

fonte:antimafiaduemila.