Caso De Mauro, un’inchiesta da far tremare il Paese

di Aaron Pettinari
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“Ho per le mani uno scoop da far tremare l’Italia”. Mauro De Mauro, giornalista del quotidiano L’Ora di Palermo, non aveva dubbi quando con queste parole, in quella calda estate del 1970,  si era rivolto a qualche collega di lavoro. Lo ricordano bene anche la moglie Elda Barbieri, la figlia Franca, ed è scritto nel diario dell’altra figlia, Junia. Una notizia talmente sensazionale da potergli aprire le porte della “laurea in giornalismo”.

Ma De Mauro era anche una figura schiva, solitaria, e a nessuno ha parlato di quell’inchiesta che stava portando avanti con tanta tenacia. Sono circa le nove di sera del 16 settembre 1970. Mauro De Mauro rientra a casa alla guida della sua BMW e si ferma al numero 58 di Viale delle Magnolie in uno di quei tanti quartieri della nuova Palermo.  Uno sguardo verso l’ingresso di casa dove vede la figlia Franca in compagnia del fidanzato. I due giovani decidono di lasciare spalancato il portoncino del palazzo e si dirigono verso l’ascensore. Una volta che il padre avrà parcheggiato la macchina saliranno sopra tutti insieme per la cena. L’ascensore arriva, ma Mauro De Mauro non si vede. Improvvisamente si sente una voce, con forte accento siciliano: “amuninne” (andiamo). Pochi attimi dopo la BMW è già lontana e in Viale delle Magnolie c’è solo il silenzio. Quando la figlia incuriosita si dirige in strada è già troppo tardi: l’auto del padre è scomparsa e non ha lasciato nessuna traccia.
Passano le ore e il giornalista non rientra in casa. L’ansia cresce e drante la notte partono le prime telefonate. La prima alla redazione del giornale, poi agli amici giornalisti, agli ospedali, al pronto soccorso.
Scattano le indagini. La Polizia ritroverà parcheggiata la BMW in pieno centro. Ma di De Mauro non vi è traccia.
Cosa è accaduto a De Mauro in quella notte? Chi lo ha portato via? Chi lo ha fatto eliminare? E soprattutto quale scoop stava preparando? Domande che dopo 43 anni restano in parte senza risposta. Il processo di primo grado che ha visto come unico imputato Salvatore Riina (poi assolto) non è riuscito a dirimere le ombre.
Lo scorso aprile si è riaperto il processo in Corte d’Appello con la decisione di riaprire l’istruttoria dibattimentale dopo la richiesta del pg Luigi Patronaggio di chiamare a deporre il pentito Francesco Di Carlo.
Quest’ultimo, in un libro intervista scritto col giornalista Enrico Bellavia, ha partlato di alcune confidenze fattegli dal “Capo dei Capi” che prima del delitto accompagnò a un summit. Nel corso della riunione, gli disse poi Riina, si sarebbe deciso l’omicidio del giornalista. Un elemento importante che può riscrivere l’esito del processo nella parte della responsabilità che il capomafia corleonese ha avuto nella vicenda.
Tuttavia le dichiarazioni di Di Carlo, a differenza di quanto scritto nelle motivazioni della sentenza di primo grado, indica nel Golpe Borghese il movente della morte del giornalista.
Il collaboratore di giustizia ai giudici ha raccontato di avere accompagnato Riina nell’abitazione del capomafia Giuseppe Giacomo Gambino per un summit tra boss qualche settimana prima del rapimento di De Mauro. Sia Riina sia il mafioso Stefano Bontande gli avrebbero raccontato che proprio nel corso di quella riunione, alla quale lui non avrebbe partecipato, sarebbe stato deliberato il delitto. Il pentito ha anche specificato che Cosa nostra avrebbe stabilito l’eliminazione del giornalista perché da Roma si era saputo che De Mauro era a conoscenza del progetto di golpe del principe Junio Valerio Borghese, piano, poi fallito, a cui collaborava la mafia. Di Carlo ha anche precisato che in Cosa nostra non si parlava mai espressamente di omicidi.
“Dicevamo: – ha spiegato – risolviamo il problema, andiamo a parlarci e si capiva cosa intendevamo”. Di Carlo ha poi smentito l’esistenza di un collegamento tra il delitto dell’ex presidente dell’Eni Enrico Mattei e il sequestro De Mauro, ma ha precisato che “all’attentato costato la vita a Mattei ci avevano pensato i catanesi”.
Un elemento di raccordo, quest’ultimo, che rafforza la considerazione dei giudici che nelle 2200 pagine di motivazione della sentenza, depositata nell’agosto 2012, hanno messo nero su bianco anche quanto accaduto a Bescapè, il 27 ottobre 1962. Di fatto viene considerata provata la matrice dolosa dell’ “incidente aereo” in quanto vi fu un’esplosione di una piccola carica di esplosivo piazzata all’interno del velivolo.
E secondo i giudici era proprio sulla morte di Mattei che De Mauro stava indagando prima di scomparire. “La causa scatenante della decisione di procedere senza indugio al sequestro e all’uccisione di Mauro De Mauro fu costituita dal pericolo incombente che egli stesse per divulgare quanto aveva scoperto sulla natura dolosa delle cause dell’incidente aereo di Bascapè” scrivono i giudici.
I giudici spiegano anche il motivo per cui l’unico imputato a processo, Totò Riina, è stato assolto. All’epoca colui che venne poi definito come il “Capo dei Capi”, infatti, non era ancora al comando di Cosa Nostra.
Al tempo stesso la sentenza diventa importante in quanto viene messo nero su bianco il torbido contesto in cui il cronista del quotidiano “L’Ora” pagò il suo scoop sulla morte del presidente dell’Eni, simulata da incidente aereo nei pressi di Pavia il 27 ottobre 1962. Nella lettura dei giudici si indica come mandante dell’omicidio Graziano Verzotto, ex dirigente dell’Eni, all’epoca segretario regionale della DC, morto il 12 giugno 2010, prima dell’ultima deposizione in aula, a Palermo.
Questi, secondo la Corte, ha un ruolo centrale sia nell’assassinio di Mattei che nel sequestro e nell’omicidio di De Mauro.
“Se Guarrasi è colpevole (dell’omicidio De Mauro n.d.r.), Verzotto lo è due volte di più” scrivono i giudici.
Per la Corte di Palermo, l’interesse dell’ex Dc per il lavoro di De Mauro era “duplice”. In primis perché “si riprometteva di strumentalizzarlo in chiave anti-Cefis”, in quanto nell’estate del ’70 ambiva alla sua successione come presidente dell’Eni. Poi perché aiutando De Mauro si garantiva “un osservatorio privilegiato per orientare la sua inchiesta e indirizzarla con opportuni suggerimenti, secondo la propria convenienza”. Questo “fino al momento in cui si è reso conto che il cronista, pur fidandosi ancora di lui, era troppo prossimo a scoprire la verità: e a quel punto doveva essere eliminato”.

Tutto secondo copione
De Mauro stava scrivendo tutto nella ricerca che gli era stata commissionata dal regista Francesco Rosi, per ricostruire gli ultimi giorni di vita del presidente dell’Eni in Sicilia. Sarebbe anche riuscito a scoprire i nomi delle persone che erano al corrente dell’orario di partenza del volo di rientro di Mattei, all’epoca tenuto segretissimo per ragioni di sicurezza.
A De Mauro però mancavano comunque dei passaggi. “Ancora si fidava del presidente dell’Ente Minerario, – si legge nelle motivazioni – mancavano solo alcuni tasselli, alcune conferme; e le chiedeva proprio a Verzotto”.
Secondo la Corte quest’ultimo “non avrebbe potuto reggere ancora per molto il gioco sottile che lui stesso aveva innescato, cercando di orientare l’indagine di De Mauro nella direzione a sé più conveniente, a cominciare dall’individuazione dei probabili mandanti del complotto. E l’impossibilità di fornire al giornalista i chiarimenti o le conferme che questi gli chiedeva non avrebbe certo mancato di rendere sospetto il suo comportamento”.
Il lavoro di De Mauro per Rosi era quasi terminato, “nella sceneggiatura approntata, dovevano essere contenuti gli elementi salienti che riteneva di avere scoperto a conforto dell’ipotesi dell’attentato. Bisognava agire dunque al più presto, prima che quegli elementi venissero portati a conoscenza di Rosi e divenissero di pubblico dominio”.
Il giorno della propria scomparsa il giornalista de “L’Ora” aveva con sé una busta gialla, o arancione. Al suo interno, molto probabilmente, vi era il copione per il regista. Con questa il collega Nino Sofia lo aveva visto passeggiare, ma poco dopo, una volta salito in redazione, la busta non c’era già più. Che fine aveva fatto? De Mauro l’aveva consegnata a qualcuno? Secondo i giudici il cronista de “L’Ora” l’avrebbe data allo stesso Verzotto.
Il 14 settembre, nei locali dell’Ems, il giornalista e l’ex senatore avrebbero proprio concordato la consegna del “copione”, ormai concluso, in quanto proprio Verzotto si sarebbe offerto di dare una mano per la sistemazione finale, prestandosi a fare da “corriere” portandolo a Roma. Del resto lo stesso Verzotto aveva dato luogo ad un  “lapsus linguae” durante un’udienza nel quale aveva sostenuto di non aver parlato con De Mauro il 14 settembre in quanto in quella data si trovava a Peschiera del Garda, dove invece si recò due giorni dopo, il 16 settembre. In quel preciso momento, rilevano i giudici, “Verzotto si confonde, equivoca sulla data, identificandola con il giorno della scomparsa di De Mauro”, perché effettivamente “fu allora che Verzotto incontrò De Mauro per l’ultima volta”, circostanza che ha sempre negato.

Uno scoop da far tremare l’Italia
Secondo i giudici di Palermo la rivelazione di un attentato a Mattei, progettato con la complicità di apparati italiani (e forse con il supporto della Cia), avrebbe avuto “effetti devastanti per i precari equilibri politici generali, in un paese attanagliato da fermenti eversivi e tentato da svolte autoritarie”. E’ per questo motivo che vengono allertati gli alleati mafiosi di Verzotto e dei cugini Salvo: ovvero i boss Stefano Bontade e Giuseppe Di Cristina sancendo di fatto la delibera alla morte del giornalista. Erano in tanti, infatti, all’interno di Cosa Nostra, che non volevano far conoscere i retroscena del delitto Mattei, ovvero quello che il collaboratore di giustizia “Masino” Buscetta aveva definito come “il primo delitto della Commissione”.
A quel punto, “”quando i sequestratori hanno ormai la certezza che il materiale raccolto su Mattei si trova in mani sicure”, De Mauro viene rapito con tutta la sua auto, “per avere qualche ora di vantaggio sugli inquirenti, simulando un allontanamento spontaneo con amici”, ma anche perché De Mauro forse aveva portato con sé altro materiale, o magari la copia del dossier consegnato, e “non si poteva correre il rischio di lasciare le carte del dossier Mattei nell’auto”.

Lo scabroso capitolo dei depistaggi
Se il “caso De Mauro” sembra davvero essere senza fine la causa è da ricercare nei continui insabbiamenti e depistaggi che hanno caratterizzato le indagini. Sono tanti i pezzi mancanti del puzzle di questa storia che assume sempre più i colori del “giallo”.
Nel dispositivo che ha chiuso il processo contro Riina i giudici avevano evidenziato alcune posizioni di testimoni apparsi falsi tanto che la Corte ha tramesso gli atti al Pubblico Ministero perché proceda per falsa testimonianza nei confronti dell’ex funzionario del Sisde Bruno Contrada, dei giornalisti Pietro Zullino (morto nel gennaio scorso) e Paolo Pietroni e dell’avvocato Giuseppe Lupis. Tutti avrebbero avuto un ruolo depistante nelle indagini e questo verrà approfondito in un nuovo dibattimento. Nel corso degli anni le difficoltà per ricostruire la verità si sono manifestate a più livelli. Basti pensare alle indagini iniziali, che si erano concentrate verso direzioni differenti per poi infrangersi muro del silenzio. Per non parlare poi della singolare “assenza di notizie” negli archivi dei servizi e degli apparati investigativi. A queste si aggiungono le pagine strappate dai quaderni di De Mauro, la scomparsa degli appunti e del nastro con l’ultimo discorso di Mattei a Gagliano, che secondo le testimonianze dei familiari il giornalista “ascoltava e riascoltava in continuazione”. Addirittura la sentenza pone l’attenzione sulla scomparsa del materiale all’interno di uno dei raccoglitori conservati in un armadio a casa De Mauro, il cui titolo era “Petrolio”. Un nome che riporta al romanzo a cui stava lavorando Pier Paolo Pasolini prima di morire. Strane coincidenze che aprono a nuovi scenari d’indagine. E con il processo bis ai “depistatori” si cercherà di capire chi e perché ha ostacolato “la ricerca della verità”. E forse si scoprirà che il “delitto De Mauro” non si è trattato di un semplice omicidio ma di un “delitto di Stato”.

fonte: antimafiaduemila.com