La guerra di Cosa Nostra: tra escalation di minacce e strategie di contrasto

di Roberto Scarpinato*
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Signor Presidente, nell’esordio della Sua relazione Lei ha osservato come la cerimonia per l’inaugurazione dell’anno giudiziario rischi di trasformarsi in uno stanco rituale che, nonostante il trascorrere degli anni, sembra ripetersi sempre uguale a se stesso nella sua elencazione di cifre, di variazioni percentuali e, soprattutto, nell’inventario di riforme strutturali da tempo individuate come indispensabili per restituire efficienza e credibilità al sistema giustizia, ma, ciononostante, in larga misura ancora non realizzate.
Nel concordare con la Sua osservazione, mi permetto di aggiungere che la ripetitività, quasi atemporale, dei contenuti di questo rituale, questa coazione a ripetere parole già dette, ancor di più risaltano se poste a confronto con la tumultuosa e radicale evoluzione degli scenari macro economici che sta provocando profondi rivolgimenti nel tessuto sociale, sta ridisegnando in modo inedito le interazioni tra economia legale e illegale, sta determinando mutazioni profonde del modo di essere della criminalità; trasformazioni tutte che impongono la necessità di una rivisitazione globale delle analisi di contesto e della messa in opera di nuove e urgenti strategie di intervento multilivello all’altezza della sfida dei tempi.

Strategie multilivello che prendano atto del fallimento storico dell’illusione repressiva che ha alimentato gran parte delle politiche criminali dell’ultimo ventennio.
Illusione repressiva che ha affidato troppo spesso solo alla leva della risposta penale e carceraria la soluzione di problemi di grande complessità sociale e politica come, ad esempio, il fenomeno dell’immigrazione, della tossicodipendenza, della crescita del disagio e della marginalità sociale, che sono stati scaricati sulle spalle della Giurisdizione e delle Forze di Polizia, mentre avrebbero richiesto un variegato ventaglio di interventi sui terreni della politica di prevenzione e dell’economia per incidere sulle loro cause strutturali.
Fenomeni questi ed altri che non potendo essere risolti dalla risposta penale, continuano a riprodursi, se non ad aggravarsi, e a riempire le carceri di una popolazione composta in larga misura dagli ultimi, da coloro che occupano i gradini più bassi della piramide sociale, in perenne e ciclica transumanza da inferni urbani di periferie degradate a inferni carcerari censurati dalla Corte europea dei diritti dell’uomo di Strasburgo come indegni di un paese civile.
Nella categoria concettuale dell’ “illusione repressiva”, ben nota a tutti gli studiosi di diritto penale nel senso appena accennato, va io credo ricompresa anche l’illusione che sia possibile una efficace repressione penale di gravi illegalità di sistema, come, ad esempio, la corruzione, gravide di rilevantissime conseguenze anche sul piano macroeconomico, mediante il varo di nuove leggi – quale la c.d. legge anticorruzione approvata nel novembre 2012 – rappresentate alla pubblica opinione quasi come strumenti risolutivi messi nelle mani della magistratura per debellare il fenomeno, e che invece si rivelano in larga misura come modesti palliativi o innocui placebi per la mancanza della volontà politica di incidere su alcuni nodi essenziali ai quali accennerò nella parte conclusiva del mio intervento.
Accennavo all’inizio del mio intervento come alla ruminante lentezza dell’evoluzione del sistema penale si contrapponga la frenetica e molecolare evoluzione dell’economia e, conseguentemente, anche degli scenari dell’economia criminale.
Lo ristretto spazio temporale a mia disposizione, non mi consente di svolgere un’ analisi adeguata di tali fenomeni. Mi limiterò dunque solo a brevissimi accenni che riguardano i profili a mio parere di maggiore interesse.
I dati statistici attestano come la crisi economica che attanaglia da alcuni anni tutto il paese, abbia in Sicilia ricadute ben più gravi.
Basti considerare il PIL pro capite regionale è il 34% in meno di quello medio nazionale e che la perdita dei posti di lavoro è pari a tre volte il dato medio nazionale. Negli ultimi tre anni la Sicilia ha perduto più di 50.000 posti di lavoro.
Esiste dunque una crisi nella crisi, ed ogni anno di più si allarga la forbice del reddito pro capite tra Nord e Sud, tanto che alcuni analisti economici parlano del rischio di una occulta e strisciante secessione economica tra le due aree del paese.
La questione meridionale sembra essere stata da tempo cancellata dall’agenda politica nazionale, quasi fosse una scommessa ormai perduta, e a livello europeo, tenuto conto anche della pessima prova fornita nell’utilizzo dei fondi strutturali europei dispersi in larga misura nel buco nero dello sperpero clientelare, si ventila talora l’ipotesi di declassare questa parte del paese in una Zona Euro due, riservata alle aree macroeconomiche che non appaiono in grado di allinearsi in tempi congrui ai parametri dei paesi più avanzati.
Questa situazione globale ha gravi ricadute sulla questione criminale sotto vari profili e rischia di vanificare nell’arco di breve tempo molti degli enormi sforzi compiuti in questi anni per riconquistare alla cultura della legalità significative aree della società civile.
Dopo il trauma collettivo delle stragi del 1992, si era registrata una straordinaria stagione di risveglio civile nell’isola che aveva visto operare in virtuosa sinergia da una parte apparati istituzionali, quali magistratura e Forze di Polizia, impegnati in una instancabile attività di repressione giudiziaria della criminalità mafiosa, e dall’altra settori più avanzati della società civile che si erano mobilitati su vari fronti per rompere il clima di passiva rassegnazione al prepotere mafioso alimentato da una risalente sfiducia nella capacità delle istituzioni di debellare il fenomeno, recidendo anche il nodo delle collusioni della mafia con il mondo politico ed economico.
Questo nuovo clima sociale aveva generato la nascita di tante associazioni antiracket, quali tra le più famose Addio Pizzo, e aveva determinato dopo il 2005 anche uno storico ribaltamento dei rapporti di forza all’interno di Confindustria, la più importante associazione sindacale del mondo imprenditoriale, i cui vertici – in precedenza talora monopolizzati a livello provinciale e regionale da imprenditori contigui con la mafia – sono stati occupati da una giovane leva di imprenditori impegnati a mettere al bando coloro che hanno rapporti con la mafia.
Ed ancora in quella stagione, abbiamo assistito al fiorire di una nuova leva di pubblici amministratori che si schierarono apertamente contro la mafia conducendo aspre battaglie, tra i quali ricordo Rosario Crocetta, già sindaco di Gela ed ora Presidente della regione siciliana e il sindaco di Palermo Leoluca Orlando.
Se ricordo tutto ciò non è certo per un nostalgico Amarcord del passato, ma perché questo prezioso patrimonio, costruito con l’impegno, la passione civile di tanti, è oggi pericolosamente a rischio.
L’alleanza tra istituzioni e società civile che si è declinata nei modi accennati e che ha rappresentato una svolta storica rispetto al passato, si fondava infatti su una promessa-scommessa: la promessa che fosse possibile coniugare legalità e sviluppo, che cioè il ripristino della legalità avrebbe garantito per il futuro quel benessere economico che era stato da sempre pregiudicato dalla predazione sistemica delle risorse collettive da parte della mafia e della mala politica.
Si era dunque creata in questi anni una fiduciosa aspettativa che si alimentava della speranza che cultura e ripristino della legalità si traducessero nella creazione di nuovi posti di lavoro e nel rilancio dell’economia grazie anche a mirati interventi infrastrutturali finanziati con soldi pubblici.
Ebbene il sopravvenire della recessione economica che sta mettendo in ginocchio l’isola determinando una crescita vertiginosa della disoccupazione, la contrazione della spesa pubblica per investimenti, il perdurare della predazione dei fondi pubblici stanno radicando nell’immaginario collettivo la convinzione che la promessa di coniugare legalità e sviluppo sia stata ancora una volta tradita o, peggio, sia una vuota chimera.
Questa disillusione rischia di alimentare per un verso il progressivo ripiegamento di fasce consistenti della popolazione nell’antica rassegnazione fatalistica di un tempo, per altro verso il consegnarsi di tanti ad un’ economia criminale di sussistenza: sono frequenti le cronache di pensionati indigenti che spacciano perché con le magre pensioni non arrivano alla fine del mese, di interi nuclei familiari che sbarcano il lunario vendendo merce contraffatta, sigarette di contrabbando o dedicandosi ad altre attività illegali.
Questa disillusione alimenta anche un pericoloso ribellismo sociale che si declina in sempre più frequenti episodi di violenza e guerriglia urbana con aperta contestazione di istituzioni ritenute incapaci di dare risposta ai bisogni primari di sussistenza di migliaia di famiglie senza lavoro e senza tetto.
Sulla brace di questa disillusione soffiano poi menti raffinate della criminalità mafiosa che, dietro le quinte, cavalcano la tigre della crisi, additando come corresponsabile della stessa la magistratura strumentalmente accusata di sequestrare e confiscare imprese che prima davano lavoro e creavano ricchezza e che, dopo i sequestri, vengono dichiarate fallite o languiscono.
In questi mesi, in occasione di manifestazioni popolari di protesta si è dovuto assistere a scene analoghe a quelle della Palermo della fine degli anni Ottanta, quando mille operai edili rimasti senza lavoro dopo che la giunta Orlando aveva revocato all’impresa Cassina l’appalto per la manutenzione della rete viaria e fognaria, scesero in piazza inalberando cartelli dove era scritto “ Vogliamo la mafia” oppure “Con la mafia si lavora senza no”.
A Palermo, in Sicilia, in questo laboratorio politico nazionale, in questa frontiera avanzata delle istituzioni dove per dare senso e contenuto alle parole legalità e Stato sono stati versati fiumi di sangue e di lacrime, è dunque in corso una sfida drammatica la cui posta in gioco non è uno algido scarto percentuale in più o in meno del numero dei processi definiti, il fatturato dell’azienda giustizia, come si usa ripetere mutuando locuzioni gergali della cultura egemone mercatista.
No: qui la posta in gioco è molto più alta e drammatica: è la credibilità stessa delle istituzioni, è il bene prezioso di una fiducia collettiva perduta, ritrovata e che rischiamo nuovamente di smarrire.
La posta in gioco è anche, mi consenta di dire Presidente, il senso stesso del nostro vissuto in questi anni tragici e sanguinosi disseminati delle morti dei migliori tra noi, caduti in quella che Paolo Borsellino, sentendosi prossimo alla fine, nel suo ultimo discorso il 23 giugno 1992 definì una “lotta d’amore” per liberare Palermo e la Sicilia dal sistema di potere mafioso.
Si tratta di un passato doloroso che avremmo tutti voluto lasciare alle nostre spalle per sempre, ma che invece continua ad aleggiare sul nostro presente non solo nelle forme che ho appena accennato e nel perdurare dell’attivismo della criminalità mafiosa, ma anche come propositi di morte e di vendetta mai sopiti, pronti a cogliere ogni occasione ed il momento opportuno per tradursi nuovamente in realtà, come dimostrano, tra l’altro, l’escalation di minacce e di intimidazioni nei confronti di un numero sempre crescente di magistrati a Palermo e a Trapani, e, da ultimo, le recenti minacce di Salvatore Riina di cui hanno dato notizia i media nazionali.
Minacce e propositi di morte che hanno lasciato interdetta la pubblica opinione nazionale quasi incredula a fronte della veemenza di una violenza che il trascorrere del tempo non riesce a sopire, ma che certamente non ha lasciato interdetti quelli tra noi che questa storia siamo stati costretti a vivere, e che sappiamo bene come questo passato continui ad essere un pericolo costante dinanzi al quale occorre non abbassare mai la guardia.
Per ragioni di tempo, sono costretto a tralasciare l’analisi delle più recenti evoluzioni della criminalità mafiosa, anch’essere riconducibili alla crisi economica.
Mi limito solo ad osservare che il perdurare dell’attivismo della criminalità mafiosa e la crescita ingravescente del tasso di pericolosità che si manifesta nei modi accennati, è conseguenza anche della perdita di efficacia delle sanzioni penali inflitte a seguito delle condanne.
La pene irrogabili vengono infatti significativamente ridotte a causa del sommarsi di una serie di benefici processuali previsti dalla legislazione vigente:
lo sconto di un terzo della pena irrogata a seguito del ricorso al giudizio abbreviato;
il significativo abbattimento della pena inflitta per nuovi reati in conseguenza dell’applicazione dell’istituto giuridico della continuazione con le pene già applicate per reati commessi in precedenza;
l’applicazione dell’istituto premiale della liberazione anticipata che prevedeva lo sconto di 45 giorni di pena ogni sei mesi, che si traduce anche per i mafiosi in un bonus di tre mesi per ogni anno di pena scontata.
A causa del sommarsi di tali benefici processuali si è determinata non solo la riduzione dell’efficacia deterrente delle sanzioni penali, ma anche l’accelerazione del turn over tra mafiosi detenuti e quelli in stato di libertà che garantisce la continuità della presenza sul territorio degli esponenti più pericolosi e carismatici, assicurando al contempo la tenuta complessiva della classe dirigente di Cosa Nostra.
A tutto ciò si aggiunga l’ulteriore effetto negativo della grave demotivazione ingenerata in tutti quei cittadini che, esponendosi in prima persona, hanno trovato il coraggio di denunciare gli estortori mafiosi e che, dopo la loro condanna, nel giro di poco tempo li vedono ritornare nello stesso territorio, nuovamente all’opera e ancora più arroganti di prima.
Tenuto conto che tali nefasti effetti negativi sono stati evidenziati più volte nelle competenti sedi istituzionali ed anche su taluni organi di stampa, appare incomprensibile la scelta operata nel recente decreto legge c.d. svuota carceri di aggravare ancor di più la situazione estendendo anche agli esponenti della criminalità organizzata l’innalzamento da 45 a 75 giorni dello sconto di pena previsto per la liberazione anticipata a far data dal 2010.
Una pena di sei anni si ridurrà quindi a tre anni e mezzo e decine di pericolosi mafiosi a breve termine e nei prossimi anni ritorneranno in libertà anzitempo.
Si ha talora la sensazione che la legislazione statale assomigli ad una sorta di tela di Penelope che da una parte viene tessuta con l’introduzione di nuove norme per rendere più efficace l’azione repressiva, e dall’altra viene in parte smagliata depotenziando la stessa risposta repressiva.
Non posso concludere questo mio breve intervento senza fare cenno all’altra grave forma di criminalità organizzata che come la mafia, e oggi forse ancor più della mafia, è corresponsabile dello stato di degrado economico in cui versa il paese e del pericolo di tradire la promessa di coniugare sviluppo e legalità.
Mi riferisco alla corruzione che ho definito “criminalità organizzata” perché le indagini condotte dalla Procura della Repubblica di Palermo e da altre Procure del distretto nei più svariati comparti della P.A. – dalle inchieste sugli appalti per l’organizzazione dei grandi eventi, a quelle sulla predazione dei fondi europei destinati alla formazione professionale, alle inchieste sulla sanità, a quelle sul rilascio delle autorizzazioni per gli impianti di energia eolica e via elencando – hanno posto in evidenza come nella più parte dei casi non ci si trovi dinanzi ad una mera sommatoria aritmetica di reati ascrivibili a singoli pubblici ufficiali, ma piuttosto dinanzi all’operare di estese reti criminali di colletti bianchi che nel loro ramificarsi si intrecciano spesso con quelle mafiose, dando vita a complessi Sistemi criminali operanti nei più diversi settori.
L’omertà che copre l’operare di tali reti corruttive è pari, se non superiore, a quella che caratterizza il mondo mafioso, come dimostra tra l’altro la rarità delle denunce presentate al riguardo da privati cittadini, soggetti passivi di abusi di potere e di discriminazioni, consapevoli che l’arresto di singoli pubblici ufficiali, senza che siano nel contempo smantellate le ampie reti corruttive in cui gli stessi sono inseriti, li potrebbe poi esporre all’azione ritorsiva dei loro complici rimasti ignoti e che continuano a operare occultamente in nodi strategici del circuito istituzionale.
Per avere una idea della dimensione macro economica della predazione e dello sperpero clientelare delle risorse pubbliche, basti considerare che, ad esempio, nel solo settore della formazione sono stati dissipati dal 2003 al 2013 ben tre miliardi di euro senza produrre alcun risultato in termini occupazionali.
Nonostante l’esistenza di alcuni segnali positivi come la collaborazione offerta alla magistratura dalla nuova giunta regionale guidata dal presidente Rosario Crocetta nel fare emergere vari episodi corruttivi, occorre tuttavia prendere atto a fronte del proliferare inarrestabile della corruzione, la magistratura dispone di strumenti di contrasto assolutamente inadeguati anche a causa di scelte legislative che nel loro sommarsi hanno limitato gli strumenti di indagine e depotenziato il rischio penale.
La previsione di pene edittali inferiori a cinque anni di reclusione per reati contro la p.a. qualificabili come reati spia dell’operare di sistemi criminali dediti alla corruzione – quali ad esempio l’abuso di ufficio, il traffico di influenze illecite – impedisce l’utilizzo per tali reati delle intercettazioni, unico strumento in grado di perforare la spessa coltre di omertà che protegge le reti corruttive e, tenuto conto del divieto di cui all’art. 270 c.p.p., impedisce anche la possibilità di utilizzare i risultati di intercettazioni captate nell’ambito di altre indagini concernenti reati per i quali le intercettazioni sono invece consentite.
Come se non bastasse è stata introdotta con il secondo comma dell’art. 319 quater c.p. una norma che dissuade i soggetti vittime di concussioni dal denunciare i pubblici ufficiali concussori, prevedendo che nel caso in cui rivelino di avere dato o promesso indebitamente denaro o altra utilità invece di essere scriminati vengano incriminati anch’essi e puniti con una pena sino a tre anni.
Ed ancora è stata ridotta la pena, e quindi il termine di prescrizione, per il reato di concussione tramite induzione di cui all’art. 319 quater c.p., condotta che costituisce una delle forme più subdole e frequenti per ottenere l’illecita dazione di denaro o di altre utilità.
Infine nei casi nei quali, a seguito di complesse indagini, si riesce ad ottenere delle condanne per i reati più gravi, il rischio penale viene poi azzerato dall’intervenire della prescrizione che, decorrendo non dalla data di accertamento del reato ma da quello della sua consumazione e stante l’attuale regime normativo introdotto dalla legge 251/2005, condanna all’ estinzione gran parte dei reati prima che possa intervenire la formazione del giudicato.
Tale sistema normativo che alimenta la diffusione della cultura dell’impunità, viene mantenuto in vita seppure in contrasto con la raccomandazione formulata dal Gruppo di stati contro la corruzione che agisce nell’ambito del Consiglio d’Europa (Greco) che sin dal rapporto del 2 luglio 2009, ha segnalato all’Italia la necessità di modificare l’anomalo regime normativo della prescrizione, allineandolo a quello in vigore negli altri stati europei.
Viene mantenuto in vita in conflitto con le previsioni promananti dalla Convenzione dell’Organizzazione delle Nazioni Unite contro la corruzione, adotta dall’assemblea dell’ONU il 31 ottobre 2003 e ratificata dall’Italia con legge 3 agosto 2003 n. 116.
Viene mantenuto in vita nonostante l’unanime cultura giuridica abbia individuato nell’attuale regime della prescrizione la principale causa della patologica dilatazione della durata dei processi, realizzata mettendo in campo nei vari gradi di giudizio tutte le tecniche dilatorie possibili per conseguire il traguardo finale dell’impunità grazie alla prescrizione.
Non resta che sperare, signor Presidente, che nella relazione del prossimo anno giudiziario non ci venga inflitta ancora una volta la pena di dovere ripetere e ascoltare, così come è avvenuto sino ad oggi, discorsi che appaiono destinati a restare inascoltati, e che sia finalmente possibile aprire una nuova pagina della storia nazionale che restituisca al nostro popolo fiducia in se stesso e nel proprio futuro.
Questo sarebbe il modo migliore per onorare la memoria dei tanti che per garantire questo futuro migliore hanno sacrificato la propria vita.

* Intervento del Procuratore generale di Palermo Roberto Scarpinato all’apertura dell’anno giudiziario

fonte:antimafiaduemila.com