L’oppio dei braccianti, la nuova frontiera della schiavitù

di Valentina Leone

Latina

 

Oppio e anfetamine per resistere alle fatiche del duro lavoro nei campi, a una vita che non contempla più la dignità ma solo l’umiliazione della schiavitù. “La sostanza”, così la chiamano gli indiani sikh che ogni giorno affrontano dalle 12 alle 15 ore di lavoro, 7 giorni su 7, nei campi di ortaggi dell’Agro pontino con paghe che si aggirano intorno ai 3-4 euro l’ora. Di questa schiera di ‘invisibili’, della loro vita fatta di soprusi e umiliazioni avevamo raccontato poco più di un anno fa nel reportage reportage “Viaggio tra i lavoratori invisibili” pubblicato su Libera Informazione. Oggi  si riaccendono i riflettori su Borgo Hermada e gli altri ghetti del litorale sabaudo dove circa 12 mila indiani (ma si contano fino a 30000/400000 presenze stagionali) provenienti dal Punjab vivono e lavorano in condizioni disumane: vittime delle angherie e delle violenze dei caporali, sfruttati dai padroni e dagli italiani che affittano loro case malconce a prezzi da usura, costretti a ripagare con sostanziosi interessi i debiti per migliaia di euro contratti per avere permessi di soggiorno e documenti di lavoro spesso fasulli.

VIAGGIO TRA I LAVORATORI “INVISIBILI”

L’associazione In Migrazione, presentando stamane a Latina il dossier “Doparsi per lavorare come schiavi”, ha infatti aggiunto un altro pesante tassello a questa vicenda di italianissima mafia: ci sono decine di lavoratori che assumono stupefacenti, sostanze dopanti che li aiutano a tollerare sforzi e fatiche che sarebbero insopportabili in condizioni normali. A procurare la droga ai migranti sono gli stessi caporali e datori di lavoro italiani, i quali senza alcuno scrupolo persuadono i lavoratori a farne uso. È così che i braccianti diventano quindi vittima di un duplice sfruttamento: oltre al guadagno ottenuto dal loro lavoro, intensivo e malpagato, va ad aggiungersi quello derivante dal traffico e dalla vendita di stupefacenti ai lavoratori stessi, i quali ancora una volta diventano fonte di profitti illeciti. Ma chi gestisce il traffico di stupefacenti? E da dove arriva la droga? Quel che è certo è che il business è saldamente in mano agli italiani, anche se la provenienza delle sostanze è riconducibile non solo al nostro Paese ma anche all’India. Oltre al consumo, alcuni lavoratori vengono poi direttamente assoldati come spacciatori: fanno il lavoro sporco e devono consegnare tutto il guadagno al capo. Altri decidono invece di comprare quantitativi maggiori di droga e rivenderla autonomamente, nella speranza che oltre al senso di fatica scompaia anche la miseria in cui sono costretti a vivere. Dall’inizio dell’anno la Guardia di Finanza ha sequestrato una decina di chili di sostanze stupefacenti proprio nell’area compresa tra Sabaudia, Latina e Terracina: un dato che dimostra come la zona sia terreno fertile non solo per le colture di ortaggi ma anche per gli affari sporchi della malavita.

«Purtroppo non mi sorprende molto che ci siano fenomeni di questo tipo. Da 10 anni denunciamo le condizioni di schiavitù in cui questi lavoratori si trovano: non si tratta però solo di un problema di basso salario,il punto è che dietro tutto questo c’è un sistema malavitoso ben collaudato i cui tentacoli sono di varia natura. Per questo non mi stupisce molto che in tutta questa vicenda si sia aggiunto anche il business della droga». È una considerazione amara quella di Giovanni Gioia, sindacalista della Flai – Cgil di Latina, che da anni si batte per garantire migliori condizioni di vita e di lavoro ai migranti. «Quello che trovo sorprendente, come sempre – continua – è che di questa situazione si siano accorti solo associazioni e sindacato, mentre da parte delle istituzioni registriamo silenzio e inerzia: prova ne sia che nel corso degli anni sono state presentate diverse proposte di legge ma solo pochissime sono state poi recepite. Quanto emerso oggi sta ad indicare che sono necessari ulteriori interventi dal punto di vista legislativo, perché non è con politiche repressive e blitz delle forze dell’ordine che si risolve il problema».

Non ci sono solo i gas diserbanti che i lavoratori sono costretti a spargere senza le dovute protezioni a soffocare e avvelenare le vite di questa comunità, c’è molto di più: c’è il silenzio, declinato in tutte le sue forme. Dall’impossibilità di protestare per paura di ritorsioni da parte dei caporali, passando per la ritrosia nel denunciare i continui furti subiti nel tragitto dal lavoro a casa, dove questi indiani vengono sistematicamente depredati dei pochi euro che sono riusciti a guadagnarsi in una lunga e dura giornata di lavoro, la vita di queste persone, se è ancora possibile e accettabile definirla tale, è governata da un’omertà imposta, alla quale sono continuamente addestrati e che per questo diventa una sorta di modus vivendi. A questo è forse possibile ricondurre la difficoltà nel raccogliere testimonianze e far emergere il problema, poiché la necessità di far uso di queste sostanze loro malgrado, per sopravvivere a ritmi disumani, li umilia e li rende colpevoli rispetto ai dogmi della loro religione, che vieta tassativamente droghe e alcool. Convinti di aver calpestato il loro credo, tormentati dallo spauracchio di ripercussioni di qualsiasi genere qualora la bocca pronunciasse una parola di troppo, accettano che il loro corpo venga continuamente seviziato da violenze fisiche e psicologiche, minacce, ricatti: l’induzione al consumo di stupefacenti allevia, forse, le piaghe del duro lavoro ma acuisce l’umiliazione più profonda, quella di esser stati costretti a tradire sé stessi, a barattare la dignità con la sopravvivenza.

Fonte:Liberainformazione