LA GUERRA DALLA MAGISTRATURA CONTRO LA STAMPA SGRADITA

 

 

 

 

di Rita Pennarola

Non ci è piaciuta la querela che il pubblico ministero di Palermo Nino Di Matteo ha presentato contro i giornalisti Giuliano Ferrara, Filippo Facci ed Enrico Deaglio (oltre ai rispettivi direttori e al critico Vittorio Sgarbi ), tutti “rei” di avere avanzato dubbi sulla famosa “intercettazione ambientale” in cui il boss Totò Riina, parlando in carcere con Alberto Lorusso (ribattezzato “la dama di compagnia”), riferiva fra l’altro di minacce alla vita dello stesso pm che indaga sulla Trattativa.

La querela di Di Matteo è solo l’ultimo atto, in ordine di tempo, di quell’autentica guerra che si sta consumando nelle aule di tribunale ai danni dei giornalisti che osano porsi – e porre all’opinione pubblica – domande circa l’operato delle toghe. Le quali, invece di rispondere sui giornali o in tv, chiarendo a giornalisti e cittadini quanto viene loro domandato, preferiscono accomodarsi nelle aule dei tribunali, a loro certamente più familiari.

La querela di Di Matteo è giustamente finita fra quelle passate al vaglio nel rapporto settimanale di Ossigeno, il sempre vigile osservatorio dei giornalisti italiani. Il cui direttore Alberto Spampinato, proprio in virtù di una legge sulla diffamazione risalente in Italia all’era fascista, ha intanto chiesto provocatoriamente a Reporter Sans Frontieres di rettificare la posizione dell’Italia nella classifica sulla libertà di stampa: una hit che quest’anno presentava il nostro Paese alla conquista di posizioni più avanzate, ma solo in virtù dell’ipotesi di una riforma del testo sulla diffamazione che invece è rimasta, finora, sulla carta.

Tornando a Di Matteo va comunque osservato che, se non altro, il pubblico ministero di Palermo ha presentato la sua doglianza in sede penale, lasciando perciò che ci sia un altro pm a raccogliere prove e decidere per l’eventuale rinvio a giudizio.

Ben diverso l’atteggiamento di altri pubblici ministeri, come il procuratore capo di Grosseto Francesco Verusio (nella foto): martedì 25 febbraio si terrà dinanzi alla prima sezione civile del Tribunale di Roma, giudice Cecilia Pratesi, una nuova udienza del processo contro La Voce delle Voci, che aveva pubblicato ad aprile 2012, cioè nei primi mesi successivi al naufragio del Costa Concordia, un articolo nel quale documentava come lo stesso Verusio, titolare delle indagini sul disastro, fosse stato in passato presidente del Centro Studi Giuridici per l’Integrazione Europea Diritti e Libertà, lo stesso organismo per il quale era finito in manette il faccendiere e giudice tributario Pasquale Lombardi, accusato dalla procura di Roma di aver cercato, anche attraverso quel Centro, di condizionare l’operato di alcuni magistrati impegnati in delicati procedimenti giudiziari.

Nessuna smentita da parte di Verusio che, anzi, nella citazione in cui chiede denaro alla Voce per risarcire il “danno” patito, conferma a chiare lettere la circostanza. E allora? Se la notizia è vera (e la conferma Verusio), se è d’interesse pubblico (visto che riguarda il titolare delle indagini sul naufragio del secolo) e se vi è stata la dovuta continenza nel riferirla ai lettori (la Voce scriveva nell’articolo che Verusio, nell’ambito del procedimento sulla P3 a carico di Lombardi ed altri, non era mai stato indagato), dove sta la diffamazione? O il procuratore di Grosseto si lamenta, per caso, di lesa maestà?

Ma la domanda è ancora un’altra: perche´ Verusio, che una qualche fiducia nella giustizia penale dovrebbe averla, essendo un procuratore capo, se si sente diffamato non ritiene di doversi affidare alla giustizia penale, come ha fatto Di Matteo, ma preferisce monetizzare qui e subito il presunto danno nella sede civile?

Le due vicende, quella riguardante la querela di Di Matteo e l’altra, sulla citazione civile da parte di Verusio, testimoniano comunque quanto pochi giorni fa ha affermato in un’intervista Giovanni Rossi, presidente della Fnsi: «I giornalisti che portano avanti fino in fondo il compito di guardiani del potere, compreso quello giudiziario, per conto dei cittadini, diventano scomodi. Per la politica, certo, ma anche per la magistratura, che rappresenta un altro potere forte».

E così diverse personalità della magistratura, fra le quali Di Matteo e Verusio, invece di dissipare i dubbi nell’ambito di confronti aperti al pubblico, passano direttamente al contrattacco. Ben consapevoli – e non potrebbe essere altrimenti – del “peso” che avranno le loro iniziative giudiziarie sull’intera categoria, a sua volta consapevole che, sulla fondatezza o meno delle pretese, l’ultima parola spetta ai colleghi dei querelanti.

L’effetto intimidazione, che sia collaterale o voluto, è comunque assicurato.  E va da se´ che di giornalisti “sgraditi ai magistrati” – come giustamente li definisce Ossigeno nel caso Di Matteo – ce ne saranno sempre di meno. Finirà così quel residuo, minimale potere di controllo sulla magistratura ancora esercitato dalla stampa, in nome e per conto dei cittadini, su una casta di toghe ed ermellini non sottoposta, per principio, ad alcuna forma di vigilanza esterna, ma sempre più avviluppata in un “potere di autocontrollo” che sa tanto di lotte intestine e faide tra correnti.

Per questo, sarà davvero difficile che una riforma del testo sulla diffamazione possa un giorno andare in porto, e che esisterà davvero un nuovo dettato eventualmente compatibile – e non confliggente, come avviene ora – con l’articolo 21 della stessa Carta costituzionale.

Da parte nostra, alcuni fra noi giornalisti continueranno a vigilare. “Fucilati” nelle aule civili, ma pur sempre indisponibili ad esercitare la professione di passacarte della magistratura.

L’IMPEGNO CIVILE

Tutte queste considerazioni rendono obbligatoria una riflessione sulle esperienze giornalistiche – per fortuna tutt’altro che rare – esposte in prima linea sul fronte dell’investigazione e dell’impegno civile antimafia. Compito strategico che riguarda non solo numerosi professionisti di lungo corso, ma anche decine e decine di giovani cronisti di testate operanti in territori dove Cosa nostra, camorra e ‘ndrine sono il pane quotidiano della “nera” e della giudiziaria.

Un caso ancor più particolare, all’interno di queste categorie, è poi quello dei giornalisti che, al “mestiere” dell’inchiesta, affiancano un impegno attivo e personale all’interno di associazioni antimafia, come facciamo, ad esempio, alcuni fra noi della Voce, iscritti alla Caponnetto e militanti in questa compagine al fianco del segretario Elvio Di Cesare.

E’ evidente che, per condurre un simile sforzo con risultati efficaci, occorra mantenere saldo il riferimento all’azione della magistratura, delle Dda e delle forze dell’ordine.

Questo però non deve significare chiudere gli occhi dinanzi alle storture, contraddizioni od omissioni  che riguardano la “casta” dei magistrati, così come qualunque altra.

Ma aprire gli occhi significa – e per noi sarà sempre così – essere ancora più vicini a quei magistrati che, generalmente lontani dalla grancassa dei media, per condurre il proprio lavoro con imparzialità, preparazione ed onestà, spesso pagano prezzi altissimi all’interno della loro stessa categoria. La storia recente ce lo insegna. E questo non dobbiamo mai dimenticarlo.

 

fonte:lavocedellevoci.it