Chi ha paura di don Puglisi?

di Miriam Cuccu

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I primi anni ’90 rappresentano per la storia del nostro Paese una sorta di spartiacque durante il quale, come disse Falcone all’indomani dell’omicidio Lima – assassinato il 12 marzo 1992 – “Poteva succedere di tutto”. La tacita alleanza tra mafia e politica che per decenni ha determinato una pacifica convivenza tra queste due realtà – solo apparentemente lontane e inconciliabili, troppo spesso invece uguali nella loro essenza – si era definitivamente incrinata all’indomani del maxiprocesso istituito dal pool antimafia, guidato da Rocco Chinnici prima e Antonino Caponnetto poi. Uomini della classe politica e delle forze dell’ordine di allora (è in corso a Palermo il processo sulla trattativa Stato-mafia per determinarne le responsabilità) scelsero la strada della negoziazione, giocando una partita nella quale era Cosa nostra a tenere il coltello dalla parte del manico. Nel mezzo, le stragi di Capaci e via d’Amelio, che fecero saltare in aria due strade di Palermo insieme alla speranza di un Paese migliore che i siciliani onesti avevano riposto nei giudici Falcone e Borsellino, uccisi insieme agli uomini delle loro scorte (a Capaci perse la vita anche Francesca Morvillo, moglie di Falcone).
In un “gioco grande” nel quale con abili mosse venne sconvolto l’intero scenario politico, con l’obiettivo di cambiare tutto affinchè nulla potesse cambiare, il prestigio di Cosa nostra veniva minacciato da un piccolo prete di strada che lavorava incessantemente per sottrarle la legittimazione, da sempre accordata da parte della società, che ha permesso alle famiglie mafiose di fare in Sicilia (e non solo) il bello e il cattivo tempo.

“Amare ciò che non ci piace per poterlo cambiare”
Al suo arrivo a Brancaccio, don Pino Puglisi descrive il quartiere in mano alla storica famiglia dei Graviano, fedelissima a Totò Riina, come “una terra di nessuno: i bambini vivono in strada. E dalla strada imparano solo le lezioni della delinquenza: scippi, furti… Ma anche la microcriminalità a Brancaccio ha certe regole. Tutto deve essere fatto ‘con il permesso di’” riducendo gli abitanti del quartiere a una pressoché totale sottomissione.  “In molte famiglie non ci sono principi etici stabili, ma tutto viene valutato sul momento, in base alla necessità. Non c’è rispetto per la propria dignità, per quella altrui. Non c’è rispetto per la proprietà. Da ciò nasce un insieme di ‘trasgressioni legali’ – nel senso che la loro illegalità non è neppure avvertita – come il lavoro nero, il contrabbando, lo spaccio di droga…”. Don Puglisi, che ha respirato l’aria di Brancaccio fin da bambino, si rimbocca le maniche e decide di cambiare ciò che non gli piace, “Perché il vero amore – ne era convinto Paolo Borsellino – consiste nell’amare ciò che non ci piace per poterlo cambiare”. Come il giudice ucciso in via D’Amelio e molti altri magistrati, politici e giornalisti che hanno combattuto la mafia, anche don Pino conoscerà il sapore amaro dell’isolamento e del silenzio delle istituzioni politiche ed ecclesiastiche che di fatto determinerà la sua condanna a morte.

L’alternativa alla mafia
In una zona dove la criminalità organizzata recluta abitualmente nuove leve da combinare, ciò che più viene temuto dai capi di Cosa nostra è proprio quella rivoluzione culturale e delle coscienze che toglierebbe loro la linfa vitale indispensabile per mantenere il potere e il mito della mafia, verso il quale i ragazzini del quartiere nutrono una profonda ammirazione poiché rappresenta l’unica via d’uscita conosciuta per lasciarsi alle spalle un mondo di povertà e miseria. Don Pino offre invece loro un nuovo modello di vita basato su tutt’altri principi: il rispetto delle regole, non le regole d’onore che determinano la vita o la morte di un uomo ma quelle alla base della convivenza civile, della solidarietà, del riconoscimento della propria e altrui dignità come valore insindacabile. Questo e molto altro insegna ‘u parrinu ai ragazzi che gironzolano nei vicoli di Brancaccio. “Avevano una mente mafiosa, anche i più piccoli” ricorda Suor Carolina, che insieme a don Pino gestisce la parrocchia di San Gaetano “erano ossessionati dal rispetto e, secondo loro, il rispetto era dominare”. Ma Puglisi è irremovibile: “La prima cosa da fare è rimboccarsi le maniche: aiutare il bambino, il preadolescente, possibilmente anche l’adolescente – il discorso pedagogico con il giovane e l’adulto è molto difficile. Dobbiamo agire per aiutarli ad avere un senso della propria dignità, della propria vita. Dobbiamo riuscire a far capire loro perché esistono, per che cosa vivono, ma senza fare discorsi filosofici. Il bambino di quelle famiglie capirà i gesti che si faranno: il gioco, la convivenza, intesi come modelli di comportamento […] è importante, nel gioco, far loro vedere che ci sono delle regole da seguire, che non è giusto barare: nell’ambiente mafioso chi bara ha più consenso, perché esprime doti particolari, come la furbizia…”.
Come prima di lui il generale Carlo Alberto dalla Chiesa, Rocco Chinnici e molti altri, don Pino viene particolarmente temuto dalla mafia per la sua straordinaria capacità di entrare nell’animo dei più giovani, di comprenderli profondamente pur senza giudicare ed anzi, indicando loro la possibilità di una vita degna di essere vissuta con la schiena dritta e a testa alta. Soprattutto, don Pino rompe l’immagine di una Chiesa asservita al potere del boss di turno, sempre in prima fila nel ricevere i sacramenti o durante le processioni. Che l’autorità dei cattolicissimi Graviano, tutti rigorosamente battezzati in parrocchia, venga sfidata dal pulpito, non è cosa che si possa tollerare a Brancaccio.

Chi ha vinto?
Don Pino Puglisi viene ucciso la sera del 15 settembre 1993. La sua morte, tuttavia, determina l’ennesima rottura del secolare rapporto tra autorità mafiosa ed ecclesiastica che già Papa Giovanni Paolo II aveva manifestato il 9 maggio 1993 nel suo messaggio: “Mafiosi, convertitevi! Un giorno verrà il giudizio di Dio e dovrete rendere conto delle vostre malefatte…”. Oggi la Chiesa che vent’anni fa aveva voltato le spalle al prete di Brancaccio ha celebrato in pompa magna la sua beatificazione il 25 maggio di quest’anno. Permane, tuttavia, l’immagine di un Vaticano più attento a che vengano riempiti i conti correnti della propria banca – senza disdegnare i soldi sporchi delle mafie –  piuttosto che curarsi dei fedeli.
Il ricordo che di lui ha tracciato Papa Francesco all’indomani della beatificazione lascia ben sperare: “Don Puglisi è stato un sacerdote esemplare”, che “educando i ragazzi secondo il vangelo li sottraeva alla malavita e così questa ha cercato di sconfiggerlo uccidendolo. In realtà però, è lui che ha vinto”. Se davvero la sua vittoria è reale e tangibile è compito dell’intera società civile darne prova: dimostrando di non piegarsi davanti ai grandi e piccoli soprusi, esigendo il rispetto dei propri diritti invece di bussare a una porta per chiedere il permesso, parlare, sempre e ad alta voce: è questo ciò di cui le mafie hanno più paura.

Fonte: A testa alta. Don Giuseppe Puglisi: storia di un eroe solitario – di Bianca Stancanelli (Einaudi)

Fonte: antimafiaduemila.com