Il caso oscuro del ministro Scotti

di Giorgio Bongiovanni

scotti-vincenzo-290114

Vincenzo Scotti è stato ministro dell’Interno dal ’90 al ’92. È in questi anni che il governo, avvalendosi della collaborazione dell’allora ministro della Giustizia Martelli e di Giovanni Falcone, che aveva appeso temporaneamente la toga al chiodo, per dirigere la sezione affari penali del ministero, vara una serie di leggi con lo scopo di portare avanti una decisa azione di contrasto contro la mafia. Scotti, comparso all’udienza di ieri davanti ai pubblici ministeri del Borsellino quater, ha descritto quei delicati primi anni ’90 caratterizzati da una forte destabilizzazione politica. Gli anni in cui fu avviata la trattativa Stato-mafia. “Nei mesi precedenti il capo della polizia mi informa che erano prevedibili azioni di stampo terroristico”, si trattava di note che indicavano obiettivi che avrebbero portato ad una ancora più seria destabilizzazione del Paese.

“Sulla base di queste informazioni ritenni, insieme al capo della Polizia, di dichiarare lo stato di allerta ai prefetti, la comunicazione era riservata”. Dopo qualche giorno, però, “uscì la notizia sul Corriere della Sera. Eravamo in campagna elettorale, poco dopo l’uccisione – il 12 marzo 1992 – a Palermo di Lima” esponente della Dc siciliana. In merito all’informativa “alla vigilia della mia deposizione in Senato uscì un comunicato di un’agenzia che annunciava che quella deposizione di cui ha notizia il capo della polizia era di Ciolini, noto depistatore” Elio Ciolini era già conosciuto per i suoi ambigui legami con l’estrema destra e i servizi segreti, nonché per aver tentato di inquinare le indagini sulla strage alla stazione di Bologna del 1980. “Si creò immediatamente un clima di diffidenza” continua Scotti nel corso della deposizione.
L’ex ministro spiega la sua posizione di quegli anni, peraltro già chiarita alcuni giorni prima all’indomani dell’omicidio Lima: “Chiesi alla commissione antimafia di dirmi quale era la scelta politica che intendeva fare nella lotta alla criminalità organizzata: se intendeva continuare con quello che noi avevamo avviato nel corso degli anni ‘90 e ’91, cioè l’insieme di misure che con la straordinaria collaborazione di Falcone avevamo messo in piedi e stavamo completando, con quello che poi diventerà il decreto legge dell’8 giugno ’92, con anche le misure sul 41 bis (oltre all’istituzione della Dia, della Dda, delle misure contro il riciclaggio di denaro sporco, ndr). Se scegliamo questa strada – continua Scotti ricordando il suo discorso – dovremo fronteggiare una situazione estremamente dura, perché dalle nostre informazioni si evince un passaggio della mafia a un’azione stragista”.
Scotti precisa che il decreto dell’8 giugno, che sancì di fatto l’inizio della lotta alla mafia, fu “ai limiti dell’incostituzionalità, firmato dall’allora presidente della Repubblica, Francesco Cossiga. Quel decreto, che Cossiga definì alla stregua di un ‘mandato di cattura’ impedì di liberare imputati già condannati al maxiprocesso”. Con la collaborazione di Falcone e Martelli “vennero adottate diverse misure che subirono resistenze, contrasti e anche delle modifiche in Parlamento. Contrasti insorti per il maxiprocesso e per i metodi da adottare nella lotta alla mafia”. “C’era il rischio che non venisse approvato. Venne convertito solo perchè in quel periodo si verificò la strage di via D’Amelio. C’erano delle resistenze contro il decreto nel suo insieme, anche all’interno della stessa Democrazia cristiana.”. Il decreto venne poi convertito in legge il 7 agosto 1992, dopo la morte del giudice Paolo Borsellino.
Scotti descrive il clima di isolamento vissuto in quegli anni, insieme al ministro Martelli: “L’oggetto maggiore di contrasto era nei confronti di Falcone, del modo con cui condurre la lotta alla mafia”.
Con la formazione del governo Amato sia Scotti che Martelli nutrivano considerevoli aspettative di essere riconfermati nei rispettivi incarichi, anche in virtù dei brillanti risultati che venivano raggiunti: “Dicemmo che eravamo disponibili a continuare qualora il governo fosse stato convinto e determinato nel proseguire e sviluppare un’azione con un impegno straordinario di tutti” dice l’ex ministro. Scotti, dopo oltre vent’anni, spiega in modo particolareggiato ai pubblici ministeri l’improvvisa sostituzione di cui fu oggetto nel momento in cui si vide improvvisamente negata la carica di Ministro dell’Interno, nonostante gli ottimi risultati raggiunti fino a quel momento: nonostante le rassicurazioni del presidente Amato, con la formazione del nuovo governo a fine giugno ‘92 la carica non venne riconfermata. Una decisione che Scotti considera, dal punto di vista politico, un errore: in un momento delicato come quello che attraversava il Paese era più che mai indispensabile dare un segno di forza e di continuità nelle azioni che il governo avrebbe continuato a portare avanti, specialmente nel contrasto alla criminalità organizzata. Martelli e Scotti, con la preziosa collaborazione di Falcone, stavano compiendo un lavoro che avrebbe portato al raggiungimento di esiti brillanti. Un lavoro che invece venne palesemente ostacolato. Al posto di Scotti fu nominato Nicola Mancino. Il precedente ministro, infatti, si sarebbe opposto ad una linea d’azione fondata sulla connivenza e sul dialogo con la mafia, strategia poi appoggiata dagli esponenti politici che figuravano nella black list di Totò Riina, il quale aveva già provveduto ad eliminare il primo nome dell’elenco (l’onorevole Salvo Lima). Mancino, di tutt’altra pasta, figura oggi nell’elenco degli imputati per il processo trattativa Stato-mafia. Accusato di falsa testimonianza, gli è stata contestata una nuova aggravante, quella di “aver agito non solo per assicurare l’impunità ma anche al fine di occultare il reato di attentato mediante violenza o minaccia a un corpo politico, amministrativo o giudiziario dello Stato”, del quale rispondono tutti gli imputati eccetto l’ex ministro dell’Interno. Mancino, per ‘aggiustare’ la sua posizione, non disdegnò di rivolgersi al Capo dello Stato Giorgio Napolitano, anche tramite l’ex consigliere Loris D’Ambrosio (ed entrambi non si opposero all’apertura di un dialogo nei suoi confronti). Le conversazioni, intercettate dai pm di Palermo, sono state successivamente distrutte a seguito del conflitto d’attribuzione sollevato da Napolitano. L’ennesimo, oscuro capitolo della storia del governo italiano.
E’ dunque sufficientemente provato che Scotti non fu confermato al Viminale perchè la trattativa era in corso d’opera e Mancino, in quel momento, costituiva l’unico garante di quel patto diabolico. Scotti, che rappresentava un ostacolo, fu eliminato politicamente. Paolo Borsellino, ostacolo ben più potente, venne invece ucciso in via D’Amelio: si conclude così la prima trattativa. La seconda, invece, malgrado le stragi che si susseguirono l’anno dopo – il 1993 – a Roma, Firenze e Milano, è tuttora in corso.

Fonte:Antimafiaduemila