Trattativa Stato-mafia: i pm respingono la lettera di Napolitano

di Giorgio Bongiovanni e Aaron Pettinari
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La tanto discussa lettera inviata dal capo dello Stato alla Corte d’assise di Palermo, che celebra il processo sulla trattativa Stato-mafia, non entrerà nel fascicolo del dibattimento in quanto alcune parti processuali si sono opposte alla sua acquisizione.
A spiegare le motivazioni del diniego per la Procura è stato il procuratore aggiunto Vittorio Teresi che ha detto: “E’ una richiesta alquanto curiosa quella delle difese poiché questa lettera non è un documento formale, in quanto tale. È un atto che il presidente ha inteso inviare quale persona chiamata a testimoniare. Non credo che questo atto ‘diverso’ possa trovare ingresso nel dibattimento. Mentre la deposizione del capo dello Stato potrà chiarire alcuni aspetti fondamentali. Non ci sono norme che consentono di surrogare la testimonianza con scritti provenienti dallo stesso testimone. Si tratta di un atto fuori dalla regola che non ci consente di rinunciare alla testimonianza del capo dello Stato”. Quindi, confermando la richiesta di ascoltare il presidente della Repubblica come teste ha ribadito: “La lettera del capo dello Stato non può essere intesa come sostitutiva della testimonianza del teste. La lettera infatti non esaurisce l’argomento da chiarire così come da capitolato di prova”.

A chiedere l’acquisizione della lettera era stato il legale di Marcello Dell’Utri, Di Peri, che contestualmente aveva chiesto alla Corte di rivedere la sua decisione di ascoltare il capo dello Stato. E ad esso si era associato l’avvocato Milio napolitano-vertical(difesa di Mori e Subranni) e l’avvocatura dello Stato rappresentata dall’avvocato Dell’Aira. “Per noi è una deposizione inutile – aveva detto Di Peri – se non per alimentare un rumore mediatico che non serve a nessuno”.
Della stessa opinione della Procura invece erano stati i legali di Ciancimino, D’Agostino e Russo, Fioromonti (Brusca), Barcellona (Centro studi Pio La Torre) e Airò Farulla (Comune di Palermo). 
Proprio quest’ultimo per primo era intervenuto respingendo con forza l’acquisizione poiché “Se consentissimo ad un soggetto, seppur il presidente della Repubblica, con una semplice lettera, senza giuramento, di non testimoniare, si formerebbe un precedente pericolosissimo. Se il presidente non ha nulla da dire, ce lo dirà sotto-giuramento”.

La Corte prende atto
Nella lettera il presidente della Repubblica, precisando di non avere nulla da dire sul capitolato di prova indicato dalla Procura che ne aveva chiesto la citazione, invitava la corte a rivalutare l’utilità della deposizione.
Ma la mancata acquisizione della stessa missiva al fascicolo del dibattimento comporta che la corte non si pronuncerà in merito.
“La corte prende atto che non c’è il consenso sull’ingresso del documento e soprattutto sull’utilizzazione del suo contenuto rappresentativo – ha detto il presidente del collegio Alfredo Montalto – resta la sollecitazione ai poteri d’ufficio riservati alla corte che la stessa corte oggi registra, riservando al tempo debito le determinazioni che, se ne ricorreranno i presupposti, potranno essere adottate nel corso dell’istruttoria dibattimentale ai sensi della legge, così come indicato nell’ordinanza ammissiva delle prove”.

Il controesame di Giuffrè
All’udienza odierna si è anche ultimato il controesame del collaboratore di giustizia Antonino Giuffré.
L’ex boss di Caccamo, rispondendo alle domande della difesa degli ufficiali dell’Arma, Mori, De Donno e Subranni, si è soffermato su alcuni aspetti come la mancata perquisizione del covo di Riina ed i documenti che vi erano custoditi: “Credo che parte dei documenti presi a casa di Totò Riina siano finiti a Messina Denaro. Provenzano mi disse che a casa di Riina c’erano documenti, tra cui lettere che i due si erano scritti”.
giuffre-antoninoQuindi ha parlato del ruolo di Provenzano dopo l’arresto di Riina, spiegando la doppia azione del capomafia corleonese: “Inizialmente, si accodò a Bagarella, e a quella strategia. Temeva Bagarella. Nella prima fase, Provenzano era d’accordo con le bombe, con la strategia della destabilizzazione. Con noi però, usava un linguaggio differente, un linguaggio della sommersione: per essere chiari, usava linguaggi differenti a seconda delle circostanze. E quando eravamo da soli già c’era questa sorta di indottrinamento”.
Sul discorso delle stragi e la trattativa Giuffrè ha aggiunto: “Lo Scopo degli attentati e delle stragi era eliminare gli inaffidabili e far sì che si facessero avanti nuovi referenti politici per ottenere nuovi benefici a Cosa nostra”. E almeno in parte ciò è stato ottenuto: “Il risultato della strategia era stato ottenuto, perché strada facendo c’era stata l’attenuazione del 41-bis, il tentativo di togliere qualche 41-bis, la modifica della legge sui pentiti”. Ed anche sul fronte politico non mancarono risultati. “In un primo momento si era portato avanti il discorso della formazione autonomistica strettamente legata a Cosa nostra, nel contempo sul finire del 1993 si fece avanti Dell’Utri e venne resa nota la discesa in campo della formazione politica Forza Italia. A quel punto quella autonomistica venne accantonata”.
Giuffrè ha anche parlato degli omicidi di Falcone e Borsellino, “nemici giurati di Cosa nostra”. Il pentito ha spiegato che “quando la mafia vuole uccidere un personaggio eccellente, c’è tutto un discorso antecedente. Prima lo isola e poi lo ammazza. E loro erano ritenuti pericolosi non solo nel contesto mafioso ma anche in altri contesti perché hanno colpito interessi economici che vanno oltre l’organizzazione”. E su Borsellino ha aggiunto: “Era una delle poche persone in grado di ‘leggere’ il capitolo sull’’uccisione del dottore Falcone”.
Giuffrè ha anche parlato dell’ex Procuratore capo di Palermo, Pietro Giammanco: “Era una persona molto discussa in Cosa nostra. Sapevamo che non aveva buoni rapporti con Falcone e Borsellino”. L’ex giammanco-pietro-c-lunitaboss di Caccamo ha anche ricordato che a lui venne presentato “il rapporto Mafia-appalti”, che preoccupava fortemente l’organizzazione, “fu presentato a Giammanco, parente del capo ufficio del Comune di Bagheria, il cui figlio era intestatario dell’impresa della moglie di Provenzano. Si cercò di annacquare l’indagine che finì nelle mani di Falcone e Borsellino”. Giuffrè ha poi ricordato che in merito ai contenuti dei rapporti vi fu “una fuga di notizie”.

Induzione al suicidio

Rispondendo invece alle domande del sostituto procuratore Antonino Di Matteo il collaboratore di giustizia ha invece ricordato un paio di occasioni in cui venne invitato al suicidio. “Esplicitamente non è venuto nessuno a dirmi di non collaborare – ha detto – Però, sono stato oggetto, per due volte, dell’invito a mettermi un sacchetto di plastica in testa, un invito a suicidarmi. Nelle celle usavamo sacchetti della spazzatura forati. Un agente del Gom invece mi ha fornito sacchetti integri e mi ha detto: ‘Questo te lo devi mettere in testa’. E questo è avvenuto in due occasioni. Quando ho deciso di chiedere un incontro con l’allora Procuratore capo di Palermo, Pietro Grasso, l’ho fatto tramite la direttrice del carcere e non attraverso gli agenti proprio perché di loro non mi fidavo”.
Una volta concluso l’esame il processo è stato quindi rinviato alla prossima udienza che si terrà il 5 dicembre e sarà dedicata all’escussione del collaboratore di giustizia Leonardo Messina.

fonte:antimafiaduemila.com